intervista

Guido Crosetto: «Giorgia Meloni governerà, ma con la Bce»

di Susanna Turco   29 aprile 2022

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«La leader di Fratelli d’Italia premier? Non bastano i voti, servono i poteri forti. E il percorso di accreditamento è a buon punto». Parola del cofondatore del partito e sua “ombra”

Molto tempo fa un politico esperto di astrologia disse che Guido Crosetto era la spalla giusta per accompagnare Giorgia Meloni nel percorso per diventare, come figura pubblica, una «madre», ossia una possibile premier. Erano gli esordi, una vita fa, l’epoca in cui Meloni e Crosetto erano il «gigante e la bambina» e costruivano Fratelli d’Italia, 9 deputati e zero senatori nel 2013, dopo essere usciti dal Pdl perché Berlusconi non volle fare le primarie alle quali erano candidati entrambi. Dieci anni dopo, con Fdi primo partito nei sondaggi, Meloni è la leader e Crosetto la sua ombra.

Sempre tre passi indietro. Ma per molti è lui quello che più la supporta nel prendere posizioni non ortodosse, come la conferenza programmatica di Milano che porta FdI un pezzo fuori dalle liturgie della destra e dentro la sfida a Matteo Salvini. Ora preferisce restare fuori dalla politica: dal 2014 è presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad), si trincera dietro una scrivania di carte, appunti, foto di aerei ed elicotteri. Ma è nato democristiano e fa politica da quando era studente.

Come vi siete conosciuti, lei e Giorgia Meloni?
«Ero sottosegretario alla Difesa, mi chiese di trovare un posto per la palestra a Scampia di Gianni Maddaloni, trovai anche soldi per iniziare. Fummo poi vicini di banco, alla Camera, ai tempi del Pdl».

Quindici anni fa. Adesso sbarcate a Milano.
«Quest’evento cambia la pelle ed il percepito di FdI. Un passo ulteriore che andava fatto»

Comincia la corsa verso il governo?
«Essere un partito significa avere un progetto per il Paese, mettere in conto la possibilità di governare. Elaborare un programma va persino controcorrente, in anni nei quali la politica si è adagiata nel non fare, partecipando a governi inventati all’ultimo, magari guidati da un tecnico e amen».

Una pacchia.
«Si lascia ai politici la parte che amano di più. La gestione del potere e di ciò che comporta, anche se sono le briciole: mi faccio la segreteria, porto l’amico, do una consulenza, ho le macchine blu, non faccio la coda. Cose che nulla hanno a che fare con la politica ma che sono diventate il simbolo esterno di una politica che non sa più usare il potere: non ne vuole la responsabilità, ma ne vuole i benefici».

Agli esordi di Fratelli d’Italia nessuno vi dava una lira.
«Uno dei grandi problemi di questo Paese è togliersi di dosso i pregiudizi e le etichette: a me succede sui social. Essendo uno dei fondatori di Fratelli d’Italia devo giustificarmi del mio passato fascista».

Ha un passato fascista?
«Ma quando mai. Al massimo mi si può definire cattolico liberale. Invece mi chiedono: cosa hai fatto nel Ventennio? Nulla, non c’ero».

Lei è nato democristiano.
«Ho iniziato nel giovanile Dc, quando è morta ho smesso di far politica. Mi ha recuperato Forza Italia nel 2000, me ne sono andato quando ho capito che Berlusconi non avrebbe mai mollato il comando e che bisognava ricostruire un contenitore di centrodestra. L’ho fatto con Giorgia, l’unica disposta a iniziare da zero».

Ora le danno del fascista, all’epoca era lei che dava credibilità a loro.
«Non esageriamo. Alla sua nascita la base del partito per il 90 per cento era di ex An, io garantivo la presenza di un’anima ulteriore. In questi anni c’è stata una evoluzione, che è visibile nell’evoluzione di Giorgia. L’attenzione che ha per le aziende. Il modo in cui parla di lavoro, di politica estera».

Quello è Crosetto?
«No, è una crescita che ha avuto lei, e il partito. Come in Europa, quando tutti si aspettavano che andasse di corsa tra le braccia di Marine Le Pen, con Matteo Salvini, e invece lei entrò nei conservatori. Per poi diventarne leader».

C’è lo zampino di un altro dc: Raffaele Fitto.
«L’ha aiutata. Con Nicola Procaccini e Carlo Fidanza. Ma pure questa è una evoluzione sua. Come il dialogo con i repubblicani americani: Meloni è stata la prima italiana invitata alle convention».

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Come ha fatto?
«Siamo stati considerati interlocutori politici seri prima dal partito repubblicano, ora anche dal deep state Usa con la questione ucraina: hanno capito che c’è un partito che si prende un impegno e lo mantiene».

A Milano, oltre a lei, molti non appartengono alla storia della destra ex An, da Luca Ricolfi a Carlo Nordio.
«La presenza di Nordio è una tappa fondamentale di crescita di un centrodestra garantista in modo serio: non leggi ad personam ma giustizia. Il riequilibrio del potere: alla magistratura tutti i poteri che servono a combattere malaffare e ingiustizie, ma non a tenere sotto scacco la politica utilizzando strumenti che sono nati per altro».

C’è anche Giulio Tremonti, una cui finanziaria lei definì «da psichiatra».
«Scontri epici, ma è una delle teste migliori del Paese. L’età ne ha migliorato il carattere, è raro».

Ma sono nomi di vecchio conio. Nulla di nuovo?
«Ora serve la saggezza: bisogna ricostruire una cosa che è morta».

Che cosa è morto?
«La politica».

Pensavo il centrodestra.
«Beh, la politica e il centrodestra. La ricostituzione di un centrodestra serio obbligherà anche il Pd a ricostruirsi attorno alla politica e non alla gestione del potere, nella quale si è specializzato».

Non c’era un’affinità elettiva tra Letta e Meloni?
«Sono gli unici che si ostinano a costruire strutture fondate sulla politica, e sulla democrazia interna. Un’affinità di impostazione: d’altronde, uno è democristiano».

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Come lei.
«Sì ma io sono culturalmente un moderato conservatore. Vengo da una provincia dove la Dc aveva il 50 per cento, i liberali il 20, i repubblicani il 10, la sinistra erano i socialisti. I comunisti per carità: a Cuneo? Giusto Carlin Petrini. Un amico».

Da ventenne ha lavorato con Giovanni Goria, era un ragazzino.
«Una volta nel giovanile Dc crescevi e Goria era un amico. Così come ero legato con Donat Cattin, che non amava Goria. O con Guido Bodrato, che non si trovava con Donat Cattin. O con Adolfo Sarti, ministro e grandissimo intellettuale. I veri nemici allora erano gli andreottiani».

E chi erano gli andreottiani?
«Da me, la Coldiretti».

Difficile immaginarla democristiano.
«Eretico lo ero già allora. Posi con forza la questione morale come fondamentale, dicendo in un congresso nazionale che avrebbe distrutto la Dc. L’altro tema, lo condividevo con Goria, era il controllo della spesa pubblica. Negli anni Duemila, ero il solo a fare emendamenti al bilancio della Camera, sui costi della politica. Mi trattavano da rompiscatole».

Crosetto un proto-grillino?
«Senza fare come questi grillini, vergognosi, che hanno protestato contro la casta in autoblu, poi adesso hanno dieci autoblu. Questi vogliono la scorta come status symbol, mica perché gli serve. Io alla Difesa usavo la Smart. Meloni da ministro andava in scooter, neanche ora ha la scorta».

Perché in tante evoluzioni non si libera della camicia di forza della «fascista», visto che ha le carte per farlo?
«Per coerenza: lei ha vissuto una vita sulle radici di una destra di cui una parte del fascismo è stata parte. E poi dice che è inutile: Fini l’ha fatto, e gliel’hanno sempre rinfacciato; quando serviva l’hanno alzato, quando non serviva era sempre il solito fascista. Per quel che riguarda Meloni, è nei suoi atti, che deve dire? Che lei è lei? Magari quando non glielo chiederanno più lo farà».

Può fare la premier?
«In questo Paese non basta prendere più voti: chi fa il premier deve necessariamente fare i conti con poteri esterni. Senza l’ombrello della Bce e l’intervento di altri Paesi, non riesci a governare. Serve sì accreditarsi in Europa, far capire che non siamo gli sciamannati che vogliono scappare con la refurtiva. Ma governare. Il percorso è a buon punto».

Non abbiamo ancora nominato Salvini.
«A me è simpatico: alla fine è una brava persona».

Non so se ci sia un insulto peggiore per un politico.
«Per me è un complimento. È uno che si muove seguendo la pancia. Un fantasista».

Salvini e Berlusconi non vogliono Meloni premier. La corsa verso il governo passa per una rottura?
«Nessuna rottura, anzi confrontiamoci sui programmi».

Cosa ha Meloni che non gli va?
«Intanto è una donna. Da un uomo avrebbero meno problemi. La trattano da Ufo, ma lei non vuole costruire un centrodestra senza Salvini, Berlusconi, Toti, Brugnaro, Rotondi. Sa contare, sa che per vincere serve arrivare al 51 per cento. E Berlusconi ha insegnato che in politica conta l’offerta».

Dicono che Meloni voglia restare all’opposizione.
«Sbagliato. Questo discorso vale può valere per qualcuno che sa che, pur vincendo, non avrebbe da lei i ruoli desiderati. Non per lei. Sa che la politica è davvero sangue, oltre che merda. E la situazione sarà spaventosamente difficile per l’Italia».

Quanto dura il governo Draghi?
«È Putin che lo tiene in piedi, dopo il Quirinale non avrebbe resistito senza la guerra».

Il feeling tra premier e leader di FdI è evidente.
«Parlerei di rispetto. Lei gli ha sempre detto la verità. Come esiste rispetto con Mattarella. Non gli ha mai detto: ti voto».

Salvini ha detto di no invece poi l’ha votato. Perché?
«Ha temuto di non essere più lui a decidere il presidente».

Col Quirinale il centrodestra è morto?
«Non è ri-iniziato».

E a forza di fare così non rischia di finire male?
«Il centrodestra può perdere solo per paura di governare. Se cede alla tentazione di usare un’altra volta l’ombrello del Papa straniero».