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Non credo che Casaleggio padre avesse in mente il controllo delle Galassie tramite algoritmo, e neanche che la piattaforma Rousseau sia un direttorio in grado di pilotare la politica italiana bypassando Parlamento, partiti, opinione pubblica come se fossero detriti del passato, alberi morti che basta uno scossone a sradicare. Però è vero che, dei tanti materiali di cui è composta l’avventura grillesca, quello della presunzione digitale è, fin dagli inizi, il più anomalo, il più sospetto e, per molti, il più allarmante. Tutto il resto può piacere o non piacere, ma appartiene alla consolidata esperienza individuale e sociale che la parola “politica” contiene. Tutto ma proprio tutto: il linguaggio violento e sprezzante degli inizi, il moralismo sospettoso e punitivo, il neo-qualunquismo (destra e sinistra non esistono più), il ricambio generazionale traumatico, il populismo becero dei “vaffa”, la creazione di un bacino di contenimento degli umori e delle istanze (alcune delle quali buone e giuste, per esempio quelle ambientaliste) che non riuscivano più a trovare casa nei partiti, in specie nei partiti della sinistra. È un urto che si poteva reggere, un urto sostenibile, perché urtati e urtanti abitavano nello stesso mondo.
La presunzione digitale, no. Quella non era metabolizzabile, se non dal piccolo clero costituitosi attorno alla visione di Casaleggio, e ovviamente dai fedeli del culto. Potremmo dire, con il senno di poi, che il controverso guru milanese ha ricalcato, a suo modo, le orme dei pionieri del web, l’avanguardia di giovani ingegneri californiani molto libertari e molto lisergici convinti di costruire, grazie ai microprocessori, “il mondo nuovo” (vedi “The game” di Baricco, che di questa genesi racconta molte cose). L’uso degli allucinogeni, all’epoca, incentivò di molto la creatività, ma anche gli equivoci.
Casaleggio si muove, da questo punto di vista, fuori tempo massimo. Non è un pioniere ma un emulo tardivo. E quando indica il web come Nuova Frontiera, il web è già cambiato come se fossero passati secoli dall’epopea dei garage creativi che abbattono tutti i poteri costituiti. Certo, internet è il fantastico medium che ha spalancato le porte della comunicazione all’umanità intera, annullando tempi e distanze, sbriciolando i costi, mettendo in crisi pigrizie accademiche e rendite culturali. Ma è diventato, nel frattempo, anche la più gigantesca, impensabile concentrazione di potere e di denaro mai vista sul pianeta Terra. Con una capacità di controllo, e di manipolazione, almeno pari al suo potenziale di liberazione (vedi “The Four” di Scott Galloway, inchiesta su Apple, Amazon, Facebook e Google, nuovi padroni del pianeta).
Dal momento in cui Grillo incontra Casaleggio (2004) e mette le basi del partito digitale, fino al momento in cui quel partito esplode elettoralmente (2013), l’idea del web come macchina da soldi, arma di potere, persuasore occulto, strumento perfezionatissimo di controllo sociale, fa moltissima strada. Era fisiologico, dunque, che l’idea stessa di un partito digitale, governato da una piattaforma gestita da una ditta privata, facesse drizzare il pelo a molti. Non era un pregiudizio luddista, era la consapevole preoccupazione di un rischio, o quanto meno di una gigantesca incognita.
Il casaleggismo ha cambiato tutto, mutando la natura stessa del grillismo? Ha mitizzato il mezzo (la rete) a scapito del messaggio (i contenuti politici)? È la tesi di un libro del 2019 (“Snaturati”, edito da Castelvecchi, prossima l’uscita in economica) il cui autore, in tutta questa storia, ha avuto decisamente voce in capitolo. È Marco Morosini, docente di politiche ambientali a Zurigo, chimico di formazione e tossicologo, primo ispiratore e artefice del Grillo green dei primi anni Novanta nonché coautore (tutt’ora) dei testi teatrali del fondatore del Movimento. L’incontro di Grillo con Morosini è molto precedente a quello con Casaleggio. Si conoscono al Teatro Smeraldo di Milano (oggi grande emporio di Eataly) nel 1992. Ho memoria abbastanza viva di quella svolta - che allora, ovviamente, sembrò solamente di natura artistica - perché facevo parte della precedente leva di autori di Grillo, sempre in cerca di argomenti, battute, nuovi bersagli («una spugna», lo definisce Morosini). Un comico è una macchina euforica e ingorda, per funzionare necessita di una quantità enorme di stimoli. Li immagazzina e poi li rumina e li metabolizza. Li incorpora.
Conobbi Morosini a casa di Grillo e mi colpì la prontezza con la quale Beppe coglieva i paradossi e le storture del nostro way of life che lo scienziato gli snocciolava davanti agli occhi, con tanto di pezze d’appoggio. Materiali ideali per un comico, praticamente dei semi-lavorati che Beppe aveva buon gioco a volgere in satira sociale. Arcistufo della satira politica, che gli aveva portato fama, quattrini e grane a non finire, stava già virando verso una satira dei comportamenti sociali e dei consumi. «Nei miei spettacoli non voglio nominare mai più il nome di un politico, non se lo meritano», diceva a noi autori fissandoci con il suo sguardo spiritato.
Non credo siano molti i casi di scienziati che scrivono testi per un comico, ma così accadde; e non c’è dubbio che molte delle idee-forza del Movimento, diciamo la sua spinta propulsiva, nascono precisamente in quegli anni e da quei monologhi: la critica del consumismo, il radicalismo verde, la polemica frontale contro la pubblicità e il sistema mediatico. Nel 1993 Grillo (con Morosini) scrive sul Corriere della sera un apocalittico attacco alla pubblicità, «una malattia sociale che devasta e corrompe i nostri media, sfregia le nostre città, comprese le chiese e i monumenti, sfigura e ingombra le nostre stazioni, ci molesta telefonicamente perfino a casa e ci riempie la cassetta delle lettere con carta inutile». Sono gli anni in cui Beppe, nella convention della Unilever, manda in visibilio un folto pubblico di venditori di detersivo dicendo che «Coccolino fa più danni di Andreotti».
Grillo non è un intellettuale. È un comico. Potentissimo, ingovernabile, intelligente, caustico, disorganizzato. Morosini, per così dire, gli organizza i pensieri: «Occorre un cambiamento individuale che nessuna politica verde e nessuna ecotecnologia può generare. Occorre dare più peso alle persone e meno alle cose, più al vivere e meno al lavorare. Occorre rinunciare consapevolmente a una parte del benessere materiale e dello spreco in cambio di un modo di vivere più sereno, più conviviale, più pulito e più sobrio. Quasi tutto ciò che abbiamo è troppo numeroso, troppo pesante, troppo veloce. La “troppità” è l’infezione di questo secolo. La sobrietà è il suo anticorpo».
La decrescita felice spiegata a un comico. Con qualche anno di anticipo. Grillo in quegli anni è una specie di Pasolini in versione molto pop (la sua proposta di abolire la pubblicità era sulle orme della proposta di PPP di abolire la scuola, o la televisione. Entra - sbraitando e ridendo - nel merito delle nostre vite quotidiane e imputa a ciascuno di noi, presi uno per uno, la responsabilità delle scelte. Poteva piacere o non piacere. A me piaceva, anche se non ero più il suo autore; e mi piaceva proprio perché stava uscendo dal seminato che gli era stato assegnato, quello del corpo a corpo con i politici, per parlare finalmente di “noi” e non di “loro”.
Proprio per questo mi colpisce e mi convince molto, nel libro di Morosini, la desolata annotazione che il “loro” come capro espiatorio diventerà invece, nel Movimento “snaturato”, un vero e proprio leit-motiv. Loro sono i cattivi, noi i buoni. È quello stesso, tremendo “loro” che spopola nei social e scarica ogni colpa, ogni responsabilità sempre sugli altri. «In tanti anni», scrive Morosini, «io e Beppe avevano imparato che “loro” non esiste, ognuno è il “loro” di qualcun altro. Ora invece (nel Movimento, ndr) il “loro” emergeva come causa di tutti i mali. Invece della consapevolezza della complessità di ogni fenomeno, c’era ora il semplicismo: ogni problema complesso ha una soluzione semplice, ma è impedita da “loro”». Non potrebbe essere detta meglio quella tremenda supposizione di innocenza e purezza, e di colpevolezza e sporcizia altrui, che ha reso odioso il grillismo bel al di là dei suoi demeriti.
Perché questo sia accaduto, secondo Morosini, è evidente. «Nel 2004 Beppe incontra l’imprenditore di webmarketing Gianroberto Casaleggio, che lo convertì alla fede nelle tecnologie digitali e lo convinse ad aprire un sito, poi chiamato Il Blog di Beppe Grillo... Gianroberto aveva sviluppato da anni le tecniche per influenzare una comunità in internet. Arruolando Beppe nel 2005 estese il suo progetto d’influenza a tutto l’elettorato. Dal suo punto di vista aveva probabilmente ragione a pensare che per ottenere un grande sostegno di massa in Italia siano più efficaci la polemica, le semplificazioni, le contro-verità e la volgarità che non gli argomenti razionali… L’ambizione di Gianroberto e di Beppe non fu di cambiare un governo. Fu quella di sostituire un’intera classe politica, di cambiare le istituzioni della Repubblica e il modo di usarle, e addirittura di cambiare la moralità di un popolo… Il Movimento era l’unico partito ad avere in mano il jolly verde. Ma lo ha scartato. Invece di puntare su un messaggio positivo e moderno, si è snaturato e si è dedicato principalmente a ringhiare contro i nemici. Ora raccoglie gli aridi frutti di ciò che ha seminato».
Mi sono sempre chiesto come mai Marco Morosini, che è non solo testimone oculare, ma protagonista diretto della storia del grillismo, in tutti questi anni abbia goduto di un’attenzione mediatica così distratta, nonostante fosse ben raggiungibile e consultabile. Fatte le debite proporzioni, è un po’ come se a nessuno sia mai venuto in mente di fare a Engels qualche domanda su Marx: dopotutto, i due si conoscevano bene. Comunque sia, e messa nel conto anche l’ipotesi che Morosini sia mosso, nei confronti di Casaleggio, da una sorta di gelosia professionale (il guru messo da parte che polemizza con il guru che lo detronizza), la sostanza della ricostruzione che lui fa della parabola del Movimento è molto verosimile.
Era «l’unico partito ad avere in mano il jolly verde» ed è mutato, con l’arrivo del tardo-utopismo digitale di Casaleggio, in una specie di “ultracorpo” con mire palingenetiche. Anche per questo, tornando al punto di partenza, la riduzione del Movimento a forza politica “normale”, e il distacco da ciò che rimane della celebre Casaleggio Associati, è una buona notizia. Anche per il Movimento, o ciò che ne rimarrà.