Partiti personali, partiti azienda, fondazioni opache. I leader della terza repubblica hanno fallito sulla trasparenza dei finanziamenti. E sulla promessa di una nuova politica

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«I partiti organizzino la democrazia, non siano enti pubblici. Il finanziamento pubblico va abolito o drasticamente ridotto e in ogni caso commisurato al solo rimborso delle effettive spese elettorali, condizionandolo al fatto che i partiti abbiano statuti democratici, riconoscano effettivi diritti di partecipazione ai propri iscritti e selezionino i candidati alle cariche istituzionali più importanti con le primarie. Favorire il finanziamento privato sia con il 5 per mille, sia attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità». Recitava così la proposta numero sette delle cento uscite dall’edizione 2011 del raduno della stazione Leopolda, presentate dal giovane sindaco di Firenze che lanciava l’assalto al cielo della politica nazionale, Matteo Renzi.

«Quanti voti avrebbero preso i partiti nelle ultime elezioni senza i finanziamenti pubblici? Per saperlo faremo un referendum sull’abolizione dei finanziamenti, quelli che pudicamente sono chiamati “rimborsi” e che costano circa un miliardo di euro ai cittadini», aveva scritto Beppe Grillo sul suo blog il 15 maggio di quell’anno, annunciando un referendum sull’abolizione dei rimborsi. «Il MoVimento 5 Stelle ha dimostrato che si può fare politica senza chiedere un centesimo ai cittadini. I partiti si adeguino: il loro costo sociale è abnorme, ma soprattutto inutile. Si deve partecipare alla vita pubblica per servizio sociale, non per lucro».

In quel momento, al tramonto del berlusconismo e di fronte alla difficoltà del Pd allora guidato da Pier Luigi Bersani di costruire l’alternativa, Renzi e Grillo rappresentavano le novità della politica italiana. Gli uomini della rottamazione e del vaffa, divisi su tutto, erano uniti su un punto: chiudere, smantellare i partiti, con i loro apparati, strutture, dirigenti. Interrompere il flusso di soldi pubblici destinati a rimpinguare le casse dei partiti: la legge del 2002, voluta dai tesorieri di Ds, Forza Italia e Lega Nord, Ugo Sposetti, Rocco Crimi e Maurizio Balocchi, che trasformava i rimborsi elettorali in finanziamento pubblico, come nel miracolo delle nozze di Cana, l’acqua tramutata in vino.

A denunciare il marchingegno, in quel momento, furono in pochi, tra loro l’inventore dell’Ulivo Arturo Parisi. Nel 2011, invece, attaccare i partiti che divoravano risorse pubbliche, in una stagione di austerità, era una scelta azzeccata ma ben più comoda, e per di più in sintonia con i tempi. Nel gennaio 2012, infatti, la procura di Roma cominciò un’indagine clamorosa che portò all’arresto del senatore del Pd Luigi Lusi, già tesoriere della Margherita di Francesco Rutelli.
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Lusi confessò di essersi intascato tredici milioni di euro dalle finanze del partito che amministrava a suo piacimento, anche perché intanto era nato il Pd e la Margherita aveva interrotto le sue attività, come i Ds: alla fine i milioni rubati allo Stato arrivarono a 25 e Lusi fu condannato in via definitiva dalla Cassazione a sette anni. Nel mese di aprile dello stesso anno, un altro tesoriere di partito scivolò sullo stesso reato. Questa volta si trattava di Francesco Belsito e la vicenda era ancora più avvincente e avvilente perché nel suo caso il partito era la Lega Nord di Umberto Bossi. Anche per Belsito arriverà la condanna della Cassazione, con il non luogo a procedere per il fondatore della Lega e del figlio Renzo, l’indimenticabile Trota. Parte da lì la corsa dello Stato, dunque dei cittadini italiani, per riprendersi il maltolto del partito dei secessionisti e poi dei sovranisti, i famosi 49 milioni, frutto di una truffa.
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Renzi e Grillo erano il nuovo. I profeti di una politica leggera, senza oneri per i cittadini, senza soldi pubblici, con strutture agili, il contrario degli elefantiaci vecchi partiti, con i loro palazzi, immobili, sezioni, patrimoni, giornali, il loro piangere miseria per la penuria di fondi pubblici che nascondeva le ruberie private, fotografate già negli anni Ottanta dal socialista Rino Formica: «Il convento è povero, ma i frati sono ricchi». Si era arrivati all’estremo, tesorieri che rubavano a se stessi, i partiti non fecero nulla per auto-riformarsi, solo nel 2013 il governo di Enrico Letta avviò in Parlamento la legge che aboliva il finanziamento pubblico, ma ormai era troppo tardi. Il Movimento 5 Stelle era arrivato in Parlamento, con otto milioni di voti. Il giorno dell’approvazione, i suoi senatori si presentarono nell’aula di Palazzo Madama con il cartello “No alla legge truffa”, ricordando di aver rinunciato a 42 milioni di euro di rimborsi. Renzi conquistò la segreteria del Pd e subito dopo sloggiò Letta da Palazzo Chigi: la legge che aboliva il finanziamento fu pubblicata per beffa dalla Gazzetta ufficiale il 24 febbraio 2014, quando Letta aveva consegnato sdegnosamente il campanellino simbolo della guida del governo a Renzi da meno di quarantotto ore.

Inchiesta
La villa di Matteo Renzi comprata col 'prestito' da 700 mila euro del finanziatore di Open
27/11/2019
Renzi e Grillo erano il nuovo, oggi sono ammaccati, precocemente invecchiati. Si scambiano insulti e accuse, pur essendo soci di maggioranza nella coalizione che regge il governo Conte 2, nato grazie al loro appoggio determinante. L’ex premier è uscito dal Pd per fondare un partito personale, Italia Viva. Il fondatore di M5S sembra essersi spazientito della sua creatura. I loro uomini si inseguono sui social, minacciano commissioni parlamentari di inchiesta su collaborazioni, consulenze con società pubbliche italiane, europee e cinesi, alludendo all’attivismo della Casaleggio associati sul fronte cinese, da parte renziana. Rispondono con l’invocazione di commissioni sull’uso dei fondi e dei finanziamenti, da parte grillina. La novità di stagione della politica italiana, Matteo Salvini, in politica da un quarto di secolo, rifiuta di rispondere alle domande sui canali di finanziamento della sua Lega, ha disertato il Parlamento sul Russiagate, intanto il tesoriere del suo partito Giulio Centemero è sotto inchiesta e rischia il processo, al pari di Francesco Bonifazi, l’ex tesoriere del Pd in epoca renziana.

Anche chi ha contrastato la legge sui rimborsi elettorali deve ammettere che l’abolizione del finanziamento pubblico non ha consegnato agli italiani una politica più pulita, semmai più opaca. E si fa ancora più densa la commistione tra incarichi pubblici e interessi privati, la confusione con gli affari strettamente personali come l’acquisto di un’abitazione, lo racconta l’inchiesta di copertina di questa settimana firmata da Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian a proposito della casa di Renzi a Firenze. Altro che trasparenza, tracciabilità e pubblicità, come predicavano i programmi della Leopolda renziana ai bei tempi della rottamazione. E altro che vulnus alla democrazia, come ha scritto l’ex premier attaccando la magistratura che indaga sulla fondazione Open, o cancellazione del principio di separazione dei poteri. Quel procuratore Giuseppe Creazzo messo nel mirino dall’ex braccio destro renziano Luca Lotti nelle conversazioni intercettate durante le nottate con i membri del Csm. Il coacervo, lo ha definito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Quattro anni fa (14 gennaio 2016)L’Espresso con Paolo Biondani provò a monitorare le fondazioni, i bacini di reclutamento della nuova classe politica, e dimostrò la quasi impossibilità, anche per le prefetture, di venire a capo dei nomi dei finanziatori. Commentando quella inchiesta, un magistrato di primo piano, Raffaele Cantone, nominato dal governo Renzi alla guida dell’Autorità anti-corruzione, tornò a indicare nelle fondazioni il buco nero che avrebbe inghiottito la residua speranza di una politica trasparente: «Più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. È assolutamente inaccettabile l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. La riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’è trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

La fotografia fedele di quanto sta avvenendo oggi, nonostante le nuove leggi e la Spazzacorrotti del governo gialloverde che nelle intenzioni vorrebbe equiparare le fondazioni ai partiti e agli enti politici. Nel frattempo, però, il processo di decomposizione della politica è proseguito: si moltiplicano partiti personali, partiti azienda che decidono sulla vita o la morte dei governi, come avvenne alla fine della crisi estiva quando la piattaforma Rousseau votò sull’avvio del Conte due, partiti che centralizzano le due funzioni chiave, il finanziamento e la comunicazione, nelle mani del leader e dei suoi accoliti, come accade per Renzi e per Salvini.

Esclusivo
Matteo Renzi e Open: i nuovi nomi. E quegli 800mila euro dall'imprenditore (poi candidato)
28/11/2019
Follow the money, segui i soldi, e alla fine della strada trovi, ancora una volta, il deserto della rappresentanza e la voragine tra i partiti e la società. I soldi non sono più lo strumento per fare politica, com’è stato perfino in era Tangentopoli, ma diventano il fine ultimo di imprenditori che si atteggiano a politici. Una considerazione banale che rende quasi oziosa la domanda se venga prima la Casaleggio o il Movimento o la fondazione Open o Italia Viva oppure l’associazione Più Voci o la Lega Salvini premier, e si potrebbe andare avanti. Non è questione, soltanto, di inchieste giudiziarie, che hanno i loro tempi e i loro obiettivi, ma di sanare questa ferita. È questo il vero vulnus democratico. Strano che i nuovi leader di ieri non se ne accorgano, nel chiuso del loro fortino.

Nel Parlamento delle risse e nel governo delle divisioni su tutto, dal fondo Salva-Stati alle nomine Rai, si fa sempre più forte la tentazione di elezioni anticipate, forse addirittura prima del voto in Emilia Romagna e in Calabria di fine gennaio. A osservarlo, senza auspicarlo, è stato con un tweet l’ex deputato Pierluigi Castagnetti, amico personale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: un eventuale scioglimento anticipato delle Camere prima di metà gennaio, dopo l’approvazione della legge di bilancio, eviterebbe il referendum sulla legge elettorale della Lega e gli effetti della riforma costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari (vedi Michele Ainis).

Poi, c’è la politica. Che vede la maggioranza Pd-M5S in difficoltà, con il Movimento che è sempre più l’epicentro della crisi, visto il dimezzamento del suo capo politico Luigi Di Maio. Era il leader buono quando M5S doveva confrontarsi con il Pd di Renzi e dunque fare il pieno dei voti moderati e di destra, ma è unfit quando serve il percorso opposto, un Movimento aperto a sinistra. A destra gli spazi si chiudono, sotto la leadership di Salvini. In Europa e nelle istituzioni che più hanno a cuore la stabilità politica del Paese, Quirinale in testa, avanza la preoccupazione sulla debolezza del governo Conte 2.

Ha colpito che Silvio Berlusconi e il residuo di Forza Italia si siano accomodati senza colpo ferire sul carro salvinista. Spetta al capo della Lega fare l’ultimo passo e garantire i pilastri del sistema, la scelta europea e la fedeltà alla Costituzione, magari promettendo l’elezione di un capo dello Stato nel 2022 che garantisca tutti: un Mattarella rinnovato, anche se è difficile che l’attuale presidente voglia ripetere quanto fatto dal predecessore Giorgio Napolitano in condizioni eccezionali, o Mario Draghi, per esempio, come ha già fatto capire il numero due della Lega Giancarlo Giorgetti. Un nuovo patto istituzionale. Si gioca tutto in poche settimane, mentre si inseguono complotti che non ci sono, per rilanciare progetti politici traballanti.