Analisi

La villa, il prestito, la fondazione: ecco perché Matteo Renzi è il politico più detestato d'Italia

di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian   9 dicembre 2019

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Poltrone d’oro, parcelle milionarie, prestiti da imprenditori, favori reciproci: giunti al potere, i rottamatori del Giglio magico sono finiti in scandali di ogni tipo. Al netto della rilevanza penale, il comportamento del capo e dei suoi fedelissimi ha bruciato in pochi anni un consenso che era gigantesco

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Per capire come mai Matteo Renzi, l’enfant prodige della politica italiana capace di portare solo cinque anni fa il Pd oltre il 40 per cento, è diventato il leader più divisivo e detestato d’Italia basta guardare la fotografia del comitato direttivo della Fondazione Open.

Nell’organismo compaiono tutti i luogotenenti del renzismo. Che raccontano, con le loro storie e i loro inciampi, i motivi reali della crisi politica in cui s’è avvitato l’ex fenomeno di Rignano sull’Arno. Da Maria Elena Boschi che chiedeva all’ad di Unicredit di comprare Banca Etruria al presidente Alberto Bianchi incassatore di consulenze per conto di Consip e dei Gavio, fino al sussurratore Marco Carrai e a Luca Lotti detto “il Lampadina”, imputato a Roma e intercettato con Luca Palamara. Le vicende del Giglio magico sono metafora del “rise and fall” della falange venuta dalla provincia. Dopo aver preso il Palazzo grazie alla forza carismatica del capo, si è trasformata nell’immaginario da banda di coraggiosi rottamatori a gruppo di sodali intenti – più che al bene pubblico – ai propri interessi.

«Non sono un traffichino!», si giustificò Renzi a Matrix due anni fa, mostrando il suo estratto conto da 15 mila euro, per dimostrare che con la politica non s’era arricchito. «Open è la fondazione più trasparente del mondo, i magistrati di Firenze che stanno indagando sulle donazioni vogliono solo colpire Matteo e il suo nuovo partito», ripetono oggi gli onorevoli di Italia Viva, che temono il declino politico del senatore di Scandicci. La scorsa settimana ha visto la fiducia crollare, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos che misura il consenso personale dei leader, a un misero 10 per cento, dietro pure a Silvio Berlusconi.
«Non c’è nessun reato», urlano fan e cantori di Matteo. Che indicano giornalisti, i magistrati, poteri forti e nemici assortiti come i responsabili veri del complotto. Unici untori della “sindrome di Malaussène” che avrebbe infettato Renzi e i suoi uomini, diventati ingiustamente capri espiatori di ogni male del mondo come accade al protagonista dei romanzi di Daniel Pennac.
Inchiesta
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TUTTO CASA E DENARI
Se pure è vero che Matteo si è fatto parecchi avversari, che i grillini e la Bestia di Matteo Salvini hanno usato i social e le fake news contro di lui come una clava, causa primaria della decadenza di Renzi non sono improbabili cospirazioni. Né presunti reati ancora non dimostrati. Piuttosto gli errori e i comportamenti del capo e dei devoti hanno allontanato le simpatie e i favori degli elettori.
L’Espresso la scorsa settimana ha rivelato la vicenda del prestito da 700 mila euro che Renzi ha ottenuto dalla famiglia Maestrelli. Denaro che, come ricostruito dagli investigatori dell’antiriciclaggio di Banca d’Italia, è arrivato da una società dell’amico Riccardo specializzato nell’ortofrutta (nominato in Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare nel 2015), e che è stata schermata dietro il conto corrente della madre Anna Picchioni.
Al di là dei fascicoli giudiziari, è opportuno che un politico di primo piano compri una villa da 1,3 milioni di euro con un’operazione finanziaria che Bankitalia definisce «anomala»? Ha sorpreso il fatto che l’ex premier sia riuscito a restituire il prestito dopo cinque mesi grazie ai soldi ottenuti dal manager delle star tv Lucio Presta: attraverso una sua società ha liquidato il leader (per il documentario “Firenze secondo me” uscito su Discovery lo scorso dicembre con il 2 per cento di share) con quasi mezzo milione di euro. Una somma che appare agli esperti fuori mercato.
Renzi non ama fare autocritica. Ma il consenso rischia di crollare anche a causa di notizie che, seppur prive di rilevanza giudiziaria, sono dense di convenienza etica. Come quella per esempio del “tariffario” per interloquire con il rottamatore: in una mail di Bianchi pubblicata da Repubblica si legge che investendo «100 mila euro per cinque anni» imprenditori e manager potevano parlare direttamente con l’ex premier o, in subordine, con Carrai e Bianchi. Per non parlare degli effetti mediatici delle donazioni a favore di Open effettuate da impresari (come Gianfranco Librandi, che ha girato 800 mila euro, e l’ex grande fratello Mattia Mor, che ha detto di non ricordare la cifra esatta bonificata) inseriti poi nelle liste elettorali per la Camera dei Deputati.

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DALLA COMPETENZA ALLA FEDELTÀ
«Renzi aveva il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in lui una confusione tra paese e Paese», spiegava Ezio Mauro ai tempi dello scandalo Consip, quando si scoprì che il babbo Tiziano Renzi (condannato in un altro procedimento qualche mese fa in primo grado a un anno e nove mesi di carcere per false fatture) era accusato di aver fatto pressioni per condizionare le gare della grande stazione appaltante dello Stato.
Ecco: è stato lo spread tra annunci roboanti sulla meritocrazia e una selezione della classe dirigente fondata quasi esclusivamente sulla fedeltà e su interessi particolari, molto più delle inchieste giudiziarie, il detonatore dello scontento che sta affossando Matteo. Insieme a mosse e giravolte politiche spericolate (gli ammiccamenti con Denis Verdini, la nascita del Conte bis, una scissione con il Pd ancora dolorosa) e a un groviglio di bonifici e affari degno di una merchant bank.
Prendiamo la vicenda di Alberto Bianchi. Avvocato di Pistoia, vera testa pensante del Giglio fin dal principio, è indagato per traffico di influenze illecite e finanziamento ai partiti. La rilevanza penale è tutta da confermare, ma di certo il presidente di Open fu piazzato come fedelissimo nel cda Enel. Ed è un fatto che lo stesso Bianchi abbia ottenuto da Consip, anche quando era amministrata da un uomo messo dal governo Renzi, consulenze per centinaia di migliaia di euro. È acclarato che Bianchi abbia incassato dal Gruppo Toto, sul suo conto corrente personale, parte del compenso avuto dal suo studio legale per risolvere un contenzioso milionario tra Toto e Autostrade per l’Italia. Dei 750 mila euro ricevuti dagli imprenditori, quasi subito 400 mila sono stati inviati ad Open al Comitato referendario “Basta un sì”.
Anche Marco Carrai, amico intimo di Renzi da quand’erano ragazzi, è l’esempio perfetto di un’ambizione irrefrenabile. Il gemello diverso dell’ex presidente del Consiglio, una sorta di Gianni Letta in miniatura nato a Greve in Chianti 45 anni fa, è da sempre l’uomo del Giglio adibito ai rapporti con le lobby fulminate sulla via del renzismo.
Dell’ipotesi di finanziamento illecito ipotizzata per lui dai pm di Firenze per adesso interessa poco o nulla. Né Renzi né Carrai possono però negare che Marchino, ex segretario di Renzi ai tempi della Provincia di Firenze e membro del direttivo di Open, negli anni sia riuscito ad ottenere incarichi di prestigio in alcune partecipate pubbliche nella renzianissima Toscana. Manager a Firenze Parcheggi, poi Presidente degli Aeroporti di Firenze, nel 2015 è stato sponsorizzato dalla presidenza del Consiglio per una poltrona a Palazzo Chigi. Nientemeno che per il delicatissimo compito di responsabile della cyber security. Curriculum insufficiente, si disse, mancando al nostro anche una laurea. Presto si scoprì pure che Carrai, già finito sui giornali per aver prestato gratuitamente la sua casa fiorentina all’allora sindaco, qualche mese prima aveva fondato la Cys4, una spa che avrebbe potuto mirare ai futuri appalti banditi dal governo dopo la creazione, voluta da Renzi, di un nucleo per la sicurezza cibernetica.

A causa delle polemiche, la candidatura tramontò. Come insegna Jacques de La Palisse, non sarebbe stato più logico e deontologico puntare su un esperto in sicurezza proveniente dalle nostre forze dell’ordine, piuttosto che sul vecchio compagno di tante partite a Risiko in pieno conflitto d’interessi?

«Carrai è indagato per concorso esterno in finanziamento illecito, una fattispecie incredibile», è l’appassionata difesa di Renzi qualche giorno fa. Ma non è solo questione di blitz e perquisizioni della finanza per entrare nei segreti di Open. A sollevare interrogativi di opportunità politica è anche la rete di società che Carrai ha costruito in Lussemburgo. O pure i contorni non ancora chiariti del «prestito infruttifero» da 20 mila euro, svelato da L’Espresso, che l’amico ha girato a Renzi ad aprile 2018. Senza dimenticare alcune curiose coincidenze: il boom dell’azienda di consulenza Cmc Labs avvenuto tra il 2013 e il 2015, quando Carrai e soci hanno quadruplicato il fatturato e aumentato l’utile di 30 volte.

La trasparenza di cui vanno orgogliosi i renziani vacilla peraltro dopo la lettura di alcune mail che Marchino spedì all’ex ad di Unicredit Ghizzoni. «Ciao Federico», ha scritto il consigliere di Open al banchiere nel 2015. «Solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile e nel rispetto dei ruoli, per una risposta». A che titolo Carrai interloquiva con il capo di una delle più grandi banche del Paese su Etruria, l’istituto in cui lavorava il papà di Maria Elena Boschi? «Ero solo consulente di un cliente privato interessato a Banca del Vecchio, controllata da Etruria. Renzi non sapeva niente, e se in quella banca c’era il padre della Boschi a me non interessava nulla. Non sono un politico e non appartengo a nessun partito».

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LA QUESTIONE MORALE
Se Unicredit, un mese dopo la mail suddetta, sottoscrisse con un’altra società di Carrai un contratto per “profilare” al meglio i big data dell’istituto (una srl nata due mesi prima; Unicredit possiede Ubis, una delle più grandi realtà europee di information management), la Boschi ha provocato un terremoto politico chiedendo allo stesso Ghizzoni (come scoprì Ferruccio de Bortoli) se era ipotizzabile un’acquisizione o un intervento per aiutare la banca dove lavorava il padre. Una richiesta in pieno conflitto di interessi: a che titolo un ministro non competente in materia provava a salvare la banca così cara alla famiglia?

Nulla di illecito, ma politicamente discutibile. Sappiamo, ancora, che Francesco Bonifazi è indagato dai magistrati romani per i 150 mila euro che la Fondazione Eyu, di cui il renziano tesoriere del Pd era numero uno, ha ricevuto nel 2018 da società riferibili al costruttore Luca Parnasi. Nella stessa inchiesta è coinvolto Giulio Centemero, il tesoriere della Lega di Matteo Salvini. Ora, eventuali reati andranno verificati dai giudici. Ma è possibile che il maxi-importo sia stato giustificato da Eyu come contropartita per uno studio di poche pagine intitolato “Case: il rapporto degli italiani con il concetto di proprietà”? Si può essere più trasparenti di così?
Anche per l’ultimo petalo del Giglio che sedeva nel consiglio direttivo della Open deve valere il principio di innocenza. Luca Lotti è imputato per favoreggiamento nel filone d’inchiesta sulla fuga di notizie del caso Consip. Ha sempre respinto con vigore ogni accusa, e in dibattimento non sarà facile dimostrare per i magistrati romani che fu lui a rivelare l’esistenza dell’inchiesta dei carabinieri del Noe all’allora ad di Consip Luigi Marroni. Così come è probabile che la carta di credito di Open in sua dotazione sia stata usata solo per pochi rimborsi spese legate alla sua attività nel board. Lotti, che è rimasto nel Pd, è stato però travolto dalle intercettazioni della procura di Perugia e del Gico della Gdf, che ha ascoltato le sue conversazioni con l’amico pm Luca Palamara e il ras di Magistratura indipendente Cosimo Ferri, eletto deputato con il Pd e da poco passato a Italia Viva. Colloqui imbarazzanti che avevano al centro le nomine dei più delicati uffici giudiziari d’Italia, a partire da Roma. Lotti non risulta ad ora aver commesso reati, tuttavia un parlamentare che discetta di chi piazzare alla guida di una procura dove lui è imputato, e di come danneggiare il pm anticorruzione che l’ha rinviato a processo (Paolo Ielo), non aiuta la sua immagine. E quella del gruppo di potere a cui è appartenuto fino a tre mesi fa.
La crisi di legittimazione di Renzi dipende dai troppi interrogativi a cui il senatore non vuole, o non può rispondere. Sulla caparra della villa di Firenze e il prestito del finanziatore della fondazione Open, sulle azioni dei fedelissimi, o sull’opportunità di avere tra i finanziatori di Open Alfredo Romeo, Vittorio Farina (ex socio di Luigi Bisignani) oppure altri imprenditori che, come scrivono gli investigatori della Uif «spesso sono coinvolti in vicende giudiziarie legate ad illeciti di natura fiscale-finanziaria».

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E poi c’è quel groviglio di relazioni e business di protagonisti che si muovono in provincia che gira intorno al cerchio magico. Come Andrea Bacci, amico di Maestrelli e vicinissimo a Piero Amara, passando per Patrizio Donnini e il re degli outlet Luigi Dagostino, ex socio di Tiziano Renzi. Tutti implicati in scandali assortiti.
«In merito alle perquisizioni su Open vorrei chiedere scusa non a Davide, ma a sua moglie Anna, perché hanno svegliato lei. Vorrei chiedere scusa anche a tutti gli altri amici e imprenditori» svegliati all’alba dalla finanza, ha detto Renzi qualche giorno fa applaudito dai suoi fan. Un gesto galante, che ha colpito i sostenitori .
Renzi ha però dimenticato un dettaglio: l’amico finanziere Serra, attraverso la sua holding Algebris, come svelato da Repubblica, a fine 2018 avrebbe girato all’ex premier circa 100 mila euro per tre conferenze tenute tra Roma e Londra. Un mazzo di fiori era davvero il minimo: anche grazie a prestazioni di questo tipo Renzi, che nel 2017 dichiarava 29 mila euro, nel 2018 e 2019 sfiorerà e supererà il milione di euro di entrate. Non male per il rottamatore di Rignano, che appena due anni fa ostentava davanti alle telecamere il suo conto corrente con soli 15 mila euro.