A Verona e Catanzaro il centrodestra si spacca e consegna le città a Tommasi e Fiorita, candidati del territorio. Ma dall’alleanza di Letta svaniscono i Cinque stelle. E Calenda

Una vittoria che non fa primavera, come quella del centrodestra al primo turno, ma che segna la fine del tripolarismo (e dei Cinque stelle) dà molto da pensare a Enrico Letta e a Giorgia Meloni, leader dei maggiori partiti chiamati a costruire coalizioni e offerta politica, da qui alle politiche del 2023. I ballottaggi nelle città, chiusi ieri sera con percentuali da spavento quanto ad astensione (sono andati a votare 4 elettori su 10, il 41,6 per cento), consegna al centrosinistra, ma soprattutto al Partito Democratico – dopo la morte per stenti del campo largo, e in un orizzonte dove anche il modello Calenda non si sente tanto bene, vedasi il caso di Lucca - una vittoria che va ben oltre le aspettative. Soprattutto in tre centri-simbolo di questa fase: Verona, Piacenza, Catanzaro. Che erano saldamente in mano alla destra: Piacenza da 5 anni, Verona da 15, Catanzaro da 18.

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Città nelle quali la rimonta del centrosinistra è stata possibile, anzi tutto, grazie alle divisioni da faida medievale nel centrodestra. Campionessa in questo Verona, dove il 53,4 per cento di Damiano Tommasi è la lineare conseguenza del 39 per cento che l’ex calciatore della Roma aveva conquistato al primo turno, dimostrando di aver saputo incarnare il volto nuovo - al di là delle appartenenze in una città che resta profondamente di destra – in un panorama cittadino probabilmente stufo della disfida ormai asfittica tra l’ex leghista (ora Fi) Flavio Tosi e l’ex leghista (ora Fdi) Federico Sboarina. Una disfida che cinque anni fa aveva visto Sboarina vincere al ballottaggio contro la moglie di Tosi, Patrizia Bisinella. E che è poi continuata in consiglio comunale, con Tosi a fare opposizione più della sinistra, per poi finire con il mancato apparentamento al secondo turno (i due, del resto, hanno in piedi vicendevoli querele).

 

In questo quadro di destra disastrata, la scelta di Tommasi è stata felice – una felice iniziativa civica, appoggiata a distanza dalla politica, che ha colto il colpo di fortuna - ma non si può certo dire che sia frutto incarnato di un ragionamento svolto altrove (tipo: al Nazareno), e concretizzato con una qualche sistematicità (tipo: delle primarie): per quanto si giri lo sguardo, non esistono ad oggi altri “Tommasi” impegnati sul campo, né Enrico Letta o chi per lui ne ha teorizzati. E del resto lo stesso neosindaco di Verona non ha voluto volti politici di caratura nazionale per la serata di chiusura della campagna elettorale.

 

Diversi i casi, in questo senso, di Catanzaro e Piacenza. Qui sono stati i volti del Pd locale a decidere il candidato, e il nome scelto – coniugato con le spaccature del centrodestra – ha fatto la differenza. L’ha fatta a Piacenza, dove la scelta di Katia Tarasconi, voluta dal governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, ha reso possibile il sorpasso per un soffio sulla sindaca uscente Patrizia Barbieri, che nel 2017 aveva vinto con il 58 per cento in una città di tradizione non certo nera.

Analisi
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L’ha fatta a Catanzaro, dove dopo il ventennio di Sergio Abramo, il Pd guidato dal neo segretario regionale Nicola Irto ha scelto - «in direzione ostinata e contraria», come rivendica lui stesso nel post su Facebook dopo la vittoria – il poi vincitore con quasi il 60 per cento Nicola Fiorita, rifiutando di andare sul dem e poi candidato di Forza Italia Valerio Donato, ex Pci, appoggiato da alcuni pezzi dei democratici calabresi. Una vittoria politica, possibile anche grazie al passo indietro di civici di peso come Aldo Casalinuovo, e che anche in questo caso ha pochissimo a che fare con il campo largo nel senso dell’alleanza coi Cinque stelle. Qui, ancor di più che in quasi tutto il resto d’Italia, quello dei grillini è un peso piuma, e anzi forse questo turno di ballottaggio – il primo dopo la scissione di Di Maio – ne segna una dissolvenza forse irrecuperabile.