Analisi
Dopo la peggiore campagna elettorale di sempre arriva il momento della verità
Chi vince dovrà governare e invece di Peppa Pig avrà sul tavolo le questioni fondamentali come Europa e conti pubblici. Ma questa Destra già mostra tutti i suoi limiti
Poi bisognerà governare davvero, non basterà più sparare bufale, diffondere demagogia, parlare alle pance. Perché la campagna elettorale - a memoria di cronista la peggiore mai vista per toni, ambiguità e vaghezza - presto si allontanerà nel tempo e bisognerà scegliere, decidere, schierarsi. Arriverà il momento della verità. E allora saranno dolori. Preceduti da molte avvisaglie.
Abbiamo visto una giovane aspirante premier correre in Andalusia per sostenere Vox, una formazione antieuropeista e neofranchista, nel senso del generalissimo Franco, quello del colpo di stato militare in Spagna e della quarantennale dittatura fascista. Abbiamo visto capi partito sorridere a Putin e ai suoi soldi, attaccare la Nato e opporsi a sanzioni contro la Russia salvo fare precipitosamente marcia indietro, come Salvini e Conte, al mutare delle condizioni belliche. Guerra pacioccona. Abbiamo visto Fratelli d’Italia e Lega regalarci gli uni il video di uno stupro e l’altra quella del consigliere comunale che trascina una rom davanti alla telecamera e dice: «Se vinco io non la vedrete più».
E poi è stato un turbinìo di rigassificatori voluti e negati, di appelli al ministro dell’Interno perché impedisse contestazioni ai comizi (adunate sediziose?), di dentiere donate e di pensioni gonfiate, di tasse tagliate a vantaggio di chi non le paga e di irrefrenabile voglia di “scostamento di bilancio”, cioè più debito e chissenefrega. Una destra scomposta e inquietante che ha oscurato quella del milione di posti di lavoro (Berlusconi 1994), del contratto con gli italiani (Berlusconi 2001) e dell’allarme sugli stupri e l’invasione degli immigrati (Salvini 2008 e 2018).
In questa bolgia urlata, però, c’è stato anche chi come Giorgia Meloni ha cercato di distinguersi per sfoggio di moderazione, sorrisi e toni misurati, Cernobbio e Washington Post. Per poco. Eccola uscire di nuovo al naturale senza svelarci mai quale sia quella vera: parole accorte sull’Europa e sull’euro, fino a ieri descritta l’una come la sentìna di tutte le burocrazie e l’altro come origine di tutti i mali; scostamento di bilancio macché; nessuno è più filoatlantico di me; vedrete che ministri, li mejo fichi del bigoncio; Draghi? ci sentiamo spesso... Poi i toni sono tornati quelli di sempre: gratti Giorgia e spunta Meloni.
Tutto è cominciato con «la pacchia è finita», non ci faremo più mettere i piedi in testa da Bruxelles, vedrete. Seguono l’abbraccio dell’atlantista Meloni al filorusso Viktor Orban e il voto contrario di Fratelli d’Italia (e Lega) alla dura reprimenda del parlamento di Strasburgo contro la «autocrazia elettorale» del premier ungherese. In nome dell’interesse nazionale. Solita solfa, la memoria ci rimanda ad Antonio Martino e a Giulio Tremonti, solo che oggi l’azionista di riferimento della destra non è più Berlusconi pronto a temperare gli eccessi degli alleati e in Europa c’è una guerra.
Non fermiamoci agli slogan. Dietro “la pacchia è finita” si nasconde il no della destra ad abolire il vincolo che frena l’azione dell’Europa: dover decidere all’unanimità. No, la destra vuole che continui così lasciando potere di interdizione ai singoli paesi dell’Unione. Insegue un’Europa più debole, sogna di scardinare la superiorità della legislazione europea su quella nazionale. Ma stando in Europa e negoziando l’Italia ha sempre avuto molto da Bruxelles: valga per tutti l’esempio del Pnrr, più soldi che a tutti. Senza contare la tolleranza che ha accolto nei decenni gli incoercibili sforamenti dei parametri su deficit e debito. Senza l’Europa, da soli, o magari alleati di Ungheria e Polonia - che ci fanno concorrenza aprendo le porte alle imprese italiane che delocalizzano - saremmo solo più deboli e ininfluenti.
E poi, mirabile, c’è stata l’indignata reprimenda contro Peppa Pig - forse il più fulgido emblema della campagna 2022 - per la comparsa nel cartone animato di una coppia lesbica, due genitori dello stesso sesso. E comunque, via, tutto rientrerebbe negli eccessi elettoralistici se la memoria non ci riportasse al novembre del 2000 quando An, la culla di Meloni, e la Lega votarono nel Lazio e in Lombardia due mozioni per bandire dalla scuola libri di testi giudicati “marxisti” per sostituirli con opere di autori “affidabili”. Piccoli minculpop crescono.
Non basta. Nel cahier de doléances della destra c’è anche il Quirinale, dove premier e ministri sono chiamati a giurare sulla Costituzione, che però i padri fondatori della fiammella che tuttora arde nel simbolo di Fratelli d’Italia non vollero approvare. E c’è Sergio Mattarella al quale Giorgia Meloni non ha mai risparmiato critiche, per il quale non ha votato nella recente rielezione e contro il quale nel 2018 presentò una richiesta di impeachment per aver bocciato la nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, profeta dell’uscita dell’Italia dall’euro. E sul cui capo pende il piano per una riforma presidenzialista che lo spingerebbe alle inevitabili dimissioni. Diritti e assetti istituzionali rimessi in discussione, mine sotto le fondamenta della democrazia.
Ma ciò che più spaventa la Meloni è l’economia, le scelte di politica economica che segneranno il destino dell’Italia. Già, ma chi le farà? Da sempre all’opposizione, il suo partito non ha allevato una classe dirigente né si è formato una cultura istituzionale e amministrativa necessaria per governare un Comune, una Regione, il Paese. Ha fatto filtrare nomi di papabili per i diversi dicasteri, ma per il più delicato di tutti, l’Economia, c’è il fuggi fuggi o un significativo caveat. Fabio Panetta, numero due della Bce, in pole position per la successione a Visco in Banca d’Italia, la prima scelta di Giorgia, ha fatto trapelare la sua indisponibilità. Potrebbe restare al suo posto Daniele Franco, anche lui ex Banca d’Italia e all’Economia con Draghi, ma appena s’è affacciata l’ipotesi ha lanciato un messaggio esplicito: «Un Paese più indebitato è un Paese che ha minori margini di flessibilità ed autonomia». Ha meno sovranità. Capito, sovranisti d’Italia?
Un debito elevato condiziona, 2774 miliardi sono un macigno insopportabile, il rapporto con il Pil (134 per cento) è il doppio di quello tedesco (così la Germania si può permettere di nazionalizzare Uniper, colosso dell’energia). E con la guerra, il caro energia e l’inflazione tutto si fa più difficile. Chi viene candidato a ministro dell’Economia lo sa bene, ma sa anche che dovrà fare i conti con una Meloni di cultura statalista e autarchica (ma le nostre imprese macinano la metà del loro fatturato con l’export!) e con un programma della destra che tra flat tax, pensioni, reddito minimo, dentiere e niente Iva sui prodotti alimentari potrebbe costare più di cento miliardi. Alla vigilia di una legge di bilancio decisiva e strategica e dell’attuazione del Pnrr che, se davvero venisse rimesso in discussione, sarebbe perso per sempre.
C’è da essere davvero preoccupati, troppe sono le domande senza risposta e davvero fa paura pensare, con il poeta, che le scopriremo solo vivendo. L’economia, e la scelta del ministro adatto, dovrebbero preoccupare anche Giorgia. Certamente ricorda bene com’è finito Berlusconi...