Politica
2 maggio, 2019

E ora Matteo Salvini risponda alle nostre inchieste

Matteo Salvini
Matteo Salvini

Il ministro dell'interno bolla i nostri articoli sui soldi della Lega come «fantasie». Ma dimentica che il giornalismo di inchiesta ha il dovere di fare domande

Matteo Salvini
Le inchieste dell’Espresso sono solo «fantasie», a giurarlo è il ministro dell’Interno Matteo Salvini. «L’inchiesta sui conti della Lega è la sedicesima, aspetto la diciassettesima», ha aggiunto il Capitano a proposito del servizio di copertina di domenica scorsa. Lo accontentiamo subito: questa settimana pubblichiamo un documento esclusivo e riservato, il report dell’Uif, Unità di informazione finanziaria per l’Italia, ovvero l’agenzia anti-riciclaggio della Banca d’Italia, che analizza le operazioni sospette della Lega, il partito che punta a conquistare il titolo di più votato dagli italiani alle elezioni europee del 26 maggio, tra tre settimane.

Gli ispettori di Bankitalia confermano le notizie già rivelate sull’Espresso da Giovanni Tizian e Stefano Vergine, colgono il movimento sospetto con cui il tesoriere della Lega Giulio Centemero potrebbe aver versato soldi della Lega in una holding del Lussemburgo, avanzano dubbi e si pongono quesiti che sono gli stessi nostri.

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Con in più una domanda che giriamo direttamente al ministro Salvini: sono fantasie anche quelle di un’agenzia autonoma o indipendente istituita presso la Banca d’Italia? Sono tutte fantasie quelle delle procure di Genova, Bergamo e Roma che indagano a vario titolo sui soldi della Lega e sugli uomini che li amministrano per conto di Salvini, a partire dal tesoriere Centemero, che parla di «scoop inesistenti» su altri siti e giornali ma che rifiuta di rispondere alle nostre domande? Di certo, non sono fantasie le nostre inchieste che dal 2015 - quando regnava Matteo Renzi e nessuno ma proprio nessuno avrebbe potuto prevedere l’ascesa di Salvini alle vette della politica nazionale - provano a fare chiarezza su uno dei maggiori scandali politico-economici degli ultimi anni, la truffa ai danni dello Stato della Lega a proposito dei rimborsi elettorali, e su come il leader chiave di questo momento, Salvini, sia riuscito a scalare il suo partito e poi i vertici di governo e a costruirsi quella base economica che gli consente un’agibilità politica. Il problema storico di tutte le leadership, in special modo di quelle che si sentono assediate e che hanno bisogno di costruirsi una autonoma riserva di risorse.

Matteo Salvini di professione risulta essere giornalista. È iscritto all’albo dell’Ordine dal 18 maggio 1999, quando aveva solo 26 anni, precoce rispetto ai tanti ragazzi e ragazze che sognano di fare questo mestiere ma che a quell’età praticano una difficile gavetta o frequentano una scuola di giornalismo. Salvini, come ha dimostrato Michela Murgia nella sua sinossi dei curriculum, non ha mai avuto di questi problemi: la Lega gli ha risolto ogni questione lavorativa, sociale, esistenziale. Da direttore di Radio Padania, in quegli anni, sosteneva la Resistenza ma come «fenomeno esclusivamente padano», organizzava il filo diretto con gli ascoltatori contro la bandiera nazionale, trasmetteva la diretta della finale dei campionati europei di calcio 2000 Italia-Francia tifando per Zidane e sperava, informava in una nota, «che alla fine a sventolare vittorioso sia il tricolore: quello blu, bianco e rosso».

Salvini rappresenta dunque il più clamoroso caso di trasformismo politico del nostro tempo, pur denso di cuori deboli e di voltagabbana pluri-laureati. Non si è limitato a passare dalla destra alla sinistra o viceversa, come hanno fatto banalmente in tanti. Lui era partigiano padano e ora piace ai fascisti di ogni dove, amava Zidane e ora guida il fronte anti-Macron, predicava la secessione e ora incarna il nazionalismo, dirige insieme due movimenti, Lega Nord per l’indipendenza della Padania e Lega Salvini premier, con due elettorati diversi, con due ragioni sociali opposte, ma con un unico leader: un capolavoro di gattopardismo degno dei migliori esponenti di Roma Ladrona.
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Avrà dimenticato la Padania e il tricolore blu, bianco e rosso francese amato in disprezzo di quella bandiera simbolo di quella Repubblica che dovrebbe servire da ministro. Ma speriamo che Salvini non abbia cancellato dalla memoria quelle due o tre regole di giornalismo che si apprendono per passare l’esame professionale. Le notizie si pubblicano. Il diritto di cronaca è sacro. Chi ricopre una responsabilità politica o istituzionale ha l’obbligo di rispondere alle domande. Non si confonde il giornalismo di inchiesta nutrito di un solido impianto organizzativo con una campagna di diffamazione. Non si usano strumenti di intimidazione contro i giornalisti che controllano il potere, perché una democrazia muore del contrario, dell’omesso controllo, dell’opacità.

Per questo torniamo a sperare che Salvini voglia rispondere ad alcune domande che gli riproponiamo da mesi. Non lo facciamo con lo spirito delle autorità giudiziarie, ma da giornalisti che hanno il diritto e il dovere di indagare sull’uomo che si candida a Palazzo Chigi. E lo facciamo con gli strumenti dell’inchiesta giornalistica che possono raggiungere conclusioni imperfette o incomplete, ma sono sempre più necessari per capire perché siamo arrivati a questo punto e dove ci troviamo.

In più, ci sono le manovre di potere che vedono protagonista l’uomo forte della Lega nel governo Conte, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Intelligente, abile, ben introdotto nei settori economici e finanziari del Paese, con mezzo gruppo parlamentare a lui fedele, il sottosegretario è l’uomo che deve far passare la nottata, l’alleanza con l’inconsistente Movimento 5 Stelle, per trasferire la Lega nella terra promessa, il partito architrave del nuovo sistema. Con gli interessi del Nord ben tutelati, anzi gli interessi lombardi, anzi di Varese e dintorni, come racconta Vittorio Malagutti.

Il governo Conte è stato un taxi per molti, ma ora bisogna andare alla fase successiva, al momento in cui la Lega non sarà più obbligata a condividere la guida del governo con un altro partito. Sarà per questo che gli uomini di M5S, dopo mesi di letargo, sembrano essersi all’improvviso ridestati e cominciano a chiedere anche loro qualche chiarimento all’alleato leghista. C’è stato il tormentone sul sottosegretario Armando Siri, uomo di Salvini, a dividere i due vice-premier e a costringere il presidente del Consiglio Conte a scendere personalmente nell’arena dello scontro politico. Va in dissolvenza, come se non fosse mai esistita, la maggioranza che da quasi un anno governa l’Italia, per paradosso nel momento in cui potrebbe rivendicare qualche risultato sul fronte economico e dell’occupazione, ma è solo un effetto ottico. Dopo potrebbe rispuntare.

Ora c’è una campagna elettorale che entra nella sua fase decisiva, in gioco non ci sono solo i seggi del Parlamento europeo, ma regioni (il Piemonte), città, comuni, capoluoghi di provincia. Ma dopo il 26 maggio si faranno i conti, tra i gialloverdi e tra le opposizioni. Il risultato delle elezioni in Spagna e quello parzialissimo del primo turno delle elezioni amministrative in Sicilia restituiscono la sensazione di una frenata dei sovranismi. Non si esaurisce, non si prosciuga il vento che continua a soffiare in quella direzione, ma si può inserire nella marcia trionfale qualche motivo di contraddizione. Per esempio lo spettacolo di un partito che si è proclamato difensore del popolo e della Nazione ma che per i suoi soldi non disdegna i paradisi fiscali, esteri, di quell’Europa che nelle piazze giura di voler distruggere e cambiare.

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