Il primo si è alleato con Zingaretti, poi con Bonino e Letta e infine ha litigato con tutti. Il secondo ha una storia di sedotti e abbandonati persino più lunga. E ora sono insieme in un Terzo polo che lavora per il big bang del sistema

«Cho’ ma lo vedi che è pieno de gente che con Calenda s’è attaccata ar tram?». Esterno giorno, martedì 6 settembre alle 18, pieno centro di Roma. Alle spalle di piazza Santi Apostoli, dove il Pd sta celebrando l’avvio di una faticosa campagna elettorale, un ultracinquantenne, a spasso con un barboncino bianco, indica col dito un autobus di passaggio sulla strada, direzione stazione Termini.

 

Sulla fiancata c’è il volto di Emma Bonino, +Europa, candidata all’uninominale col Pd, mollata da Carlo Calenda dopo che «per mesi abbiamo lavorato a una federazione»: «Il 22 luglio abbiamo sottoscritto un patto, dopo una settimana se ne è andato», ha raccontato lei al Corriere. Subito dopo il tram con Bonino - a farlo apposta non ci si sarebbe riusciti - passa un altro bus, appiccicato sul lato sinistro un enorme Nicola Zingaretti che stringe una mano, mentre sta ridendo («ma che avrà mai da ridere», è uno dei tormentoni che accompagnano il governatore del Lazio): da segretario del Pd, fece in tempo a candidare Calenda alle Europee 2019 e anche a vederlo salutare i dem poco dopo l’elezione a Bruxelles, per contrarietà al governo coi Cinque Stelle. Passato (in foto) Zingaretti, il tempo del transito (in foto) di un Matteo Salvini ed ecco il gran finale della saga: il faccione sul retro di un autobus di Enrico Letta. Segretario del Pd, vittima forse non dell’ultimo ma certamente del più clamoroso voltafaccia tra i molti targati Calenda: quello in cui il leader di Azione l’ha lasciato una domenica d’agosto, in diretta tv, formalmente per colpa di Fratoianni e Bonelli.

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Sarà forse per questo che l’ex premier ha scelto la campagna di comunicazione binaria rosso/nero, tipo ripetizione di un trauma. Il 2 agosto lui ha scelto di farsi baciare dal leader di Azione cui cedeva il 30 per cento dei seggi uninominali e il 7 agosto, solo cinque giorni dopo, si è visto trasformare quell’accordo principesco in rospo. Così adesso dagli autobus, enorme, intima a chiunque lo guardi: «Scegli» (in una delle copie del manifesto qualcuno ha aggiunto a pennarello: «Meglio di me». Scegli meglio di me).

Ed è proprio così, avanzando brillanti proposte e seminando (politicamente) morti e feriti Carlo Calenda, campione di trasversalismo in nome del fare, faro del mondo produttivo (il più applaudito al Forum Ambrosetti di Cernobbio), un carattere che lo sovrasta («vengo a farla accanto a te per fare pace», ha sussurrato a Tajani alla toilette di Villa D’Este, dopo uno scontro), cavalca in questi giorni l’apoteosi del suo sogno più recente. Frontman del cartello Azione più Italia Viva, alleato a Matteo Renzi sotto le insegne di Renew Europe e la sorveglianza che è tutto un programma di uno come Sandro Gozi, cognome nel simbolo e appellativo di «leader del terzo polo», i sondaggi in crescita addirittura sopra a Forza Italia (prossimo agognato obiettivo: le due cifre e il superamento anche dei Cinque Stelle), l’ex sottosegretario, viceministro, ministro, dopo aver strappato al Cavaliere due fedeli inamovibili come Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini sogna di «aprire un cantiere vasto» che chiama «fronte repubblicano» esattamente come faceva il 25 luglio quando battezzava alla Stampa Estera l’accordo (poi stracciato) con Bonino, Benedetto della Vedova e Matteo Richetti.

 

Sin qui saremmo nella norma del già visto: Carlo Calenda che insegue forsennatamente e con buon risultato un qualche obiettivo politico, pronto però ad abbandonarlo in favore del successivo, come in una sete mai doma. Ci sono però due particolarità, che rendono questa corsa praticamente unica. La prima è una specie di paradossale eversività del progetto: questo terzo polo, a differenza di tutti i suoi molti predecessori, non aspira ad unirsi a uno degli altri due poli, bensì a spaccarli entrambi. Teorizza insomma un big bang del sistema. E punta a riportare a Palazzo Chigi Mario Draghi. Vuole cioè rifare un governo nel quale l’unico escluso è Fratelli d’Italia, il partito che tutti i sondaggi predicano il 25 settembre arriverà primo. Peculiare obiettivo, per certi versi. Anche se ovviamente non è l’unico: convive infatti con ipotesi mitologiche come una «nuova maggioranza Ursula» che tecnicamente non sarebbe una maggioranza Ursula perché nell’idea di Calenda non comprenderebbe i Cinque Stelle; e finisce per contemplare (ma solo per amore di paradosso) l’eventualità di governare persino con Giorgia Meloni, se a lei andasse bene Draghi e «un’agenda di buonsenso» (ma in pratica «non lo farà mai, amen»).

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L’altra particolarità è quella dell’alleanza di Calenda con Renzi: uno aveva il simbolo elettorale (Iv), l’altro i voti sufficienti a scavallare il tre per cento. Insieme formano un duo che tocca forse l’apice politico dell’efficacia come comunicatori e dell’inaffidabilità come alleati. Una coppia perfetta. Un giorno sono i tuoi principali sponsor, il giorno dopo: puf, gli acerrimi nemici. Specializzati nel creare enormi aspettative e, nel caso, tradirle. Questione di vivacità intellettuale, di cinismo. O di «carattere», come ebbe a dire una volta uno dei traditi.

 

Se di Calenda s’è detto, neanche Matteo Renzi scherza quanto a lista di sedotti e abbandonati: oltre a quelli che coincidono (come Letta e Zingaretti) ricordiamo uno dei primi, Pippo Civati. Rottamatore della prima ora e leader della Leopolda 2010, della quale fu traino, rapidamente fagocitato da Renzi che alla fine della kermesse gli rubò il palco per le conclusioni e che l’anno dopo, alla seconda Leopolda, neppure l’invitò. L’allora sindaco di Firenze era un «passo indietro», come dice adesso per Calenda, e finì per fare rapidamente dieci passi oltre: stavolta, dodici anni dopo la prima Leopolda, ha spostato l’appuntamento per il 2022 che aveva fissato per l’inizio di settembre. Spostò pure quella del 2019, l’edizione della scissione dal Pd e nascita di Italia Viva: segnali, chissà. Su chi tradirà chi si esercitano del resto già gli scommettitori professionisti.

 

Bisogna ricordare infatti che c’è un precedente recentissimo, circa il funzionamento dell’alleanza tra Calenda e Renzi. Quello di Roma, dove il leader di Azione un anno fa si candidò sindaco sfiorando il 20 per cento (19,8) e arrivando, come lista, addirittura primo (19,1 per cento) sopra Fratelli d’Italia e Pd. Per quel risultato, decisivo a lanciare Calenda come leader nazionale, pesò non poco l’alleanza con Renzi: e infatti due dei cinque eletti della lista civica, i più votati, erano in quota Italia Viva. Ma durò poco. Il primo scricchiolìo arrivò una settimana dopo i ballottaggi, quando Calenda pronunciò le ultime parole famose: «La lista rimarrà compatta anche con Iv». Lo strappo invece arrivò quattro mesi dopo, il 23 febbraio, quando i due renziani al Campidoglio, Valerio Casini e Francesca Leoncini uscirono dal gruppo perché i consiglieri di Azione avevano votato per Virginia Raggi come presidente della commissione Expo 2030 («rottura profonda», denunciava la nota, «ennesima decisione che viene presa sopra le nostre teste, senza alcuna condivisione, né prima né dopo»). Emblematica anche la storia del XV Municipio, piena Roma nord: a novembre l’ex candidato presidente della Lista Calenda, Tommaso Martelli, appena sconfitto, era diventato assessore dell’ex rivale dem; a marzo lo stesso Martelli aveva annunciato nel Municipio la nascita del gruppo consiliare Italia Viva, con la migrazione in Iv dei due consiglieri eletti nella Civica di Calenda, e quindi la sparizione dei calendiani dalla zona Foro Italico-Ponte Milvio. Roma farà scuola? Presto per dirlo.

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Anzi per adesso i due paiono filare d’amore e d’accordo persino oltre le aspettative. Telefonate continue, suggerimenti reciproci. Allegri siparietti e ironie sugli «ego ingombranti» al lancio della campagna elettorale a Milano. Al Superstudio che ogni anno ospita il Fuorisalone venerdì 2 settembre c’è stato sold out e la ressa per entrare (su questo punto ha un debole Matteo Renzi, i cui eventi straripano di gente assai più di quanto le urne straripino di voti per lui). Calenda ha fatto un intervento conclusivo rutilante, da Sturzo a Salvini, da Rosselli ed Einaudi a Letta passando addirittura per una citazione di Giuseppe Mazzini - non gli manca certo la parlantina. E ha dedicato persino un passaggio all’«innominabile» riforma costituzionale renziana, «unica vera riforma istituzionale proposta a questo Paese», bocciata via referendum, ma valida: «Non c’è un’oncia di vergogna nell’aver perduto. Quei temi sono lì, sono tutti lì, non è una sconfitta che li porta via», ha detto Calenda.

 

L’inclinazione al «Sì» del cartello del terzo polo somiglia del resto in maniera inquietante a quella dei comitati per il Sì sconfitti nel 2016. Matrice renziana pura: «Al passato grazie, al futuro sì», era lo slogan all’ingresso della prima Leopolda. Renzianismo coniugato con calendismo. Al grido di «sì all’Italia dei sì» mercoledì scorso, 7 settembre, i leader si sono lanciati in una specie di tg streaming con collegamenti da tutta Italia: Calenda dalla banchina del porto di Piombino con polo blu e occhiali da sole diceva sì al rigassificatore (tre giorni prima, intervistato dal Corriere di Torino aveva promesso che si sarebbe collegato dalla Val di Susa, l’uomo è così); Raffaella Paita da Genova diceva sì alla Gronda; Teresa Bellanova da Melendugno magnificava la Tap, Mario Polese dalla valle del Sauro gli impianti Tempa Rossa; a Roma Maria Elena Boschi davanti a un cassonetto del XII Municipio invocava il termovalorizzatore; ad Acerra Francesco Carpano, al posto di Mara Carfagna assente per problemi di salute, spiegava che l’idea per il termovalorizzatore per Roma era venuta proprio «sul modello di questo, che ha risolto i problemi di Napoli». Da Brescia Matteo Renzi, con una faccia invero abbastanza schifata, si scusava per il ritardo e ringraziava Maria Stella Gelmini per essersi sorbita più a lungo di lui la puzza del termovalorizzatore lì accanto («non è un eau de parfume»). Del resto, per citare Calenda, «il lavoro di un politico è dire la verità».