Mentre destra ed estrema destra con le loro manifestazioni puntano sul disagio e sulla rivolta, c'è anche un'altra Italia che torna a protestare in nome della Costituzione e ora si ritrova dopo la morte di George Floyd. Ma in tutto questo la sinistra dove è?

Otto minuti e quarantasei secondi. È il momento più coinvolgente dei BlackLivesMatter di questi giorni in tutto il mondo, le manifestazioni anti-razziste che protestano per la morte di George Floyd a Minneapolis, soffocato da un poliziotto. Tutti in ginocchio, in silenzio, per lo stesso tempo in cui si è spento l'afroamericano, con un ginocchio sul collo. Posizione scomoda. E sacrale.

Hanno manifestato a Torino, a Bologna, a Milano, a Roma, ieri, in piazza del Popolo. Tantissimi giovani e giovanissimi, bianchi e neri, cori, cartelli e interventi in italiano e in inglese. Silence is violence, No Justice no Peace, Dal Mediterraneo sott'acqua a Minneapolis sotto il ginocchio, Put some respect on my skin colour. E l'ormai famoso I can't breathe, non respiro, pronunciato da George Floyd mentre moriva: una supplica che diventa un grido di una rivolta.

Una manifestazione diversa, per tanti motivi. Era il ritorno in piazza dopo i mesi del lockdown e dell'emergenza covid, per di più, a Roma, nella stessa piazza che aveva visto la sfilata degli arancioni il 2 giugno festa repubblicana e nello stesso fine settimana segnato dalla parata fascistoide del Circo Massimo, preoccupante se non fosse stata comica. Ieri, invece, c'erano le croci sul selciato a segnare la distanza di sicurezza. Le mascherine. E i ripetuti appelli a rispettare il metro uno dall'altro quando, inevitabilmente, la piazza si stringeva troppo, nelle prime file o sul muretto che porta al Pincio. Alla fine, un gruppo di ragazze e di ragazzi hanno ripulito la piazza dagli adesivi sui sampietrini. Non c'erano politici, vip, stelle dello spettacolo, calca di soliti noti dietro il palco, non c'era neppure il palco, in verità. Ma non era una piazza anonima, anzi, proprio per questo, una delle più intense manifestazioni degli ultimi anni, altamente politica, perché convocata per tutti.

La differenza delle piazze anti-razziste è nella qualità, più che nei numeri. Uno dei punti interrogativi di questi mesi è cosa succederà nel ribollire italiano delle tensioni e delle proteste, la bomba sociale ripetutamente annunciata, sempre sul punto di esplodere, come l'atomica in era di guerra fredda. La risposta dell'ultimo fine settimana è duplice e contraddittoria. Da un lato, c'è una piazza di destra e di estrema destra che punta tutto sul disagio e sulla rivolta, scommette che la bomba esploda e si candida a rappresentare ogni angolo di malcontento e di disperazione. Un calcolo non infondato: basta vedere la situazione all'Ilva di Taranto o a Terni o il milione di persone di persone in attesa di cassa integrazione, nonostante le promesse.

Editoriale
Chi soffia sul fuoco
5/6/2020
Dal lato opposto, c'è il ritorno in piazza di un'altra Italia, che protesta non per se stessa ma per i diritti di tutti. È quanto sta succedendo negli Stati Uniti di Donald Trump e del covid. Una protesta di massa che affonda le radici nella profondità della storia americana: lo schiavismo, la discriminazione razziale, l'apartheid tra ricchi e poveri. Si manifesta per dire che se togli il respiro a uno è tutta la democrazia che smette di respirare. Da una parte e dall'altra dell'Atlantico.

Stella Jean, stilista italo-haitiana, ha infiammato la piazza di ieri a Roma quando ha invocato sul palco «il pezzo grosso di questa battaglia, ve la presento, è la Costituzione italiana». E ha letto l'articolo tre, quello sull'uguaglianza di tutti, senza distinzioni di razza, genere, condizioni sociali e personali. In quel momento suonavano le campane della chiesa di Santa Maria del Popolo, erano le dodici in punto di una giornata di sole velato. Non era una piazza da passare sotto la categoria delle Sardine, ma il reticolo delle tante piccole associazioni che fanno nel silenzio resistenza culturale e sociale. «Non siamo figli di italiani, siamo figli d'Italia», ho letto su un cartello. Figli dell'Italia costituzionale, repubblicana, antifascisti, cittadini di questo Paese anche se spesso senza diritto di cittadinanza. In questo, dunque, più legittimati a dirsi cittadini italiani degli abitanti del sabato fascista che ancora non hanno riconosciuto le istituzioni nate dalla Resistenza. Una piazza di sinistra? Si, ma nel senso di cui parlava Jesse Jackson, grande leader nero, che si candidò alle primarie dei democratici americani nel 1988 con uno slogan: “Non chiamateci sinistra, siamo il centro morale”. Quel nucleo di principi senza cui non esiste un Paese.

C'è un vuoto, in mezzo. Il vuoto della politica. La protesta sociale non ha in questo momento rappresentanza. Non la rappresentano in particolare i partiti e i sindacati che si riconoscono nella storia della sinistra lo stanno facendo. Una voce che varrebbe la pena portare agli Stati generali del premier Giuseppe Conte. E non trova rappresentanza neppure il radicalismo dei valori democratici, primo fra tutti l'uguaglianza tra tutti i cittadini. Otto minuti e quarantasei secondi di silenzio servono a risvegliare da un'afasia più lunga e più inquietante, l'assenza di dibattito politico con cui si stanno compiendo scelte che incideranno sul prossimo decennio. E a ricordare che quel vuoto va colmato. Gli interessi dei lavoratori dipendenti e autonomi, cassintegrati, precari, il tessuto delle piccole aziende che è la risorsa italiana, da difendere e da rilanciare con intelligenza, nei tempi nuovi. E i valori non negoziabili della democrazia. Chiamiamola democrazia del Rispetto. Respect. Ecco un campo di gioco immenso: dove sei, sinistra?