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Politica
giugno, 2022

Elezioni Amministrative, la fiera delle cento alleanze. Guida al voto del 12 giugno

Parma, Catanzaro, Lucca, Rieti. Ogni città è un caso a sé. Ed è boom delle liste civiche. Vi raccontiamo questa tornata elettorale, prova generale per le politiche

Sarebbe bello se, alla fine, il responso delle urne spingesse la coppia politica del momento, Giorgia Meloni ed Enrico Letta, leader di Fratelli d’Italia e del Pd, a inverare quell’iperbole che nell’ombra alcuni consigliano loro di contemplare: mollare gli alleati e presentarsi da soli alle elezioni politiche del 2023; anche con la stessa legge elettorale, anche col Rosatellum. Ma, almeno, senza Salvini. Senza Conte. Significherebbe semplificare, squarciare con un rasoio di Occam l’acquetta torbida frutto di cinque anni di governi acrobatici (Lega-M5S, M5S-Pd, tutti con Draghi), caos che si riverbera bene nelle prossime amministrative, da osservare come fondi del caffè per una divinazione sul destino delle attuali, malcerte, coalizioni.

 

Dopo il contismo verde, il contismo rosso e il draghismo totalitario, il guazzabuglio che domina sull’intero arco costituzionale si vede a specchio nel trionfo delle geometrie variabili, da scienziati pazzi, della tornata elettorale del 12 giugno dove vanno al voto 978 comuni, di cui 143 sopra i 15 mila abitanti, 22 capoluoghi di provincia, 4 di regione. Anche a tralasciare le realtà più piccole, le specificità, salta all’occhio quanto i leader non sappiano esattamente quale ricetta proporre agli elettori. O meglio: che non ne abbiano trovata una appena solida, per fare da linea rossa.

 

Si può quindi trovare il centrodestra diviso, come a Catanzaro, a Messina, a Verona, in modi ogni volta diversi (fino ai casi in cui i candidati sono tre, uno per partito) perché ancora incompiuta è la partita per la leadership tra Meloni e Salvini.

 

Oppure un centrodestra perfettamente unito, come nei comuni lombardi più importanti (Sesto San Giovanni, Lodi, Como, Monza), dove proprio la leader di Fdi (proprio lei) ha iniziato la campagna elettorale evocando le virtù del procedere tutti insieme, nella roccaforte del potere salviniano.

 

Si può trovare il centrosinistra in blocco coi Cinque Stelle e destinato a perdere, come a Genova, oppure di botto senza i pentastellati, come accade ad esempio negli 89 comuni della Campania che vanno al voto, con l’eccezione di Acerra e Nola. Grillini divisi in fazioni opposte, come a Portici, dove il Movimento scende in campo contro il Pd, ma Luigi Di Maio sostiene il candidato dem. Grillini sterminati, come a Parma. Grillini risorgenti, come a Taranto. Renziani un po’ di qua un po’ di là (da soli mai).

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Ce n’è in effetti per tutti i gusti, anche nell’esplodere delle liste civiche, segno più evidente della generale fragilità dei partiti (solo Pd e Fratelli d’Italia riescono a presentare il simbolo quasi ovunque), e nell’esondare della discesa in campo: mediamente, in ogni comune, ci sono 4-8 candidati e ogni aspirante sindaco si presenta con 4-7 liste, un piccolo esercito di 200 nomi cadauno. In pratica cinquecento, seicento, settecento persone intente a fare campagna elettorale, formicai di voti che, non di rado, rappresentano una nuova frontiera del clientelismo.

 

Sicura è l’esplosione della candidatura.

 

Esemplare il caso di Rieti, dove c’è un aspirante consigliere ogni 90 abitanti, per un totale di 569 su 46 mila persone. Altro caso limite, quello di Viterbo, dove su 67 mila abitanti i candidati sono otto e gli aspiranti consiglieri 724 (uno ogni 92 viterbesi); poco sopra Acerra, dove c’è un candidato ogni 94 cittadini, per un totale di 632, o Molfetta, uno ogni 100 (585 su 59 mila). Il capoluogo della Sabina è peraltro interessante per un altro elemento, balzato in cronaca: vede il debutto della lista di ispirazione pentastellata “Con Te”, che appoggia l’ex Sel Simone Petrangeli, insieme con il Pd. Molto suggestivo ipotizzare che si tratti di un primo tentativo di saggiare l’effetto “Conte” nel simbolo, segno di un partito che - senza più né un “Beppe Grillo” né un “Movimento” - sia pronto a cambiare completamente pelle: non bisogna dimenticarsi tuttavia che nel 2017 il Movimento qua prese il 5,3 per cento, non esattamente un trionfo.

 

Risorge invece, a dispetto di tutto, il Conte II. A Taranto, uno dei panorami più importanti per il centrosinistra. Nella città che nel 2018 vide i Cinque Stelle prendere il 50 per cento dei voti (e 5 parlamentari) contro il Pd - con la promessa poi tradita di chiudere l’Ilva - adesso i pentastellati sostengono, con il Pd, l’ex sindaco Rinaldo Melucci. Mentre il centrodestra, in pieno stile barocco-Emiliano, sostiene Walter Musillo, ex segretario provinciale dem, candidato due anni fa nelle liste proprio di Michele Emiliano, il governatore pugliese campione di trasformismo e, ormai, capofila di un genere che nella sua regione dilaga alquanto.

 

Anche a Catanzaro il centrodestra si è preso un candidato “da fuori”, dividendosi: è questo il motivo per cui Enrico Letta ha cominciato a sperare su un capoluogo di Regione inizialmente dato per perso. Ecco la storia: professore universitario, di provenienza Pci, Valerio Donato era l’unico dei tre possibili candidati del centrosinistra ad avere in tasca la tessera del Pd. Scartato dai dem, che gli hanno preferito Nicola Fiorita, è stato ripescato dal centrodestra, diventando il nome “civico” per Fi e Lega che - come da tradizione - vagolavano senza prendere una decisione. Proprio per questo la deputata meloniana Wanda Ferro, che pure avrebbe voluto costruire la candidatura di Donato per la successione di Abramo, alla fine è stata costretta a scendere in campo pure lei. Risultato: adesso, grazie alle divisioni nel fronte opposto, Fiorita, docente lanciato da Pd e Cinque Stelle, può sperare. Almeno di arrivare al ballottaggio.

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L’altra speranza di Letta è L’Aquila, unico capoluogo di regione che, con Catanzaro, offre qualche margine (è data per persa anche Palermo, oltre a Genova). Nel 2017 la città simbolo del terremoto 2009 fu una delle sconfitte più cocenti per i dem, allora guidati da Renzi. Adesso il Pd cerca una rimonta, che è nelle mani di Stefania Pezzopane, sostenuta dai grillini e da Iv. In campo c’è il sindaco uscente, Pierluigi Biondi, Fdi, protagonista nel 2017 di una rimonta a sorpresa. Ma c’è anche Americo Di Benedetto, lo sconfitto di cinque anni fa, oggi sostenuto da Azione.

 

Anche a Parma è proprio il partito di Calenda a contribuire nel rendere aperta una sfida fuori media. Già apripista del M5S nel 2012, la città si prepara a una nuova svolta: di qua c’è Michele Guerra, assessore di Pizzarotti che è in campo con il Pd e Iv; di là, sostenuto solo da Fi e Lega (Fdi va per conto suo), c’è l’ex sindaco Pietro Vignali, tornato in pista dopo i rovesci giudiziari; in mezzo, Dario Costi, docente universitario sul quale Calenda punta assai.

 

L’assenza di un’alleanza al centro è forse l’elemento più sorprendente, soprattutto dopo tanto vagheggiare di nuove alchimie. Tant’è che il renziano Ettore Rosato arriva a scomodare l’espressione «laboratorio politico» per l’unica eccezione in campo, quella di Lucca, dove Italia Viva, Azione e +Europa sostengono il direttore d’orchestra Alessandro Veronesi, terzo incomodo tra il candidato del Pd e quello del centrodestra. Per il resto, il partito di Renzi e il partito di Calenda non sono alleati. Spesso, bisogna dire, di loro non compare neanche il simbolo, annegato pure lui nel civismo. Italia viva, in particolare, è assente quasi ovunque. E si trova, non tanto di rado, nella pancia della destra.

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