Politica
5 luglio, 2022

Enrico Letta e Giorgia Meloni, è l’ora dei secchioni

Mentre Giuseppe Conte affoga nell’antidraghismo e Matteo Salvini promette sconquassi a scoppio ritardato (leggi: Pontida), i capi di FdI e Pd progettano la marcia verso le elezioni del 2023

Notizia ferale per le redazioni dei giornali e per gli autori di satira: si apre ufficialmente l’era dei secchioni. Vi mancava Danilo Toninelli e il suo fantasismo senza copione? Non avete visto ancora niente, la nostalgia diverrà insopportabile. Il voto nelle città ha dato una legnata alla possibilità (per taluni: la speranza) di una estate fatta di balletti tra partitini e movimenti in discesa, quadriglie Renzi-Calenda, tanghi Di Maio-Conte, con Salvini a fare la spaccata tipo Heather Parisi.

 

Intendiamoci: le danze nell’affollata sala del centro vi saranno - specie con questo caldo che funge da flipper alle sinapsi - ed è una garanzia che persino Beppe Grillo abbia ricominciato le sue calate all’Hotel Forum di Roma, eppure le Amministrative hanno certificato che il tempo prossimo non è quello dei cavalli pazzi, delle rivoluzioni del cambiamento, dei nuovi mostri, della geometria ellittica e iperbolica. È quello invece degli assi cartesiani, delle rette, dei culopietristi, dei secchioni appunto. Gente che studia e prende appunti, gente che ha il terrore della brutta figura, gente che rinuncia al colpo d’ala se intravvede il rischio di una gaffe, gente che la sconfitta della povertà non la proclamerebbe nemmeno sotto tortura, figuriamoci sopra un balcone.

 

Del resto è il momento storico. Il prezzo della benzina e il calo del potere d’acquisto dei salari tirano più di rosari e Madonne, lo stato solido più dello stato gassoso, la noia credibile più del colpo pazzo: è insomma la stagione di Enrico Letta e di Giorgia Meloni. L’uomo che vince senza muoversi, la donna che vince senza incarichi. L’unico altro protagonista con cui triangolare il gioco politico-istituzionale sarà Mario Draghi, con un ruolo ancora da definire, un grado di fantasiosità probabilmente superiore ma accuratamente occultato. È, per dire del futuro che ci aspetta, la stessa onda che porta più in alto che mai nella considerazione una eterna prudente come Mara Carfagna, da un decennio in predicato di leadership. Il trionfo prossimo dei secchioni, rassegnarsi.

Scenari
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1/7/2022

Lo dicono i sondaggi, lo dicono i risultati del voto, lo dice l’assenza di alternative. Colpito forse a morte il tripolarismo a marca grillina che ha segnato questi anni e devastato questo Parlamento, fiaccato il fighettismo neocentrista tutt’altro che domo (al momento sembrano esserci più dirigenti che elettori, molto ci si aspetta in questo senso da Carlo Calenda, deciso a un polo autonomo), rinforzato invece il bipolarismo annebbiatosi dal lontano 2013, ecco dunque avanzare - tra mille problemi - la coppia che, salvo stravolgenti novità invisibili all’orizzonte, ci porterà dritti fino al voto politico del 2023. Quando magari saremo chiamati a scegliere tra l’uno e l’altra.

 

Il capo del Pd e la capa dei Fratelli d’Italia, sinistra e destra, lei più giovane all’anagrafe ma più anziana in Parlamento (16 anni da deputata, contro 13), lui con molta più esperienza di governo, impegnati in politica sin dalla culla (tendenza accademico-familiare lui, creatura di popolo e di sezione lei), leader dei due partiti che i numeri e gli elettori danno come i più forti, accoppiata già collaudata nelle decine di incontri pubblici stile Sandra e Raimondo (copyright Meloni) che hanno fatto la delizia dei cronisti, sono destinati volenti o nolenti a guidare la partita nei prossimi mesi, sfidando i rispettivi limiti, che sin qui li hanno condannati ad eccellere senza sfondare. Nel trionfo di una politica che appare dimentica dell’arte vitale della zampata. La realtà non dà scampo.

 

Il voto delle città, ballottaggi soprattutto, ha contribuito col suo a definire la situazione. Da una parte c’è il Pd di Letta che, ironia della sorte, si è trovato a dover riequilibrare i magri risultati del 2017, eredità dell’ultima fase del renzismo: adesso, cinque anni dopo e previa cura di «serenità», il bilancio dei comuni capoluogo è passato da 17 e 5 per il centrodestra a un meno sbilanciato 13 a 10, una vittoria civica e senza esagerazioni che tuttavia per come si è costruita sfarina i progetti di «campo largo» sin qui sbandierati, senza per ora averne concretamente di nuovi. Dall’altro c’è Giorgia Meloni che – in un centrodestra ammaccato - vince la disfida interna su FI e soprattutto sulla Lega, primeggiando anche dove perde (a Verona, sconfitto Sboarina, Fratelli d’Italia ha comunque tre consiglieri, la Lega solo uno), o addirittura riuscendo a vincere sola contro il centrodestra: come a Jesolo, Venezia, dove sindaco è il trentacinquenne Christofer De Zotti, o a Mortara, Pavia, dove il medico di FdI Ettore Gerosa costituirà il primo monocolore. Esempi, vedremo se luminosi, di una tendenza in espansione: anche se al sud non è andata bene, Meloni ha conquistato al nord – storicamente più ostico per la destra Msi-An – larghe fette di voto in uscita soprattutto dal Carroccio. E continuerà, se nel centrodestra non le fanno troppi sgambetti.

 

La gabbia di coalizioni problematiche è in effetti uno dei punti che accomuna i due leader, ma i problemi più gravi in questo campo ce li ha proprio Meloni. Dopo una vita di politica, l’ex capa dei giovani di An, da un decennio capa dei Fratelli d’Italia che ha portato dal niente alle stelle del 21 per cento, deve decidersi se sferrare l’attacco finale al centrodestra sfrangiato. Conquistarsi cioè una leadership che con lei sarebbe più a destra che mai, dal dopoguerra ad oggi. Neanche il genere l’aiuta, ovviamente: il paternalismo berlusconiano, post-sconfitta, circa la necessità di nomi e facce meno destrorse e più moderate per vincere, si coniuga perfettamente con il paternalismo salviniano, post-sconfitta, circa la necessità di una minor litigiosità interna per vincere (proprio il leader leghista, ricordiamo, ha alzato polemica contro Fratelli d’Italia anche nella domenica dei ballottaggi, a urne aperte).

 

Insomma è chiaro che Salvini e Berlusconi vogliono allearsi con una Giorgia Meloni più quieta, meno incombente, ed è per questo che lei prova l’attacco. Martedì, al discorso d’apertura a Roma del vertice di Ecr, il partito dei conservatori di cui è presidente, la leader di FdI ha passato due terzi del tempo ad alludere malvagiamente al leader leghista («di fronte alle minacce di Putin un leader politico non può tentennare, balbettare», «ci sono i leader e i follower, noi abbiamo deciso di guidare il popolo non di seguirlo», eccetera), ed è sicuro che stia manovrando sulle prossime Regionali in modo da ottenere, magari appoggiando l’operazione Letizia Moratti in Lombardia, il posto che ritiene dovuto in Sicilia, con la riconferma di Musumeci. Non è chiaro però fin a che punto sia disposta a spingersi: nei retropalco si parla di un «piano B» di «rottura», eppure i consiglieri più vicini hanno sempre escluso questo orizzonte. Per convenienza politica, per storia, per carattere: gli elettori di centrodestra preferiscono i federatori; chi ha rotto partiti e alleanze non ha mai fatto strada, da Fini ad Alfano; Meloni ama primeggiare dentro un gruppo più che slanciarsi da sola. Ergo.

 

Enrico Letta ha se possibile il problema opposto: nessuno all’orizzonte potrebbe insidiargli la leadership, visti i numeri. Eppure si tratterebbe di una leadership inutile: se il panorama resta questo, una vittoria nel 2023 è abbastanza esclusa. Per mancanza di partecipanti, e relativi alleati con cui raggiungere la maggioranza: l’abbraccio coi Cinque stelle sembra davvero averli sciolti (come da profezia di Vittorio Sgarbi nel 2018: «inglobiamo i Cinque stelle e facciamoli morire») ma non si è ancora trovato qualcuno o qualcosa in grado di sostituirli o integrarli. Ecco perché il campo largo è scomparso rapidamente dal lessico del segretario dem, che all’indomani dei ballottaggi (intervistato dalla Stampa) si è rimesso a parlare di Ulivo, anzi di «nuovo Ulivo», cioè di una cosa che deve ancora trovare il suo «nome, un programma, un progetto».

 

Ed ecco perché esalta il campo del civismo, da dove vengono del resto due dei migliori esempi della vittoria alle amministrative: Tommasi a Verona, Fiorita a Catanzaro. Eppure mancano altre gambe su cui far camminare un'alleanza sufficientemente vasta. Il modello Parma, ad esempio, è difficile da replicare: nonostante il sindaco uscente Federico Pizzarotti dica (al Foglio) che il Pd vince «recuperando una parte della sinistra delusa», con «civici», «riformisti moderati» e «forze che rappresentano l’evoluzione dei Cinque stelle», realizzare tutto ciò su scala nazionale è al momento abbastanza fuori portata. Funzionano alcune realtà territoriali dem: quella emiliano romagnola guidata da Luigi Tosiani (dal modello Bologna fino, oggi, alla riconquista di Piacenza) e, adesso, quella del neo segretario dem in Calabria Nicola Irto, regista dell’operazione Fiorita a Catanzaro. Di fatto quello che manca, fuori dal Pd, è una sinistra sufficientemente articolata, radicata, rinnovata: oggi l’area di Articolo Uno è divaricata tra chi vuol dirigersi verso i dem e chi verso Conte, mentre ancora più a sinistra Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli sembra si apprestino a darsi una comune identità rosso verde, con nome e simbolo. Difficile però che basti. 

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