analisi

Elezioni regionali, il matriarcato solo al comando di Giorgia Meloni e lo stagno dell’opposizione (dove sguazza un Pd senza capi)

di Susanna Turco   13 febbraio 2023

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Il voto in Lombardia e Lazio sancisce la predominanza di FdI, ma la Lega non crolla. Arianna, la sorella d’Italia, festeggia a Roma. Il Pd sconfigge le Opa di Conte e Calenda, ma dimezza i voti nei circoli: alle primarie 127 mila votanti, erano 266 nel 2017

Un matriarcato solo al comando, di qua. Una gara tra debolezze, di là. Due immagini esemplari per raccontare questo voto in Lazio e Lombardia arrivano in un ordinario pomeriggio di spoglio elettorale, a risultati tutt'altro che sorprendenti (stravince il centrodestra), salvo che per l’astensione da record (poco sopra il 40 per cento).

 Immagine uno. A Roma, Salone delle Fontane all'Eur, ai festeggiamenti per la vittoria di Francesco Rocca, presidente del Lazio dopo gli anni a guida Zingaretti, quasi venti punti sopra, troneggia non un qualsiasi dirigente politico di Fratelli d'Italia (che pure ci sono) ma Arianna Meloni, la sorella: una sorta di amministratrice ombra nel partito, senza incarichi formali perché come sintetizza un militante di antica data «mica sono scemi» (Arianna è stata anche una discreta coordinatrice della campagna per la Regione, pure qui senza il cartellino ufficiale).

Gli alleati non ci sono: né i rappresentanti di Forza Italia né quelli della Lega. È già tanto che esistano, verrebbe da dire: nel quadro di un centrodestra a decisa trazione meloniana (oltre il 30 per cento nel Lazio, 23 per cento in Lombardia) anche solo la non-rovina del Carroccio, che nel suo fortino del nord arriva a un 16 per cento tutt'altro che scontato, rappresenta la migliore assicurazione sulla vita di questo governo. «Il risultato consolida il centrodestra e rafforza il governo», scrive la presidente di un Consiglio che si regge proprio grazie alla debolezza generale del quadro politico, e sulla intrinseca forza di un partito completamente poggiato sulle spalle della sua leader.

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L'altra immagine riguarda il centrosinistra. E quindi più che un'immagine è un autogol. Un paradosso che fotografa alla perfezione lo stallo che vive l'intera opposizione. Sono quasi le 18 quando Alessio D'Amato, il candidato perdente del Lazio che riuniva Pd e il terzo Polo di Calenda e Renzi, punta il dito: «I veri sconfitti nel Lazio sono il M5s. Conte dovrà riflettere sulle scelte che ha compiuto e sulla decisione di non proseguire l'esperienza di governo alleati», dice ricordando l'era zingarettiana e la faticosa alleanza rossogialla in regione.

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In effetti i Cinque stelle raccolgono un magro 11 per cento nel Lazio, mentre il Pd schizza a un lusinghiero 22 per cento. E non c'è dubbio, come fa notare Achille Occhetto, che entrambe le opa sul partito democratico siano fallite: quella da parte del terzo Polo, e quella dei Cinque stelle. Anche in Lombardia, infatti, tavolo da gioco uguale e contrario rispetto al Lazio, la ex ministra di berlusconi e ora terzista Letizia Moratti si ferma al 10 per cento e Azione-Italia viva arriva a malapena al 5 per cento. Un'altra disfatta nella quale però il Pd se la cava paradossalmente bene, con risultato sopra il 20 per cento.

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Eppure dieci minuti dopo le parole di D'Amato, proprio il Pd diffonde i risultati nazionali del voto nei circoli sulle primarie. Un voto autolesionisticamente intrecciato con le consultazioni regionali, dal quale risulta che hanno votato circa 127 mila iscritti (Bonaccini ha preso il 54,3 per cento, Schlein il 33,7, Cuperlo il 7,5, De Micheli il 4,5): mancano ancora Lazio e Lombardia, ma allo stato si tratta di meno della metà delle persone che si espressero nel 2017 (266 mila), e appare difficile persino che si possa raggiungere i 190 mila che elessero Nicola Zingaretti, candidato universale nel 2019. Ecco dunque che il partito d'opposizione che esce più forte da queste consultazioni, il Pd, è allo stesso tempo minato da una debolezza intrinseca che il prossimo segretario sarà chiamato ad affrontare. Avrà tutto il tempo del mondo, a giudicare da un quadro stabile, tendenza stagno.