In teoria sono utili strumenti di dialogo fra Parlamento ed esecutivo. In pratica, gli onorevoli le usano per tenere buoni i collegi e le lobby. Con alcuni casi limite di interrogazioni assurde, personali e iperlocali. Ma tanto il governo non risponde quasi mai

Lo ha ammesso lo stesso Dario Franceschini, con ordinata tabellina sul sito del ministero per i rapporti col Parlamento: il governo non risponde alle interrogazioni.

Alla Camera, i ministri hanno risposto appena al 13,9 per cento delle 'domande' sollevate dai deputati (1.442 tra interrogazioni scritte, orali e interpellanze), al Senato la percentuale crolla sotto l’8 per cento (542 contro le 43 concluse). I Professori di Monti in 15 mesi avevano risposto a 4 mila dei 13.500 atti presentati, cioè il 32 per cento circa.

Tecnicamente, vengono chiamati “atti di sindacato ispettivo” e dovrebbero far parlare i 945 parlamentari col governo, rivolgendogli domande su tutto con dovere, teorico, di risposta.

Si tratta, sempre in teoria, di frecce preziose nell’arco dell’opposizione per pungere le latitanze della maggioranza, in una democrazia. In pratica, sono una montagna di carte e byte con cui i parlamentari tengono i cittadini del loro collegio, i gruppi di pressione, gli sponsor elettorali: «Vedete, sul vostro caso ho addirittura presentato un'interpellanza al governo!».

Così dopo 100 giorni di legislatura, ce n’è già per tutti. C’è chi, come Mauro Pili (Pdl), interroga i ministri dei trasporti, degli esteri e del turismo perché sviluppino e rafforzino «il rapporto con le compagnie low cost» e chi come Realacci (Pd) vuole che Alfano impedisca ruberie nelle stazioni italiane dove i furfanti «afferrano in maniera decisa i bagagli a turisti stranieri o a persone anziane mentre sono in procinto di salire in treno o pretendono una sorta di mancia che varia per lo più dai cinque ai venti euro» (utile in questo caso il prezzario dell’abusivo, prima inedito).

Ma nel calderone arrivano pure i casi personali: il grillino Massimo Baroni ad esempio chiede al ministro per la Coesione territoriale di occuparsi della vicenda locativa del signor Antonio Panci, della Garbatella a Roma, in via degli Armatori n. 11. Oppure piombano questioni iper locali: Loredana De Petris (Sel), chiede cosa sappia il governo della «carreggiata a due corsie sulla strada provinciale che collega Pizzolungo con San Vito Lo Capo».

A volte poi si tocca il catastrofismo, come quando Giulia Grillo (M5S) rappresenta a Letta il rischio che il nuovo porto di Catania sia coinvolto in un possibile un «maremoto (tsunami)» che potrebbe «causare crolli e distruzioni tali da ostacolare o impedire del tutto sia la fuga dei cittadini sia l’arrivo di aiuti via mare». Si salvi chi può.

Last not least, Mimmo Scilipoti. Chiede al governo di non demolire il tratto d’autostrada tra Bagnara e Scilla e poi, due giorni raddoppia la posta: giù le mani pure dal tratto Scilla-Villa San Giovanni. Infine per il «riscatto dell’intero territorio» ingiunge al ministro delle politiche agricole di «porre rimedio allo stallo del mercato calabrese in materia di bergamotto».

Tra l'altro, è interessante il fatto che il grosso di interrogazioni e interpellanze sia stato presentato dai deputati della maggioranza e non dell'opposizione: il primato spetta al Partito Democratico che, con le sue 878 domande, si prende da solo circa la metà della scena e doppia le iniziative del M5S (360 atti depositati). Il Pdl è poco sotto, con 350 richieste all'esecutivo.

In ogni caso, un vero e proprio lavoraccio per i ministri, quello delle risposte alle interrogazioni e alle interpellanze: tanto che la rogna viene volentieri scaricata su sottosegretari e viceministri, spediti in Aula a render conto.

A orari, peraltro, scomodi, perché la discussione è sempre piazzata all’ultimo punto dell’ordine del giorno della seduta e presenziata da pochissimi volenterosi deputati e senatori sorteggiati dai gruppi.

Parallelamente, dietro le quinte, il diktat per gli operatori televisivi “ufficiali” di Palazzo e addetti alle riprese delle dirette è quello di inquadrature strettissime sul faccione dell’oratore di turno e guai a sbagliare mostrando lo spettacolo desolante della desertificazione di scranni.

Ma almeno per qualcuno, un vantaggio c’è. Debuttanti e peones proprio da qua principiano ad esercitare la loro retorica parlamentare: con plastici gesti larghi, pause e sospiri col diaframma illustrano accoratamente ai banchi vuoti il senso di tanto domandare.