ll 2017 ha stravolto l'Unione. Brexit, il tracollo dei partiti tradizionali in Francia, l'ascesa dell'ultradestra che preoccupa la Merkel. Ora la cancelliera e Macron vogliono rifondarla. Ma a decidere sull'esito del rilancio saranno le elezioni italiane
Ultima stazione, Italia. È la campagna elettorale più lunga della storia, per gli italiani e per l’Europa. Nel nostro paese sta per cominciare ufficialmente, ma nei fatti è già partita e si muove tra lo scontro sullo ius soli, le prove di ennesima legge elettorale, l’invocazione del voto utile contro le forze populiste e contro i partiti minori a destra o a sinistra, i candidati premier (in un sistema che non li prevede) che si autoproclamano salvatori della patria, come ha fatto il vice-presidente della Camera e neo-capo politico del Movimento 5 Stelle in un’intervista al quotidiano spagnolo El País (26 settembre): «Il nostro obiettivo è salvare il paese».
In Europa, invece, la campagna elettorale è in pieno svolgimento. È cominciata in Olanda il 15 marzo, con la vittoria del premier conservatore Mark Rutte che però nei successivi sei mesi non è riuscito a formare un nuovo governo, è proseguita tra aprile e maggio in Francia con il ballottaggio mai visto tra Marine Le Pen e il nuovo Emmanuel Macron, il voto dell’Inghilterra post-Brexit di giugno, le elezioni in Germania del 24 settembre. Con l’eccezione francese favorita dal sistema istituzionale presidenziale e dalla legge elettorale a doppio turno, sono voti che riconsegnano un panorama politico stravolto, irriconoscibile.
Spaesamento: in Francia per la prima volta i due partiti della Quinta Repubblica, i neogollisti e i socialisti, sono rimasti fuori dal secondo turno, in Germania i democristiani e i socialdemocratici hanno toccato il minimo storico e sommati raggiungono appena il 53,4 per cento dei voti e 399 seggi su 709 nel Bundestag, un margine non così ampio. La grande coalizione non c’è più, e non solo sul piano politico, sul piano numerico può aspirare al massimo a essere una maggioranza di sicurezza, come un tempo era il pentapartito italiano.
Al posto dei vecchi partiti, granitici e radicati in ogni piega della società, ci sono i movimenti nazionalisti, populisti, anti-europei o dichiaratamente xenofobi.
I partiti della crisi, germogliati come piante nel deserto negli anni della doppia recessione europea, economica e politica. Spazzano via la sinistra, non più rappresentante dei ceti popolari e rigettata dagli establishment, influenzano le mosse dei partiti moderati, conservatori, democristiani che sono costretti a inseguire gli umori profondi del loro elettorato per reggere all’ondata. E nelle prossime settimane arriveranno a rendere ancora più confuso il quadro il referendum-fantasma della Catalogna che terremota l’unità nazionale della Spagna e le elezioni politiche in Austria. In attesa dell’Italia, che di questo tour infernale nelle urne è l’ultima tappa, si voterà nel 2018, ma le riassume tutte.
La difficoltà di immaginare una maggioranza. L’instabilità politica. La spaccatura tra europeisti e anti-europeisti. Il peso crescente di una destra xenofoba con venature fascistoidi. Le leadership vecchie e semi-nuove che faticano a darsi una strategia da comunicare all’elettorato. E un sistema istituzionale esausto, in cui resiste il Quirinale, la presidenza della Repubblica che è prevista dalla Costituzione come motore di riserva che si accende se la normalità democratica si è inceppata.
Sono i mali dell’Europa, sintetizzati dall’Italia, che arriva alla fine del viaggio e che può fare la differenza, in una direzione o nell’altra, stabilire quali dei due fronti ha vinto questo match, chi vuole cambiare l’Europa o chi vuole semplicemente distruggerla. Mentre gli Stati europei più forti cercano di riorganizzarsi, sulle macerie della vecchia Unione, ormai finita.
Il progetto di nuova Europa è stato lanciato da Macron all’indomani del voto in Germania. Con un pacchetto di proposte che prescinde completamente dalle istituzioni di Bruxelles, destinate a fare la fine dell’intendenza, chiamata a seguire i processi, non guidarli. «Di fronte alle nuove sfide l’impulso franco-tedesco sarà decisivo», ha detto il presidente francese nel suo discorso alla Sorbonne del 26 settembre. Una forza comune di intervento, un budget unitario di difesa, una polizia di frontiera europea che sappia presidiare spazi comuni di frontiere, asilo e migrazioni.
Le parole di Macron non nascondono l’ambizione di unire gli apparati statali di Francia e Germania (polizia, esercito, intelligence) che presidiano la forza dei rispettivi Stati, sovranità nazionali che si sovrappongono. E il disegno di un’egemonia nell’area del Mediterraneo, di cui il protagonismo di Macron in Libia è appena un segnale, e in Africa, dove l’attivismo della Germania e gli investimenti sono all’inizio e si parla di piano Merkel al posto della logora immagine del piano Marshall. E poi ancora reti, infrastrutture, la costruzione di un soggetto franco-tedesco a trazione francese in grado di competere con i giganti Usa, Russia, Cina, India, i vincenti del nuovo ordine mondiale del XXI secolo, di cui la fusione tra la francese Alstom e la tedesca Siemens che farà nascere un colosso ferroviario da 60 mila addetti e 15 miliardi di euro è un primo passo.
Nell’improvvisa e imprevista debolezza politica della Merkel, chiamata a settimane, forse mesi, di trattative per formare il nuovo governo,
brilla solitaria la stella di Macron che si candida a essere il leader del nuovo corso. Per tutti gli altri paesi c’è l’offerta di partecipare a un «gruppo di rifondazione europea» che dovrà preparare entro l’estate del 2018 le proposte di riforma dei trattati Ue. Senza più attendere le liturgie e le lentezze di Bruxelles.
Come arriverà l’Italia all’appuntamento della rifondazione europea? Se lo domandano nelle cancellerie europee e nei conciliaboli italiani. La domanda ha tenuto banco la settimana scorsa durante il ricevimento offerto dall’ambasciata tedesca a Roma nella residenza di rappresentanza Villa Almone nella serata elettorale, la stessa che ospitò un anno e mezzo fa la clamorosa esternazione del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, il più tenace critico della politica monetaria della Banca centrale europea guidata da Mario Draghi e principale candidato alla sua successione. Nella notte elettorale della Germania, con i primi dati che segnavano il crollo della Spd, la sconfitta numerica di Angela Merkel e l’ingresso trionfale nel Bundestag di Afd, con il suo mix di negazionisti, ultraliberali, no-euro e anti-migranti, i tedeschi sembravano diventare un po’ italiani, alle prese con calcoli di seggi, alchimie, coalizioni asimmetriche, organigrammi. E gli ospiti italiani, da Franco Frattini a Franco Bassanini, da Linda Lanzillotta a Marta Dassù, in questo scenario di frammentazione e di alleanze spurie dispensavano qualche buon consiglio.
Ma la debolezza italiana è destinata a riemergere nei prossimi mesi. «Francesi e tedeschi hanno stretto un patto su tutto, si sono messi al riparo da ogni tensione politica. E l’Italia rischia di essere completamente tagliata fuori», traduce il manifesto di Macron chi in Italia sa leggere in controluce le schermaglie diplomatiche. Con l’eccezione dei militari, affidabili e stimati, destinati ad avere un ruolo importante nel progetto di difesa comune europea, già lanciato a suo tempo dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. E non per nulla l’accordo Italia-Francia su Stx-Fincantieri che riconosce all’Italia il 51 per cento della società si estende al settore strategico della cantieristica militare.
È il primato della forza che ritorna in campo, quel che resta dopo l’annichilimento delle sovranità nazionali superate dal primato dell’economia: le forze armate, gli apparati di sicurezza, l’intelligence. Qualcosa in cui oggi l’Italia sembra essere all’altezza dei partner europei, tra le missioni di peacekeeping e le operazioni di prevenzione del terrorismo islamico.
Ma è l’unico settore promosso. Il sistema istituzionale vacilla e nei consessi europei i rappresentanti italiani faticano a rispondere alle più banali delle domande: chi farà il candidato premier, chi vincerà le elezioni?
Più che costruire una risposta a queste domande la legge elettorale in arrivo nell’aula di Montecitorio, il cosiddetto Rosatellum bis dal nome del capogruppo Pd Ettore Rosato, sembra il prodotto di
una ragnatela di convenienze parallele. La convenienza del Pd renziano di poter contare su qualche coalizione territoriale nei collegi uninominali con un pezzo di sinistra (Giuliano Pisapia) o di centro (Angelino Alfano), con l’isolamento di Mdp (Bersani-D’Alema). E la convenienza per Silvio Berlusconi di disegnare a sua immagine e somiglianza i gruppi parlamentari. Ma il centrodestra che sembrava riunirsi e risultava premiato dai sondaggi si ritrova spaccato dopo il voto tedesco tra i tifosi dell’Afd, come il leghista Matteo Salvini, e i sostenitori della Merkel, come Silvio Berlusconi. L’ex premier era stato riaccolto nel Ppe dominato dai tedeschi dopo un lungo ostracismo perché è riuscito a farsi considerare come l’unico leader in grado di tenere a bada i partiti populisti italiani, a partire dalla Lega, ben più di Matteo Renzi che ha deluso nella sfida con il Movimento 5 Stelle. Se Forza Italia dovesse finire come alleato minore della Lega il ruolo di Berlusconi verrebbe meno.
È questo l’oggetto del contendere all’interno di Forza Italia tra chi vorrebbe il Rosatellum e chi invece si oppone: tra loro Gianni Letta, il meno disponibile a sposare la Lega nei collegi del Nord, un abbraccio mortale. Per Berlusconi un indebolimento non solo politico, c’è da curare il tassello dell’altra grande partita italo-francese, Tim-Vivendi-Mediaset.
Sarà il risultato delle elezioni e la possibilità di formare una maggioranza stabile a decidere
se l’Italia farà parte del gruppo degli aspiranti rifondatori dell’Europa, o di quello dei potenziali distruttori. Il governo di Paolo Gentiloni doveva essere solo una breve parentesi, invece si è trasformato in una carta da giocare anche per il futuro, soprattutto in assenza di prospettive sicure.
I prossimi giorni saranno decisivi: il voto parlamentare sulla nota di aggiornamento del Def che richiede la maggioranza assoluta, il difficile quorum di 161 sì da raggiungere al Senato, sarà il primo banco di prova. C’è lo scontro dentro la maggioranza tra Pd e Alfano sullo ius soli. E poi la legge elettorale in arrivo alla Camera. Mentre per la prossima legislatura Massimo D’Alema preconizza già un governo del presidente, il Quirinale chiamato a sbloccare l’impasse. Nel frattempo l’Europa, almeno l’Europa tedesca, si italianizza, alla ricerca di coalizioni che non siano solo deboli maggioranze politiche. Toccherà all’Italia decidere da che parte pende la bilancia della politica Ue. Se il progetto di rifondazione sarà ristretto alla Francia di Macron e alla Germania di Merkel IV o se si allargherà. Nell’ultima stazione elettorale, quella italiana, si giocano il destino e la composizione della nuova Unione.