Politica
14 ottobre, 2025Salis, Manfredi, Gentiloni, Bonaccini... il pressing sulla segretaria cresce. E il congresso non è più solo una minaccia
La vittoria in Toscana nel nome del “campo largo” ha dato ossigeno al centrosinistra. Ma anziché rafforzare la leadership di Elly Schlein, ha riaperto il solito, estenuante, psicodramma interno al Partito democratico: chi comanda? Chi sarà il candidato premier? E soprattutto: chi dovrà fare un passo indietro?
Nomi, retroscena, mezze frasi, sussurri, interviste laterali. Il Pd, più che una comunità politica, somiglia sempre più a una trasmissione continua di “Porta a Porta” senza conduttore. E in questa spirale, la segretaria – che per mesi ha sventolato la minaccia di un congresso anticipato come spauracchio per tenere a bada i critici – ora è costretta a prenderlo davvero in considerazione. Anche perché i “nemici interni” non si accontentano più di commentare le scelte: vogliono contare.
Il ritorno degli aspiranti federatori
La colpa? Ufficialmente, l’alleanza con il M5s, sempre più difficile da digerire per i riformisti. Ma non solo. A lanciare il primo sasso è paradossalmente proprio Goffredo Bettini, l’architetto originale del Campo largo, che oggi rofetizza: “Sì, l’alleanza con Conte è necessaria, ma non basta. Serve aprirsi al centro”. Tradotto: basta con il movimentismo e via a una nuova classe dirigente.
Chi la dovrebbe rappresentare, però, non è ancora chiaro. Paolo Gentiloni riemerge come il grande saggio, l’europeista perbene che tutti citano e nessuno chiama davvero. Dopo essere stato il nome buono per tutte le stagioni e tutte le correnti, oggi è di nuovo sulla scena, più per mancanza di alternative che per convinzione. E intanto, da palco a palco, continua a bacchettare il partito che un tempo guidava: “Serve un chiarimento con i Cinque Stelle”, ha detto. Come se non sapesse che questo "chiarimento" è ormai diventato un alibi per non decidere mai nulla.
I sindaci alla carica: Salis e Manfredi
Poi ci sono loro, le “facce nuove”, i “volti civici”, i “nomi freschi”. Etichette di comodo che servono a riciclare l’ennesima lista di potenziali leader in cerca d’autore. Silvia Salis, ex martellista e oggi sindaca di Genova, ha incassato la benedizione indiretta di Matteo Renzi alla Leopolda – già questo, per molti nel Pd, dovrebbe bastare a renderla invotabile – e ha subito frenato: “L’unione fa la forza, basta divisioni”. Peccato che nel dirlo si sia già posizionata. E non ha disdegnato un incontro a porte aperte con Schlein, tra abbracci e dichiarazioni distensive: “Era solo un incontro di sostegno”. Sostegno a chi, però, resta un mistero.
Più calibrato – e più furbo – è Gaetano Manfredi. Sindaco di Napoli, presidente Anci, ex ministro e tecnico stimato, con curriculum impeccabile e rapporti ottimi in ogni direzione. Di lui si dice che potrebbe essere il “nuovo Prodi”. Il problema, semmai, è che nel PD di oggi anche Prodi rischierebbe di passare per uno dei tanti. Alla Leopolda ha tenuto un discorso apprezzato, tutto incentrato su innovazione, periferie, tecnologia, urbanistica. Nulla che faccia battere il cuore a un militante, ma abbastanza per far partire una candidatura silenziosa. Senza clamore, ma con metodo.
A differenza della Salis, Manfredi ha un vantaggio: ha la tessera del partito. E non guasta affatto il fatto che sia in ottimi rapporti anche con Giuseppe Conte. La sinistra lo stima, i centristi non lo temono. E la sua frase “Non sarò io il federatore” ha fatto sorridere molti. In privato, tutti sanno che quando uno dice “non ci penso”, ci sta pensando eccome.
Schlein in trincea
E la diretta interessata? Elly Schlein osserva, incassa, prende nota. Ma intanto si sottrae. In Parlamento si fa vedere il minimo sindacale, mentre rafforza la sua dimensione movimentista: marce per la pace, incontri con le associazioni, comitati referendari. La strategia è chiara: bypassare i corridoi romani e costruire un’alleanza con il “Paese reale”, magari attraverso Landini e la CGIL. Funzionerà? Forse. Ma intanto nel partito cresce la sensazione che si vada verso un redde rationem. E la convocazione del congresso in primavera non è più una suggestione.
“Serve un chiarimento”, ammettono anche tra gli schleiniani. Il timore è che l’attacco riformista, anche se senza un candidato vero, logori lentamente la segretaria, lasciandola senza spinta. E allora tanto vale forzare: anticipare l’assise, trasformarla in volano per la candidatura a premier, mettere il partito davanti alla scelta. E blindare la segreteria attuale.
Il nodo legge elettorale
C’è un’ultima variabile che tutti osservano con attenzione: la legge elettorale. Se Giorgia Meloni, come molti sospettano, deciderà di rilanciare un sistema che imponga la figura del candidato premier, sarà impossibile per il centrosinistra presentarsi senza una guida. A quel punto, le primarie tornerebbero di moda. E lì si giocherebbe la partita vera.
Ma il rischio, per il Pd, è quello di arrivare al voto con una segretaria delegittimata, senza alternativa chiara, e con l’eterna illusione che basti cambiare cavallo per vincere la corsa. Quando, invece, il problema è sempre lo stesso: non sapere dove andare. E con chi.
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