Nel 1986 il “giovane” Gorbaciov diventato da poco segretario del Pcus inizia le sue radicali riforme. Ecco come il mondo guardava a quegli eventi storici (e chi si opponeva)

Questo articolo dell’Espresso del 1986 è tratto dal libro “La nostra storia, Cadono i muri 1985-1989” che potete scaricare qui

 

C’è chi parla di un uragano, o addirittura di un terremoto. Comunque, da cinquant’anni a questa parte in Urss non accadeva una cosa simile. Stiamo parlando delle massicce purghe volute dal segretario generale del Pcus Mikhail Serghievicˇ Gorbaciov.

 

Per illustrare l’ampiezza del fenomeno ecco alcune cifre: quattro dei quattordici primi segretari dei partiti delle quindici Repubbliche che compongono l’Unione Sovietica sono stati cambiati; un terzo dei responsabili del partito a livello regionale ha dovuto trovare un’altra occupazione; nel comitato centrale sono stati sostituiti ben quattordici dei ventitré capi dipartimento; infine il 40 per cento dei titolari dei ministeri. Tutto questo in poco più di un anno e mezzo. Il capo del Cremlino sta dunque liquidando, e in fretta, l’eredità lasciatagli dal suo predecessore, Konstantin Cˇernenko. Queste purghe di burocrati corrotti, o troppo vecchi e troppo pingui per adattarsi al nuovo stile del giovane zar dai vivaci occhi grigio-blu che sorridono dolcemente nei momenti di bonaccia, ma che diventano di ghiaccio negli attimi di rabbia, non sono che la punta dell’iceberg del cambiamento radicale che il segretario generale del Pcus sta imponendo alla società. Una rivoluzione dall’alto? Sarebbe esagerato sostenere una simile tesi. Le fondamenta del potere sovietico non muteranno: il partito unico rimane e rimarrà la massima e inappellabile autorità. Ma Mikhail Gorbaciov è fermamente convinto che la società che egli governa debba essere riformata.

 

Il terremoto in atto non è che il preludio alla costruzione di una Urss diversa da quella che egli ha ereditato. Ma vediamo qual è il progetto che persegue il capo del Cremlino, o con più esattezza come egli si immagina la “sua” Urss e con quali mezzi la vorrebbe costruire. Cominciamo dal settore più disastrato: l’economia. Nella cerchia degli intellettuali moscoviti vicini a Gorbaciov si dice che il sogno non troppo segreto del capo del Cremlino sarebbe di dar vita a una riedizione della Nep. La Nep fu la politica economica voluta negli anni Venti da Lenin e che consisteva nel dare un elevato spazio al mercato. I contadini erano autorizzati a vendere i loro prodotti direttamente in città. Mentre nelle città ai privati era permesso di aprire piccole fabbriche e negozi, arricchirsi, insomma. Il riferimento alla Nep è più che altro simbolico, nessuno intende ritornare alle pratiche di 65 anni fa, si tratta piuttosto di varare una «riforma radicale», espressione che, dopo mesi di esitazione, Gorbaciov usa sempre più spesso e volentieri.

 

Alla base di questa riforma sta l’esperimento in atto da più di due anni (dai tempi precedenti l’avvento di Gorbaciov quindi) che entro il 1988 sarà allargato a tutte le industrie. I direttori delle aziende dovranno operare usando il metro, finora loro estraneo, del profitto. I lavoratori non saranno più pagati a seconda della quantità prodotta, mentre i piani di produzione non saranno calcolati in tonnellate di materie prime. Il direttore della fabbrica avrà invece a sua disposizione un certo fondo di capitale; starà a lui organizzare il lavoro e distribuire le paghe in modo di trarre il massimo guadagno e di incrementare la produttività. Tutto ciò provocherà non solo forti sperequazioni salariali e licenziamenti degli operai “inutili”, ma anche la fine dei poteri delle burocrazie ministeriali che finora decidevano ogni dettaglio della vita di ogni fabbrica. Del resto molti dei ministeri di settore (ce ne sono un centinaio) sono stati aboliti, altri sono stati raggruppati in organismi di “importanza strategica”.

 

Il loro compito è quello di fissare globalmente le linee generali della politica economica, lasciando ai direttori delle aziende (diventati così manager e non più soli esecutori di ordini) una larga autonomia. I responsabili di quei nuovi “organismi strategici” sono fedelissimi di Gorbaciov. Tra di essi spiccano, per citare solo i più importanti, il Presidente del Consiglio dei Ministri Nikolaj Ryžkov, Nikolaj Talyzin attuale capo del Gosplan (l’ufficio di pianificazione centrale), Vsevolod Murakhovskij, presidente dell’importantissimo Comitato agro-industriale, Jurij Batalin responsabile dell’edilizia. Tutti loro (ad eccezione di Murakhovskij – che ha fatto carriera a Stavropol, la città di Gorbaciov) sono ingegneri con ferrea mentalità di tecnocrati. Simile è la musica che suona nelle campagne. Non saranno aboliti i kolkhoz (le fattorie collettive) voluti da Stalin, ma tutta la produzione agricola eccedente le quote fissate dal piano potrà essere venduta liberamente e ufficialmente nei mercati cittadini. Riuscirà Mikhail Gorbaciov a portare a compimento questi progetti? Non è facile dirlo. È certo che lo zar riformatore ha molti nemici.

 

C’è la massa degli uomini senza volto, i piccoli burocrati dei ministeri in via di abolizione spaventati dalla prospettiva di perdere il posto di lavoro e il potere che da esso deriva. Ma c’è anche l’opposizione, tenace anche se non dichiarata apertamente dei membri del Politburo. Il numero due del Cremlino, grande sacerdote della dottrina marxista-leninista Egor Kuzmicˇ Ligaciov, non perde occasione per spiegare che parole come “profitto”, “autonomia dei manager” devono considerarsi bandite dal lessico sovietico. Ma forse Ligaciov non è tanto spaventato dalla prospettiva di concedere una certa autonomia ai direttori delle industrie e ai contadini koknosiani, quanto di un altro concetto che secondo gli uomini di Gorbaciov dovrebbe caratterizzare la società sovietica del Duemila.

 

“Unità nella diversità” è il titolo (che ricalca la celebre parola d’ordine “eretica” dei comunisti italiani negli anni Sessanta) di un articolo del professore Vsevolod Davidovicˇ apparso un mese fa sulla “Pravda” l’organo del Pcus. Le tesi del saggio si possono riassumere così: «Compagni, è ora di riconoscere che in seno alla nostra società vi sono interessi e idee differenti. Mettere una cappa burocratica per soffocarli e per creare l’impressione di una falsa unanimità è non solo errato, ma addirittura nocivo». Idee queste che da anni vengono espresse da Tatyana Zaslavskaja, una sociologa siberiana che Gorbaciov ascolta volentieri. Nell’articolo di Davidovicˇ non solo vengono criticate le passate gestioni dell’impero, ma si tenta di tracciare un modello della società proiettato nel futuro. Vediamolo. Intanto dovrebbe essere radicalmente ridimensionato l’enorme potere che ai tempi di Breznev avevano accumulato i capi locali e regionali del partito. Le decisioni “strategiche” saranno prese direttamente a Mosca, ma questa centralizzazione sarà poi accompagnata con la “democratizzazione” (la parola è stata pronunciata, anche se è difficile sapere che cosa essa significhi in lessico sovietico) delle decisioni a livello dei “collettivi di fabbrica”. Il partito dovrà “sorvegliare” l’attuazione della linea politica e non più ingerirsi nella diretta gestione dell’economia. Quest’ultimo concetto è poi guardacaso il cavallo di battaglia di Boris Eltsin, segretario del partito di Mosca e capofila dei “gorbacioviani arrabbiati”, di quelli cioè che vorrebbero vedere la burocrazia di grado intermedio se non proprio smantellata, almeno privata di alcuni importanti privilegi.

 

Il vento nuovo ha scosso anche la sfera della cultura. Il poeta Andrej Voznesenskij ha recentemente parlato addirittura di una “rinascita spirituale” in atto. Intendiamoci, Gorbaciov certamente non abolirà la censura, ma vorrebbe almeno ammorbidirla. Solo un mese fa un celebre critico letterario Boris Egorov ha denunciato con molto vigore dalle pagine di Sovietskaja Kultura gli abusi degli editori e dei burocrati del Glavlit (l’ufficio della censura), ma alcuni libri di autori importanti, finora proibiti stanno per essere pubblicati. Tra questi: il Dottor Živago di Boris Pasternak, i romanzi di Vladimir Nabokov e le poesie di Nikolaj Gumilëv che fu fucilato dai bolscevichi nel 1921. Su “Ogonjok”, una rivista stampata in un milione e mezzo di copie, ha visto la luce un frammento di I camici bianchi, il romanzo di Vladimir Dudinzov che denuncia lo stalinismo in termini mai usati sulla stampa sovietica, ad eccezione del brevissimo periodo in cui ad Alexander Solženicyn era permesso pubblicare in Urss. Infine, gli intellettuali moscoviti prevedono il trionfo nelle librerie di Stato di quel gruppo di trentenni esplicitamente “ribelli” che contestano tutto l’establishment letterario e che scrivono opere di aspra denuncia dello stesso stato delle cose esistenti in sintonia con le tendenze d’avanguardia in Occidente.

 

L’Unione Sovietica sognata da Gorbaciov dovrà anche esercitare un ruolo nuovo nell’arena internazionale. La teoria del “nuovo pensiero” (novoje myshlenije) è stata spiegata sul “Komunist”, la rivista teorica del Pcus, nel settembre scorso da Anatolij Dobrynin, ex ambasciatore sovietico negli Usa e oggi segretario del Cc responsabile de facto della politica estera. La vecchia nozione di “lotta antimperialista” viene abbandonata a favore della “salvaguardia dell’umanità”. Il linguaggio di Dobrynin è tutt’altro che chiaro. Ma dal saggio da lui firmato si può dedurre che, nonostante gli Stati Uniti siano sempre considerati il “nemico principale”, il compito più urgente della politica estera sovietica non è tanto raggiungere e mantenere la parità strategica con Washington, quanto costruire una rete di buoni rapporti con gli altri paesi del mondo. E questo perché nell’era delle armi nucleari la sicurezza «è un problema globale che non può riguardare una sola nazione». C’è chi considera tutto questo un altro trucco propagandistico per dividere i paesi dell’Europa occidentale dall’alleato americano e per convincere l’opinione pubblica mondiale della “cattiveria” di Reagan e della “bontà” di Gorbaciov. Può darsi che questo sia vero. Ma rimane il fatto che Dobrynin ha duramente, anche se non esplicitamente, criticato la gestione passata della politica estera sovietica, alla quale ha rimproverato troppa rigidità e troppo attaccamento alle tesi precostituite e alla visione bipolare del mondo.

 

La politica di Dobrynin e di Gorbaciov, a differenza di quella di Gromiko, sarà molto più elastica, improntata al pragmatismo, meno fissata sul rapporto esclusivo con gli Stati Uniti. L’Urss cercherà i favori dei paesi dell’Asia, Cina compresa, del Pacifico e dell’Europa occidentale. Questi progetti sono duramente osteggiati dai militari i quali hanno addirittura dato vita ad una rivista mensile “Vojennyj Vjestnik” (Il messaggio militare) – distribuita, fatto inedito, esclusivamente in Occidente – sulle cui pagine si possono leggere critiche degli altissimi ranghi dell’esercito nei confronti della politica estera e militare del segretario generale del Pcus. L’Unione Sovietica resterà il leader dell’alleanza dei paesi del socialismo reale, ai quali sarà permessa una certa autonomia nella gestione delle loro economie, ma sarà richiesta assoluta fedeltà alla linea del Cremlino soprattutto nelle questioni di politica estera e di strategia militare. Questo è il ritratto dell’impero riformato come lo vorrebbe il giovane zar. Ma, sovietologi e intellettuali moscoviti sono concordi nell’affermare che i suoi numerosi nemici non dormono. E pochi sono pronti a scommettere che Gorbaciov non farà la fine di quel suo illustre predecessore Nikita Krušcˇev che il nuovo segretario generale del Pcus non ha ancora osato far uscire dal dimenticatoio e il cui spirito aleggia su Mosca in attesa di una tardiva riabilitazione.