È il luogo che ha dato i natali a Beppe Grillo e ai pentastellati. Ma da qui partirono anche le prime diaspore. E oggi di otto eletti in parlamento sono rimasti in tre. «Rischamo di evaporare»

Sant’Ilario è quartiere di giardini nascosti, sono silenziosi pure i cani da guardia, è lontana Roma e pare lontanissimo il ribaltone politico dell’ultimo mese e mezzo. Eppure, sulla collina genovese da dove guarda il mare la villa di Beppe Grillo, questa pace apparente fa quasi più rumore delle lunghe giornate romane in cui si sta contorcendo il M5s dopo la sua (ennesima) giravolta di governo.

 

In Liguria, nella regione che ne è stata culla e madre insieme, quello delle Cinque Stelle è un giallo sbiadito. Bandiera di un Movimento a chilometri zero già crollato nel consenso, passato da troppe tempeste, oggi fiaccato dalla lunga lista dei parlamentari persi per strada. Dopo la furia delle espulsioni per direttissima seguite alla fiducia al nuovo esecutivo, della delegazione parlamentare dei grillini liguri rimangono tre reduci appena - quattro, se il certificato medico farà davvero graziare la senatrice Elena Botto, assente in aula nel giorno del voto - sugli otto eletti a inizio legislatura.

 

Una scena da tutt’altra tonalità di giallo («ne resterà soltanto uno», scherzano ma non troppo i militanti, citando i “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie) che più che altrove pare il simbolo perfetto della frattura scomposta interna al (fu) partito del 30 per cento. Da una parte i ribelli, dall’altra i governisti, tra gli stessi dissidenti chi guarda a destra e chi guarda a sinistra. Tutti uniti, quello sì, da un’unica certezza. La consapevolezza che «il Movimento è cambiato, - è la sentenza - rimane da capire in che cosa».

 

Politica
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Solo sulla carta una delle tante periferie politiche dell’impero, la Liguria e il suo capoluogo del resto non sono più da tempo solo casa Grillo, il Monte degli Ulivi dove il Movimento è stato rivelato, “intuito”, in qualche modo preannunciato. Dalla notte genovese del settembre 2008 in cui per la prima volta il futuro garante parlò della nascita delle liste a Cinque Stelle, davanti al mare delle origini è passata infatti l’intera epopea pentastellata, dalla stagione dei meet-up all’assalto ai palazzi del potere.

 

Oggi si contano i parlamentari reietti (i senatori Matteo Mantero e Mattia Crucioli, i deputati Leda Volpi e Marco Rizzone, cacciato la scorsa estate per aver richiesto il bonus Covid per le partite Iva), ma è da qui che sono partite alcune delle crepe più devastanti dell’intera storia grillina. Una su tutte, la prima, vera falla giudiziaria interna, la guerra di Marika Cassimatis. L’attivista che nel 2017 vinse le Comunarie per la corsa a sindaco di Genova, prima di vedersi sfilare la candidatura dallo stesso Grillo e iniziare la lunga battaglia legale che negli anni ha portato a un cambio di statuto, i tanti dubbi sul sistema Rousseau, di fatto la fine certificata dell’uno vale uno. Un «principio di autodistruzione» del M5s - si definì - “apparecchiato” da Lorenzo Borré, avvocato specializzato in cause grilline, già 70 contenziosi a cinque stelle alle spalle, uno dei legali tirati in ballo in tema di ricorsi anche in questi giorni.


Se insomma potrebbe sembrare una grande contraddizione, che la lacerazione di queste ore emerga così lucidamente proprio dove il leader politico tra tutti più lontano e “incorporeo” è invece fisicamente più vicino, la storia insegna così non è. La nuova diaspora grillina, in questa terra madre, «è un seguito di quelle passate, che ci hanno falcidiato a tutti i livelli in piccole e grandi amministrazioni», ci si spiega anche tra militanti delusi. La fuoriuscita traumatica di oggi, nella terra dell’Elevato, arriva dopo una lunga serie di porte sbattute. L’ultima quella dell’ex pupilla di Grillo Alice Salvatore, all’addio dopo l’accordo pre Regionali con il Pd ligure, la scorsa estate. La prima quella di Paolo Putti, il “Pizzarotti genovese”, il primo candidato sindaco pentastellato nella città del capo. Attivista delle origini che scappò dal M5s nel 2016 - riflette oggi - «per le stesse ragioni di questa ultima crisi: non ha più identità, ha allontanato e non avvicinato le persone dalla politica. Eravamo partiti sognandoci tanti piccoli Grillo, sono finiti grillini nel senso peggiore del termine».

 

Matteo Mantero


«Questo è un Movimento non umano, che risponde ad un grido di dolore tagliando teste: mi fanno pena, hanno distrutto un sogno, si godano l’incubo che hanno creato», si sfoga oggi il senatore savonese Mantero, fresco di espulsione. Un partito «dove il pragmatismo ha preso sopravvento sulle idee», e nel quale si dividono anche gli epurati. Succede a livello nazionale, «di riflesso succederà nel locale». Ci sono i ribelli che si sono organizzati per impugnare collettivamente l’espulsione, i grillini sciolti (come lo stesso Mantero, che farà ricorso autonomamente), i deputati che hanno costituito “L’alternativa c’è” (la componente degli ex grillini nel Misto di Montecitorio). E poi i senatori come Crucioli, quello che in diretta tv ha fatto share rispondendo «Mai!» alla prima chiama sulla fiducia al nuovo governo. Puristi che confluiranno in un nuovo gruppo grazie alle riesumazione del simbolo dell’Italia dei Valori. «L’alternativa - pesta amaro il senatore genovese - ad un M5s appiattito sullo status quo della classe dirigente che prima contestavano. E per questo finito come gli altri partiti: senza peso, né distinzione, né utilità».


Apparentemente immune anche ai cambi di gioco del suo leader, girate di tavolo che un tempo sarebbero bastate a fugare i dubbi di tutti con un solo post, anche visto da casa Grillo insomma il pianeta grillino pare una Fantàsia in via di sgretolamento. Sempre meno anti sistema, sempre più partito, «non più marziano», - ha sentenziato il garante sul blog - «è vero, il Movimento è cambiato», è l’unico punto su cui concordano reduci e ribelli, aziendalisti e fuggiaschi. «Ma proprio per questo sarebbe servito rimanere uniti, evitare insieme il suicidio politico del no al nuovo governo, ingoiare il rospo e continuare compatti a controllare la politica e fare massa critica», riflette alla Camera Sergio Battelli, presidente della Commissione politiche europee, uno dei “piccoli indiani” liguri rimasti nel gruppo insieme agli ex sottosegretari Simone Valente e Roberto Traversi. «Un’operazione di interesse nazionale, da cui ripartire anche per sistemare i nostri tanti problemi interni», - è la linea - e magari trovare forme nuove, a Roma come nel resto del Paese.


Se l’agenda del Movimento del futuro più prossimo è già piena, del resto, tra sottosegretari da piazzare, l’elezione del nuovo direttorio, i legami difficili con Rousseau e il nuovo ruolo dell’ex premier Giuseppe Conte, «a livello locale - continuano i governisti - rischiamo di ritrovarci a gestire altre crisi: avevamo già perso voti e amministratori, si rischia di evaporare». Ed è per questo, che l’inevitabile mutazione del Movimento passerà anche e soprattutto sui territori, ad esempio nell’organizzazione delle basi regionali. «Qualcosa cambierà per forza, mai come da ora servirà essere organizzati in strutture chiare e definite, con responsabili regionali e compiti precisi. Anche a livello regionale, ormai, serve una struttura leggera che possa gestire le cose». Una sorta di declinazione locale del direttorio a cinque nazionale, forse qualcosa di ancora più strutturato e collettivo. «Una segreteria di partito, - si lascia scappare Battelli - ma non scriviamolo, se no mi uccidono». O forse no, forse non più, forse - nel Movimento della sua era Draghi - cadrà anche l’ultimo tabù. Citofonare a Sant’Ilario, silenzio permettendo, per chiedere.