In Emilia Romagna il Movimento va peggio persino di dieci anni fa: 5 per cento secondo le proiezioni, alle origini nel 2010 conquistò il 7 per cento. A lumicino pure in Calabria. I 309 parlamentari M5S, da ora, sono tecnicamente dei morti viventi. Da domani tutto balla. Anche le caselle del governo?

Il tracollo è verticale, spaventoso. Si può dirlo anche senza attendere il commento di Vito Crimi, da tre giorni reggente in luogo del dimissionario Luigi Di Maio e della sua cravatta. I numeri allontanano ancora la fotografia del voto delle politiche 2018, che immortalava una situazione completamente diversa da quella di oggi. A nulla può valere che l'ulteriore calo fosse prevedibile e ampiamente previsto. In Emilia Romagna, secondo le proiezioni, i Cinque stelle conquistano il 5 per cento: il candidato governatore Simone Benini agguanta a mala pena il 4 per cento, ed ha il coraggio di dirsi soddisfatto («volevamo esserci e ci siamo», proclama).

In realtà sono percentuali mai viste dal M5S in Regione, «culla e tomba» dei Cinque stelle. Record negativi che non furono toccati nemmeno nel movimento delle origini: dieci anni fa, 2010, sempre alle regionali il Movimento guidato da Beppe Grillo prese il 7 per cento – come ricorda l'oggi ex Giovanni Favia, che condusse l'impresa. Per non parlare dell'ultimo biennio: il 27,5 per cento il 4 marzo 2018, già sceso al 12 per cento alle europee del 2019. «I numeri sono impietosi, li condannano all'irrilevanza», commenta Silvio Berlusconi, peraltro dall'alto del 2,5 per cento raccolto nella regione più rossa d'Italia. In effetti, nella corsa a perdifiato verso il nulla, il partito del dimissionario Luigi di Maio va più forte persino del partito azzurro del Cavaliere - che pure è in disfacimento da tempo (si salva solo in Calabria, grazie alla candidata unitaria del centrodestra Jole Santelli).

Ancora più drammatico il crollo in Calabria: il 6,3 per cento ottenuto dai Cinque stelle secondo le prime proiezioni è sorprendente, a paragone del 26,7 per cento conquistato soltanto un anno fa. Per non parlare del fantasmagorico 43,4 per cento delle politiche 2018. È rimasto un voto su otto, di quelli di allora. E meno male che il reddito di cittadinanza doveva essere la chiave di volta per conservare i consensi raccolti al Sud.
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Da domani, è il minimo, si moltiplicheranno i mal di pancia degli ondivaghi trecento parlamentari dei Cinque stelle (210 deputati e e 99 senatori). Eletti che non hanno allo stato praticamente alcuna probabilità di tornare in Aula, tecnicamente dei morti viventi nel Palazzo, forse pronti a tutto pur di sopravvivere.

Da domani – se non il governo stesso, così tanto cambiato nei pesi interni in soli quattro mesi – sono destinati ad essere presi d'assalto i punti più molli della maggioranza giallo-rossa. A partire dalla legge elettorale proporzionale e dalla mediazione sulla nuova prescrizione. Un riequilibrio pro-Pd sarebbe da immaginarsi, anche dal punto di vista della composizione dell'esecutivo: il guardasigilli Bonafede, l'unico che (insieme con Conte) ricopre il medesimo incarico che aveva nel precedente governo, riuscirà ad esempio a restare al suo posto? E il premier stesso, non ha nulla da temere?

A rigor di logica, visto il crollo di quello che era il primo partito della maggioranza, un terremoto dovrebbe essere alle porte. Eppure non sono pochi quelli che invitano a non sottovalutare la scarsità di mezzi, e ampiezza di manovra, di questo consesso umano. Insomma, in questo caos, anche trovare qualcuno in grado di mettere in piedi una strategia non sarà facile.