Chi sta con Minniti e chi lo contesta. Neoliberisti e solidali. Il segretario è di fronte alla sfida decisiva che, in caso di fallimento, porterà alla dissoluzione

Nicola Zingaretti
Chi non la vuole, ha denunciato la “svolta a sinistra”. Ma la conferenza bolognese del Pd è stata tutt’altro: l’inizio di un percorso, che potrebbe portare lontano, di ripensamento dell’identità e della proposta politica del partito. Che questa sia una prospettiva realistica si è capito subito, grazie all’entusiasmo suscitato dalla relazione di Fabrizio Barca. Da tempo non si discuteva di idee, e del modo di trasformarle in politiche, in un’assemblea del Pd, e il fatto che le idee fossero quelle di una sinistra moderna, problematica e appassionata, non poteva passare inosservato. In fondo, nonostante quel che alcuni cercano di sostenere oggi, il partito non era nato per fare la nuova Democrazia Cristiana, o per offrire asilo ai reduci del Berlusconismo.

Nasceva per dare una casa ai progressisti, non per liquidare la sinistra sostituendola con il partito “dei ceti produttivi del Nord” (qualunque cosa questa formula fuori tempo e fuori luogo voglia dire). Che Barca abbia davvero smosso le acque, trova conferma anche nelle reazioni di chi, fuori e dentro il partito, non vuole che la linea seguita da Matteo Renzi negli anni della sua segreteria venga messa in discussione. In questo senso si spiegano le polemiche, subito apparse pretestuose, visto che l’interessato aveva precisato il suo pensiero, sulle dichiarazioni del ministro Provenzano che denunciava gli squilibri nello sviluppo di diverse aree del paese. Oppure il tentativo di far passare Giorgio Gori per il nuovo Bernstein.

L’idea di chi vuole fermare il cambiamento, bloccando la discussione iniziata a Bologna, è che a sinistra non c’è niente che valga la pena di prendere in considerazione, ma che il partito dovrebbe invece guardare a destra. Assecondando istinti e interessi di chi ha votato di recente per Berlusconi o persino per Salvini. Una posizione rinunciataria, che si presenta come “moderna”, ma che non fa che riproporre vecchie ricette, e non tiene conto del fatto che sono cambiati completamente i termini di riferimento rispetto agli anni Novanta (l’età dell’oro in cui la sinistra vinceva, con politiche pesantemente condizionate dalle idee del neoliberalismo, scommettendo su un futuro di vacche grasse che invece non si è materializzato).

Editoriale
Non perdetevi di vista
26/11/2019
Certo, trattandosi del Pd, la probabilità che qualcosa vada storto è molto alta. Negli ultimi anni la destrutturazione organizzativa e le misure orientate a scoraggiare la partecipazione attiva degli iscritti (perché fare la fatica di partecipare alla vita di un partito se il mio voto pesa quanto quello di chiunque altro nella scelta del segretario?) hanno trasformato il Partito Democratico in un’associazione dall’identità vaghissima e dagli scopi generici.

Un arcipelago in cui c’è posto per chi firma l’accordo con la Libia sui migranti e per chi lo contesta. Per chi difende una visione neoliberale dell’economia e per chi rivendica con orgoglio la propria appartenenza alla sinistra. Un’alleanza precaria e dai confini incerti, dunque, guidata da un ceto politico che in larga misura si è formato negli anni finali della prima repubblica (per fortuna, verrebbe da dire, visto che all’aver militato in partiti tradizionali si deve ancora quel minimo di professionalità che ancora esprime). Tenere saldo il timone in queste circostanze, in acque che sono già molto agitate, e che potrebbero presto diventare tempestose, non sarà facile.

Nicola Zingaretti va incontro a una sfida decisiva: rifare il Pd, trasformandolo nel perno di un fronte riformista e solidale, oppure presiedere al disfacimento finale del partito.