Alle europee, fuori dal Pd, ci saranno  tre liste divise. Vi raccontiamo come ci si è arrivati: tra veti, tradimenti e vanità. Un viaggio solo per stomaci forti

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In Italia, dove c’è stato il più grande Partito Comunista d’Occidente, la vita dell’altra sinistra non è mai stata facile. Oggi però la sua situazione è tragica (o tragicomica), almeno a livello di rappresentanza e di ceto politico. E le elezioni europee potrebbero segnarne la fine.

Nata negli anni ‘60 e ‘70 - con il gruppo eretico del Manifesto, poi con le varie sigle dei movimenti “extraparlamentari” fino al Pdup e a Democrazia Proletaria - nel tempo quest’area ha attraversato una miriade di forme, alleanze, scissioni e leader che per ricapitolarle non basterebbe un trilione di terabyte. Ha avuto però anche due momenti di relativo fulgore: uno nel 1996, quando Rifondazione comunista ha preso quasi il 9 per cento alle politiche; un altro nel 2011-2012, quando i suoi candidati sono diventati sindaci di grandi città uno dopo l’altro (Milano, Napoli, Cagliari, Genova, Palermo), spesso vincendo le primarie del centrosinistra a scapito di big piddini.

Da lì in poi però è iniziata una crisi senza fondo, che presenta anche aspetti piuttosto bizzarri.

Nel 2013, qualcuno lo ricorderà, l’area a sinistra del Pd si è presentata alle elezioni divisa in due: da una parte Sinistra Ecologia e Libertà (Sel) di Nichi Vendola; dall’altra Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, in cui erano confluiti sia i Verdi sia Rifondazione. Sel prese un milione di voti ed entrò in Parlamento grazie all’alleanza con il Pd; Ingroia and Co. invece non superarono il due virgola e ne rimasero fuori.

Test
E tu quanto conosci davvero la sinistra italiana?
5/4/2019
Per le europee del 2014 i cocci si sono rimessi insieme nella lista L’Altra Europa con Tsipras, ispirata da sei intellettuali e scrittori: superò di un soffio la soglia di sbarramento (4,04 per cento), elesse tre deputati e si scannò al suo interno subito dopo.

L’anno scorso, 2018, alle politiche c’erano di nuovo due liste concorrenti: da una parte Liberi e Uguali (con dentro Sinistra Italiana, cioè l’erede di Sel, e i fuoriusciti del Pd tipo Bersani e D’Alema, oltre a Laura Boldrini e Pietro Grasso); dall’altra parte c’era Rifondazione, che nell’occasione si è presentata nella lista di Potere al Popolo!, una rete nata dal basso da un centro sociale di Napoli (si scrive così, con il punto esclamativo). Leu ha preso poco più del 3 per cento, entrando in Parlamento; Rifondazione e Potere al Popolo! sono rimasti fuori
Se avete letto fin qui, siete anche in grado di seguire i passaggi successivi.

BARUFFA SENZA SOSTA
Subito dopo il voto del 4 marzo, anche a Liberi e Uguali hanno iniziato a bisticciare. Quelli che venivano da Sel e quelli fuoriusciti dal Pd non andavano d’accordo tra loro, specie sulla possibilità di ri-allearsi con il Pd stesso. L’uscita di scena - nel Pd - del detestato Renzi e la vittoria del più “inclusivo” Zingaretti, ha accentuato il litigio e i fuoriusciti sono tutti rientrati o in procinto di farlo.

Nel frattempo le nuove elezioni europee si avvicinavano, così a sinistra del Pd sono iniziate le grandi (si fa per dire) manovre, con l’idea di arrivare a una lista che unisse tutti quelli che restavano a sinistra del Pd.
Facile a dirsi.

La marea di sigle che doveva mettersi d’accordo comprendeva come suoi principali attori ai blocchi di partenza:

Sinistra Italiana (ex Sel) rimasta sola dopo l’addio a Leu degli ex fuoriusciti del Pd (leader di Sinistra Italiana: Nicola Fratoianni, 47 anni, toscano, ex numero due di Vendola).

Rifondazione comunista (leader: Maurizio Acerbo, poco più che cinquantenne, abruzzese, attivo nei movimenti fin dagli anni Settanta).

Potere al Popolo!, leader Viola Carofalo, napoletana, 38 anni, ma soprattutto l’ex sindacalista Giorgio Cremaschi, bolognese, 70 anni, storico avversario di Landini alla Fiom, oggi pasdaran antieuro con un debole per i talk show. Potere al Popolo!, come detto, un anno fa si era presentato insieme a Rifondazione, ma pochi mesi dopo i due gruppi hanno litigato e si sono separati.

DemA, cioè il movimento creato dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris (in teoria DemA sta per Democrazia e Autonomia, ma richiama evidentemente il nome del suo fondatore, a cui non manca l’autostima).

Possibile, cioè quelli che uscirono dal Pd poco dopo l’arrivo di Renzi, un tempo guidati da Pippo Civati e oggi da Beatrice Brignone, quarantenne marchigiana già deputata del Pd, da cui uscì appunto con Civati.

Diem25, associazione creata in ottica transnazionale ed europeista dall’ex ministro greco Yanis Varoufakis. Diem sta per “Democracy in Europe Movement”, il 2025 è la data-obiettivo per l’elezione di una Costituente europea.

Italia in Comune, la rete di sindaci costruita dal primo cittadino di Parma, l’ex grillino Federico Pizzarotti, insieme ai colleghi di Latina e Cerveteri (e altri).

I Verdi, eredi di quelli che negli anni ‘80-’90 ebbero un discreto successo e anche qualche ministro ai tempi dell’Ulivo (i loro leader oggi si chiamano Elena Grandi, consigliera di municipio a Milano, e Matteo Badiali, proprietario di un negozio di ferramenta a Bologna).

Tutti questi gruppi hanno molto discusso, per mesi, più in coppie mutevoli che tutti insieme. Anzi, un tavolo unico non c’è mai stato perché sono subito iniziati i veti incrociati: i Verdi ad esempio hanno detto che loro non volevano Sinistra Italiana; quelli di Potere al Popolo! (anti Europa) non si potevano vedere con quelli di Diem25 (europeisti); e così via.

De Magistris, che in quanto volto più noto e carismatico avrebbe dovuto prendere la guida del poliedrico convoglio, ha rapidamente capito che il casino era troppo, si è arrabbiato all’idea di dover ricandidare l’europarlamentare uscente Sergio Cofferati (pressante richiesta di Sinistra Italiana) e quindi dopo un po’ ha gettato la spugna.

Uscito dai giochi De Magistris, il caos è aumentato.

Potere al popolo!, che aveva nel sindaco di Napoli il suo principale sponsor, ha mollato il colpo decidendo di non partecipare più ad alcuna lista.
Luigi De Magistris

I Verdi e Italia in Comune di Pizzarotti per qualche settimana hanno trattato per metter su una lista insieme, sembrava quasi fatta, invece a un certo punto - a sorpresa - Pizzarotti ha mandato un sms ai Verdi per comunicare che non ci stava più: Italia in comune sarebbe andata con +Europa (Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e l’ex dc Bruno Tabacci). «Quello tra Pizzarotti e i Verdi è stato bello ma è stato solo sesso», ha commentato ironicamente sui social il leader di Diem25 in Italia, Lorenzo Marsili.

A proposito, anche Diem25, vista l’impossibilità di fare una lista «aperta e ampia», martedì scorso ha deciso con una consultazione on line tra i suoi iscritti di non aderire ad alcuna coalizione, ognuno voti chi vuole.
In questa sorta di talent a eliminazione, sono quindi rimasti in campo i Verdi (abbandonati da Pizzarotti), quelli di Possibile, Rifondazione e Sinistra Italiana.

A uno verrebbe da dire: beh, almeno voi fate una lista unica no?
No, naturalmente.

Pur essendo rimasti in quattro - e non esattamente dei giganti - hanno deciso di fare liste diverse e contrapposte.

Da una parte i Verdi, insieme a Possibile, con una cosa che si chiamerà Europa Verde Possibile. Simbolo: il vecchio Sole che ride. Mito fondativo: Greta Thunberg, la sedicenne pasionaria dell’ambiente, subito invitata a Roma.

Dall’altra parte Sinistra Italiana e Rifondazione, che si sono rimesse insieme come nel 2014 dopo essere state avversarie nel 2018. La loro lista si chiamerà La Sinistra, nome forse non originalissimo ma frutto di un voto on line dove ha prevalso su altre opzioni come “Bella Ciao” e “Umana”. Nel logo, sotto una banda rossa, ci sarà la sigla Gue-Ngl, con una stella graficizzata. Gue-Ngl è l’acronimo che riunisce i partiti della sinistra radicale in Europa, una ventina tra cui Podemos, il Sinn Fein irlandese, i comunisti portoghesi. Mettere nel simbolo la scritta Gue-Ngl serve a rivendicare l’appartenenza a una famiglia europea, ma soprattutto a non raccogliere le firme necessarie per presentarsi alle elezioni. Evitato questo scoglio, La Sinistra è ora in cerca di candidati: primo obiettivo, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano. Contattati anche l’ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, il giornalista Alberto Negri, il fondatore del Baobab Andrea Costa e la docente Monica Di Sisto, esperta di commercio internazionale ed economie solidali.

Come detto, ci sarà poi una terza lista (ognuno decida se considerarla di sinistra o no): quella di Pizzarotti più Bonino, con il logo di +Europa. Nell’Europarlamento - se ci entrerà - farà parte dell’Alde, il gruppo dei liberali.
C’è da dire, per la verità, che in questo caos centrifugo qualcuno aveva cercato di evitare un finale così, proponendo strade alternative alla solita somma-contrapposizione di sigle. Ad esempio, dalle parti di Possibile era arrivata l’idea di fare una lista aperta a forte impronta femminista, ambientalista e di sinistra sul tema delle disuguaglianze, ciascuno abbandonando il suo simbolo e la sua parrocchietta. Qualcosa di simile, come progetto, era arrivato anche dagli europeisti di Diem. Ma, come si è detto, alla fine ha prevalso il richiamo identitario dei partiti bonsai.

LA DIFFICILE SCALATA AL 4 PER CENTO
Allo stato quindi, le mini-liste di sinistra sono due (tre se volete includere anche quella di Pizzarotti e Bonino). Nessuna di loro ha molte chance di superare il 4 per cento, ma qui non si vuole menar gramo a nessuno.

Per gli appassionati di entomologia estrema, va detto che alla coppia Sinistra Italiana-Rifondazione, la lista La Sinistra aggiunge anche altri soggetti di cui pochi hanno contezza. C’è ad esempio il gruppo che cinque anni fa diede vita alla lista L’Altra Europa con Tsipras, guidato dall’ex deputato di Rifondazione Alfonso Gianni e dall’attivista fiorentino Massimo Torelli; c’è Convergenza socialista, una scheggia della diaspora del vecchio Psi; c’è infine il Partito del Sud, d’ispirazione meridionalista. Se la curiosità in merito vi divora, andate su Google che qui lo spazio è limitato.

Analisi
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Tra i vari epifenomeni curiosi di questa conclusione c’è il fatto che adesso anche il gruppo di Liberi e Uguali al Parlamento italiano - tutt’ora esistente - è diviso in due: da una parte quelli di Sinistra Italiana, che per le europee faranno la lista La Sinistra con Rifondazione; dall’altra gli ex Pd (il cui nome, come raggruppamento, è Articolo 1-Mdp), che invece sono orientati a rientrare nel Pd stesso dopo la vittoria di Zingaretti (al momento costituiscono la metà del gruppo di Leu alla Camera).

ZINGARETTI SI FREGA LE MANI
A proposito, il neosegretario dem osserva l’estrema frammentazione alla sua sinistra con un soddisfatto sorriso felino: il suo disegno, come noto, è un Pd che vada dal centro di Calenda proprio alla sinistra radicale. Lo sforzo calamitante di Zingaretti pare già soddisfatto da diverse adesioni avvenute o in corso: l’ex fuoriuscito Enrico Rossi, governatore della Toscana, è rientrato; al Pd si sta avvicinando passo passo la rinata Laura Boldrini; nella direzione del partito è approdato Marco Furfaro, 39 anni, toscano di Pistoia, ex Sel e primo dei non eletti nella lista Tsipras cinque anni fa; senza dire dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia (un tempo Rifondazione e poi Sel) che a fine maggio sarà capolista dem nel collegio nordovest (Lombardia, Piemonte e Liguria).
Pisapia

C’è tuttavia chi ipotizza che la strategia di Zingaretti verso la sua sponda sinistra sia stata un po’ cinica o quanto meno ambigua: da un lato ha incamerato alcuni singoli ex Sel e si è ripreso la vecchia “ditta” bersaniana; d’altro lato si è guardato dal chiamare gruppi più organizzati (come i Verdi e Possibile) per un’alleanza vera e propria come ai tempi dell’Ulivo. «Tante parole sull’apertura a sinistra, poi Zingaretti ha avuto di nuovo paura di impermalosire i renziani», commenta sarcastico Pippo Civati, ex pd ed ex leader di Possibile, oggi «ritirato a vita privata, faccio l’editore e sto benissimo».

Ad ogni modo, adesso l’area della cosiddetta sinistra radicale è ai suoi minimi storici, almeno in termini di partiti, sigle e forza attrattiva del suo ceto politico. E il voto del 26 maggio potrebbe mettere fine alla sua agonia danzante di rivolgimenti, risse, livori, scissioni, ricongiunzioni, caroselli di somme e sottrazioni.

E non è detto che sia una disgrazia, per i suoi stessi ideali. Anzi: forse solo una traumatica cesura potrebbe consentire alla sinistra delle persone (quella che era con altri nella piazza antirazzista di Milano così come nella piazza sindacale di Landini a Roma, oltre a essere vivissima in migliaia di associazioni e ong sui territori) di avviare un radicale e vitale ricambio di rappresentanza, ma soprattutto di prassi.