Un’occasione per uscire dalla cupa stagione salviniana. Ma anche una nuova rinuncia a vincere con le idee  e dentro la società

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Per provare a comprendere il senso della crisi di governo dell’estate 2019, quando tutto sarà finito e sarà possibile rivedere le mosse dei protagonisti a ritroso, l’errore suicida di Matteo Salvini di rompere la maggioranza da una spiaggia affollata, il no di Nicola Zingaretti a una riedizione del governo Conte che si trasforma in un sì, perché «vale la pena tentare», il mai con il partito di Bibbiano di Luigi Di Maio che diventa un forse, resterà da studiare il mistero di Giuseppe Conte, lo sconosciuto avvocato di seconda fila che all’improvviso è diventato indispensabile, per tutti: il Quirinale, il Vaticano, la Casa Bianca, l’Unione europea.

E poi la Cgil e la Confindustria. E, ovviamente, i partner della nuova maggioranza, il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico e quasi tutte le sigle parlamentari che si muovono alla sinistra del Pd. Più che la politica, serve la grande letteratura per raccontare la metamorfosi dell’avvocato in governante e poi in statista. L’uomo della nuova stagione, per Zingaretti. Il profeta del nuovo umanesimo, per Di Maio.

«Nessuno sapeva bene che cosa stesse nascendo; nessuno avrebbe potuto dire se sarebbe stata una nuova arte, un uomo nuovo, una nuova morale o magari un nuovo ordinamento della società. Perciò ognuno ne diceva quel che voleva. Ma dappertutto si levavano uomini a combattere contro il passato. In ogni luogo compariva improvvisamente l’uomo che ci voleva; e, cosa assai importante, uomini pieni d’intraprendenza pratica s’incontravano con uomini pieni d’intraprendenza spirituale. Fiorivano ingegni che prima erano stati soffocati o non avevano mai partecipato alla vita pubblica...». Bisogna ricorrere all’ “Uomo senza qualità” di Robert Musil, quel senso della possibilità per cui tutto si potrebbe fare, anche quello che fino a qualche momento prima sembrava impossibile, o anche soltanto inopportuno.

La Possibilità, che è una delle spinte dell’azione politica, accanto alla Necessità che è il suo contrario, ovvero l’impossibilità di fare altrimenti, è sempre stata una grande giustificazione per la sinistra per accettare le svolte più indigeste, baciare i rospi più viscidi, in nome del bene del Paese, naturalmente. Fu una necessità, quasi trent’anni fa, cambiare il nome del partito: era crollato il muro di Berlino, anche il Pci doveva mutare se non voleva restare sotto le macerie del Novecento. E tra i fautori della Svolta si divisero tra chi la vedeva come la possibilità di una nuova vita, il segretario dell’epoca Achille Occhetto, e chi la visse come una necessità obbligata per continuare a fare politica, il numero due Massimo D’Alema.
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Nicola Zingaretti aveva appena compiuto 24 anni, era già il capo della Fgci romana, l’organizzazione dei giovani comunisti. Ha vissuto nella sua carriera politica, in questi trent’anni, tutti i passaggi successivi, il continuo rimbalzo tra la sfera della possibilità e quella della necessità. Necessaria, per molti dirigenti cresciuti nel Pci, l’adesione all’Ulivo di Romano Prodi e al sistema elettorale maggioritario. Necessario nel 1998, anche, il successivo smantellamento di quell’esperienza, con l’ascesa a Palazzo Chigi di D’Alema, nel frattempo diventato leader del partito, in alleanza innaturale con Francesco Cossiga e con Armando Cossutta. Necessario, dopo la lunga catena di sconfitte seguita a quel colpo di Palazzo mascherato da svolta politica, il lungo percorso che portò, nel 2007, alla fondazione del Partito democratico di Walter Veltroni. Necessario, nel 2011, il governo tecnico presieduto da Mario Monti per salvare l’Italia dalla tempesta finanziaria. Necessario, nel 2013, eleggere per la seconda volta Giorgio Napolitano al Quirinale, dopo il tradimento dei 101 franchi tiratori che non votarono per Prodi presidente della Repubblica, e il conseguente governo delle larghe intese con il Pdl di Silvio Berlusconi. Così ha vissuto queste svolte gran parte del gruppo dirigente del Pd, che è transitato di partito in partito, riuscendo a mettere in discussione tutto senza mai toccare il loro ruolo. Il vero amalgama, l’unico collante che unisce gli eredi della Dc e quelli del Pci.

Anche in questo caso, nella crisi dell’estate 2019, si è trovato lo stato di necessità che motiva la piroetta per cui il Pd è passato in poche ore dalla richiesta di elezioni anticipate al tentativo di fare un governo con il Movimento 5 Stelle, per di più con la presidenza dell’avvocato Conte.

La necessità di arginare l’autoritarismo di Salvini, il pericolo che il voto immediato sognato dal capo leghista avrebbe consegnato le principali istituzioni del Paese (Parlamento, governo, Csm, Corte costituzionale, Quirinale) a un monocolore tuttoverde, una specie di esecutivo Salvini-Savoini-Siri legittimato dal voto e dilagante nelle posizioni di potere. Il primo ad agitare lo stato di emergenza e di necessità è stato l’unico leader che finora non aveva mai condiviso quella cultura, il solo a non sentirsi costretto nel perimetro asfittico della scelta obbligata, l’uomo della Leopolda Matteo Renzi. È stato lui a dire per primo che c’era la necessità di fermare Salvini e di evitare l’aumento dell’Iva e di mettere in sicurezza i conti pubblici messi in pericolo dalla recessione. Il resto del Pd è andato dietro al suo ex leader, all’inizio con una certa riluttanza, poi con un entusiasmo sempre più palpabile, man mano che si scorgeva all’orizzonte un esito insperato, tornare al governo dopo appena quattordici mesi di opposizione, senza aver neppure faticato, la Lega e M5S avevano fatto tutto da soli. Eccola, l’occasione da non perdere. La Possibilità.

La Possibilità, che è fantasia, immaginazione, che restituisce alla politica la sua dimensione di libertà e di scelta, ma è anche cinismo, spregiudicatezza, culto della propria convenienza, tradimento delle promesse elettorali e di quanto si era giurato fino a un istante prima. I labili mai e sempre della politica italiana.

La Possibilità, più ancora della Necessità, è il tratto distintivo di questa politica, rivelata dalla crisi. Tutto è possibile, nell’era post-ideologica, quando tutti si possono alleare con tutti. «Non servono soluzioni di destra o di sinistra, sono schemi superati, esistono soltanto soluzioni», ha detto Di Maio nei giorni delle consultazioni al Quirinale. Lo stesso aveva affermato Renzi al Senato, qualche giorno prima. Il più post di tutti, il più scaltro nel cambiare casacca, agile come quando sul palco dei comizi saltava il filo del microfono per non inciampare, dopo decenni di palcoscenici, palazzetti dello sport, piazze, si è rivelato Beppe Grillo.

È lui il vero padre del Conte bis, l’interfaccia dell’avvocato ministeriale, così avanti nell’operazione da piombare al momento dell’incarico chiedendo un governo di competenti, senza ministri politici: via il malinconico Danilo Toninelli, una sciagura per i giornalisti e per il popolo dei social, via anche Alfonso Bonafede, via soprattutto Luigi Di Maio, al massimo sottosegretari. Pochi minuti dopo ha chiarito, ma il messaggio era chiaro. E senza neppure passare per la piattaforma Rousseau, che evidentemente non serve più, simboleggiava l’era della Necessità: il paradosso del movimento immobile, della Rete senza connessione con la realtà, dell’uno vale uno senza contare nulla. Giuseppe Grillo in arte Beppe Grillo è ancora più avanti. È lui che guida più di tutti l’era della Possibilità.

Ritratto
Le larghissime intese di Giuseppe Conte, l'uomo che piace a tutti. Forse a troppi
30/8/2019
Nella nuova politica le soluzioni sono leggere, non ci sono più apparati organizzativi e ideologici, soltanto opportunità da cogliere. Lo scrive Massimo Cacciari sull'Espresso: «Lo spazio post-politico diventa quello stesso del diritto privato. Non più partiti, ma individui “liberi” siedono al tavolo delle trattative e stabiliscono accordi che soddisfino i contraenti. Qualsiasi prospettiva strategica si contrae, come in uno spasmo, al tempo brevissimo dell’utilità privata». Non è un caso perciò che sia un avvocato e un professore di diritto privato a simboleggiare e a intestarsi con il suo nome questa svolta: Giuseppe Conte. L’Incolore che ha conquistato Palazzo Chigi e che può assorbire i colori degli altri proprio perché non ne ha uno suo: da gialloverde a rossogiallo, dalla maggioranza con Salvini al governo con i suoi contestatori, alla guida di una coalizione,un partito trasversale (lo racconta Susanna Turco) che va da Donald Trump a Nicola Fratoianni, per dire. I precursori parlamentari, ad esempio l’Unione di Prodi tra il 2006 e il 2008, si limitavano ad andare, come si diceva all’epoca, da Clemente Mastella a Franco Turigliatto, dagli ex dc ai trotskisti. Ed era una coalizione che si era presentata alle elezioni e aveva addirittura vinto.

Per la sinistra, per il Pd, per Zingaretti, si tratta di capire se la possibilità è un’occasione da cogliere o la pietra tombale su una segreteria. La sua leadership si salva, il segretario del Pd si ritrova nei panni del partner di maggioranza, con M5S in disarmo. Ma a un prezzo altissimo. Cadono come sogni di metà estate le costituenti delle idee, la costruzione di un’alternativa da mettere in campo nel Paese prima ancora che nel Palazzo. Il peccato mortale da cui emendarsi, si era ripetuto durante la campagna per le elezioni primarie che avevano portato al Nazareno il presidente della regione Lazio, l’ultimo dei figli prediletti del partito che fu comunista. Mai più conquistare il governo senza avere radici nella società, senza aver vinto nelle periferie, senza rappresentanza sociale, senza essere tornati a dare voce ai penultimi e al ceto medio, ai fragili e ai precari, all’Italia arrabbiata e spaventata che è stato il grande serbatoio del populismo e del sovranismo di Salvini in questi anni.

E invece si torna al governo, per giunta con la benedizione internazionale di Trump, senza aver affrontato uno dei nodi cruciali per l’esistenza del partito. La sua cultura politica: i temi che si vorrebbero inserire nell’agenda del nuovo governo sono appena un elenco di titoli. L’organizzazione: il Nazareno si svuota, con i dirigenti che tornano a vestire l’abito ministeriale, e il Pd si spegne lentamente nei territori, perfino in Emilia è costretto a sperare che arrivi il soccorso dei 5 Stelle per arginare l’offensiva della Lega e della destra che ora sarà ancora più virulenta. La leadership: Zingaretti si è mosso con circospezione per non finire rottamato anzitempo. Ma ha vissuto momenti di solitudine, se non di isolamento. E ha addosso come un’ombra il suo predecessore Renzi che a questo punto può contare su almeno due schemi di gioco: fondare un partito tutto suo, grazie alla legge elettorale proporzionale che prima o poi arriverà, o tentare di riprendersi l’intero Pd. Con queste premesse la possibilità Conte rischia di trasformarsi presto in un incubo per il segretario. Meglio al governo che fuori, si dirà. Ma fuori sono irrisolti tutti i drammi che hanno spinto i partiti populisti a intercettare oltre la metà dell’elettorato.

L’Italia non torna bella se il Pd ritorna al governo. Non c’è una nuova stagione soltanto perché il salmo della crisi estiva è finito in gloria, con l’orrido Salvini sbattuto fuori dal governo. Non c’è una vittoria elettorale alle spalle. Non c’è una parola di autocritica di M5S alle spalle, anzi, Di Maio non rinnega nulla. E se Salvini non si fosse presentato a Palazzo Chigi per sfrattare Conte, il premier sarebbe ancora al suo posto, ma con i voti leghisti. E c’è un vento che continua a soffiare, come scrive Aboubakar Soumahoro.

La cartina spaccata a metà dell’elettorato 2018, il Nord tutto alla Lega e al centro-destra, il Sud al Movimento 5 Stelle, è stata sconvolta dalle elezioni europee del 2019 nella direzione opposta a quella della nuova maggioranza, verso il partito di Salvini-Savoini-Siri. Solo gli errori di presunzione e di arroganza del capo leghista hanno aperto la crisi, solo Salvini ha battuto se stesso. Fuori, ci sono fratture da risanare, rotture da ricomporre, la rabbia e l’odio che senza risposte torneranno a ruggire e a condizionare. La crisi non era di governo, ma di sistema: istituzionale, culturale, sociale, civile. Lo abbiamo scritto un mese fa sull’Espresso, lo continueremo a ripetere. Non basta un governo senza qualità, incolore e dunque con i colori di tutti, per riportare fiducia e credibilità alla politica. Sospesa tra necessità e possibilità.