Politica
23 dicembre, 2025Inutile e dannosa: così il consigliere della Cassazione Raffaello Magi boccia l’ipotesi al centro del referendum costituzionale sulla separazione delle carriere
Raffaello Magi, Consigliere presso la Corte di Cassazione, qual è la sua opinione sulla riforma costituzionale in tema di separazione delle carriere?
«Se guardiamo solo al punto della separazione delle carriere è una riforma inutile; se guardiamo a tutto il sistema che comprende anche il sorteggio dei membri del Csm e l'Alta Corte la considero addirittura pericolosa per la tenuta di alcuni principi fondamentali del nostro sistema».
Silvia Albano di Magistratura Democratica, in una recente intervista al nostro giornale ha detto che il 99,9 per cento dei magistrati è contrario a questa riforma. Lei ha la stessa percezione anche rispetto alla previsione del sorteggio?
«Assolutamente sì. Il paradosso è che i proponenti della riforma dicono che vogliono liberare i magistrati dal condizionamento delle correnti. Ma i magistrati dicono che non vogliono essere liberati, che non sentono questo bisogno e quindi evidentemente c'è qualcosa che non va in questa situazione».
Lei ritiene possibile che la terzietà prevista dall'articolo 111 della Costituzione possa esistere all'interno di un sistema in cui giudici e pm condividono la stessa carriera, i medesimi organismi associativi e il medesimo concorso?
«Questa domanda affronta più profili. Il primo riguarda l'attualità, quella secondo cui le carriere dei pm e dei giudici sono già separate. Si può passare una sola volta nell'arco della carriera da un settore all'altro e con una serie di limitazioni. La terzietà del giudice si costruisce sotto il profilo culturale, sotto il profilo della mentalità e sotto il profilo del rispetto delle regole processuali. Non si costruisce altrove e non dipende dal fatto di avere un unico o più consigli superiori, ma dalla cultura e dalla capacità di ciascuno di esercitare il ruolo che gli viene assegnato. Se c'è qualche giudice che non è abbastanza equidistante, che non è abbastanza terzo, questo è sicuramente un problema. Ma questo deriva da un approccio culturale sbagliato al proprio lavoro».
Le carriere di giudici e pubblici ministeri però sono separate in tutte le democrazie occidentali in cui vige un sistema processuale accusatorio. Perché in Italia non si potrebbe fare?
«Il tema della separazione delle carriere viene agitato da circa quarant’anni, cioè dall'entrata in vigore del Codice Vassalli ma è un problema superato da quello che è successo nel corso di questi quarant'anni sul piano delle regole ordinamentali».
Con la legge Cartabia?
«Con la legge Cartabia certo, ma anche prima c'erano stati dei filtri e quindi ha perso di attualità. È come se noi ci continuassimo a interrogare sul campionato di calcio degli anni ’80 se Maradona è meglio di Platinì. Nel frattempo abbiamo un campionato che si gioca a una velocità superiore e con altri protagonisti. È una battaglia vecchia, oramai superata. Qualcuno pensa che in questo modo si risolvano i problemi della giustizia. In realtà non solo non risolve nulla, ma rischia di portare il pubblico ministero nell'orbita del potere esecutivo. Nei Paesi più simili al nostro – Francia, Germania, Spagna – il pm ha una carriera separata ma in Francia e in Germania dipende direttamente dall'esecutivo mentre in Spagna ha un apparente, diciamo, autonomia, ma in realtà è un ufficio gerarchico che vede il suo massimo rappresentante nominato dal governo. Quindi al di là dei modelli processuali – su cui molto si potrebbe dire perché il nostro è un sistema a vocazione accusatoria in cui le indagini pesano nei riti alternativi – il grosso tema è che un pm separato dal giudice esiste in tante parti d'Europa e del mondo. Ma in nove casi su dieci risponde al potere esecutivo. Perché in Italia questo è visto male? Perché è un Paese che ha vissuto tante situazioni di criticità nella gestione dei grandi fenomeni criminali, nel rapporto con la criminalità organizzata, con la corruzione e con la criminalità politica, fenomeni che hanno in qualche modo condizionato – pensiamo alle stragi e ai depistaggi – lo sviluppo democratico del nostro Paese. Non parlo solo della dell'epoca fascista e dell’equilibrio tra i poteri ma anche dell'epoca post-1948: l'Italia ha avuto una sovranità limitata negli anni 60/70 e fino all'inizio degli anni 80 in cui purtroppo molti apparati investigativi sono stati sovente infiltrati da soggetti portatori di finalità non propriamente democratiche. E quindi la storia ci ha insegnato che è meglio avere un pubblico ministero che ha lo stesso statuto di garanzie del giudice, rispetto a un pm condizionato dall'esecutivo».
Non crede che i magistrati giudicanti possano uscire rafforzati, sia in concreto che come immagine, da questa riforma costituzionale?
«No perché, ripeto, il magistrato giudicante si costruisce giorno per giorno. Noi siamo reclutati per concorso, quindi entriamo con una competenza tecnica. Dopodiché veniamo formati nel tirocinio che è un nostro momento fondamentale. I maestri sono i giudici più anziani, che hanno i ferri del mestiere e trasmettono l’abito, il modo in cui si realizza la giurisdizione, la cultura del dubbio, la voglia di raccogliere gli elementi di conoscenza che avvicinano di più alla verità. Chi ha avuto grandi maestri durante il tirocinio ha avuto quel quid pluris che gli consente di fare bene il proprio lavoro. Il Consiglio superiore in questo contesto deve solo offrire competenza e serenità. Quello che serve realmente è la formazione continua. Quello che serve adesso è il contrasto anche un po’ al narcisismo – che a volte nel nostro ambiente esiste – ma le basi culturali della magistratura sono rappresentate ancora oggi dal tirocinio, che è per noi un vero momento di crescita».
Uno degli argomenti sollevati per opporsi alla separazione delle carriere è il rischio che il pm possa in qualche misura diventare dipendente dal potere esecutivo. Ma questa legge, così come è fatta, non lo prevede. Quindi da cosa nasce questo timore?
«Uso un modo di raccontare che mi è familiare: quando faccio le lezioni alla scuola della magistratura, ai colleghi in formazione, prendo in prestito il titolo di una canzone di Fiorella Mannoia che è “Quello che le donne non dicono”. Io la trasformo in quello che le “norme” non dicono. Non lo dicono ma lo sottintendono, o ne creano le condizioni. È vero che la norma costituzionale attuale non lo dice, ma crea le condizioni perché ciò avvenga nel futuro».
E invece l'altro argomento spesso utilizzato e cioè che il pm potrebbe diventare una sorta di superpoliziotto?
«Io penso che siamo vittime di stereotipi, quando dividiamo il mondo in categorie. Per me esistono le sensibilità e le persone. Io ho conosciuto nel corso della mia carriera pubblici ministeri e avvocati con un livello culturale molto elevato, che gli consentiva di dialogare a tu per tu con il giudice, nell’ottica della decisione. Così come ho conosciuto pubblici ministeri magari superficiali, che si accontentavano di un livello di prova non sufficiente o avvocati che tendevano a negare l’evidenza. È un problema di cultura, di mentalità, di professionalità».
Lei ha svolto anche funzioni di giudice del dibattimento in importanti processi relativi alla criminalità organizzata. Ha mai avvertito qualche forma di pressione da parte della procura e in particolare della Direzione distrettuale antimafia?
«Assolutamente no. La mia esperienza di giudice di processi di criminalità organizzata – nel Casertano in particolare mi sono occupato del maxi processo Spartacus – è un'esperienza basata proprio sui valori che ho richiamato. Il giudice cerca innanzitutto di convincere se stesso di come sono andate le cose e poi di convincere gli altri attraverso lo sviluppo della motivazione. Nel fare questo noi teniamo sempre presente le regole di giudizio dettate dal codice e non altro».
Cosa ne pensa del sorteggio. L’Anm avrebbe potuto impegnarsi maggiormente per ottenere alcune modifiche, come per esempio l'abolizione della previsione del sorteggio?
«Per quello che mi è stato raccontato, gli spazi nel dibattito parlamentare sono stati estremamente ristretti tant'è che qualcuno ha addirittura parlato di una sorta di decreto legge governativo che è diventato poi testo di legge costituzionale senza un'adeguata discussione. Quindi non c'è stato un reale spazio di confronto».
Lei in passato ha espresso giudizi e critiche anche severe sulle degenerazioni delle correnti e sui criteri di selezione dei capi degli uffici giudiziari. È cambiato qualcosa? Le correnti sono davvero il male assoluto come le si dipingono?
«Il sorteggio viene presentato come un modo per eliminare il virus delle correnti, ossia la tendenza degli eletti a fare quadrato intorno ai propri elettori nei momenti di sviluppo delle carriere. Non voglio dire che il problema non sia esistito ma nelle ultime elezioni interne tutte le componenti associative hanno dato vita a una sorta di autoriforma. Ciò ha portato a maggiore trasparenza dei parametri in base ai quali vengono assegnati determinati incarichi, ben visibile nella attività dell’attuale Consiglio. Le forme di degenerazione che ci sono state in passato sono dipese – in larga misura – dal tentativo di alcuni esponenti politici esterni al Consiglio di influire sulle nomine dei direttivi. Quindi se è vero che c'è stato qualche magistrato che si è prestato a queste forme di mediazione, è anche vero che in realtà la spinta – se parliamo del caso che riguardava la nomina del procuratore di Roma – veniva anche e soprattutto dall'esterno.
Il sistema di valutazione oggi secondo lei funziona oppure va cambiato?
«Il sistema di valutazione della professionalità dei magistrati secondo me attualmente funziona ma potrebbe essere migliorato».
In che modo?
«Attraverso un maggiore ascolto degli avvocati. Io sono convinto del fatto che non dobbiamo assolutamente chiudere, nell'ottica di una cultura comune, ai pareri e alle segnalazioni delle associazioni forensi più rappresentative. Sono argomenti che dovrebbero entrare nelle nostre valutazioni, spesso basate solo sui dati statistici di produttività. Ciò accade perché il sistema negli ultimi anni ci ha imposto di raggiungere un livello di produttività molto alto. Quindi sicuramente i percorsi di valutazione possono essere migliorati, però devo anche dire che nel suo complesso – ovviamente 9000 magistrati non possono essere tutti super eccellenti o super produttivi – la magistratura a me sembra ancora un corpo professionale essenzialmente sano, al cui interno negli ultimi anni hanno fatto ingresso tantissimi giovani che hanno un grande bisogno di avvertire la fiducia della gente comune e il sostegno delle altre istituzioni».
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