La vittoria alle elezioni locali lo ha spinto a esasperare i toni contro gli avversari politici. Ora la democraziaè a rischio. E gli Usa si avvicinano...
Al termine di un’astiosa e sofferta campagna elettorale oscurata da accuse al governo di corruzione dilagante; dopo un flusso senza fine di intercettazioni audio incriminanti, ottenute legalmente e non; dopo una furiosa battaglia tra il partito al governo e il movimento Gülen, suo ex alleato sul fronte islamista; dopo un’ulteriore erosione della legalità; dopo la virtuale soppressione della separazione dei poteri dello Stato; dopo la denuncia dell’enorme ingerenza del primo ministro nella copertura delle informazioni e nei commenti; dopo il divieto di utilizzare Twitter e in seguito YouTube (dove avrebbero potuto essere postate le intercettazioni), per il premier Recep Tayyip Erdogan le elezioni locali in Turchia si sono concluse con una dimostrazione di forza e una vittoria.
A caratterizzare più di ogni altra cosa la campagna elettorale è stata la battaglia prolungata, velenosa e accusatoria che Erdogan ha combattuto contro il movimento Gülen. Quest’ultimo è un network costituito da una vasta rete di istituzioni globali e nazionali impegnate nell’istruzione e di società disseminate ovunque nel mondo: dirige vari canali di informazione ed è guidata dal predicatore in pensione Fethullah Gülen, in esilio volontario negli Stati Uniti. Fino a poco tempo fa, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo al governo (Akp) e i gulenisti avevano fatto fronte comune per eliminare dal sistema politico ciò che restava della tutela militare. In quasi trent’anni di sforzi segreti, i gulenisti si sono infiltrati a fondo nell’apparato giudiziario e nelle forze dell’ordine, e sono stati determinanti nel garantire a Erdogan il successo nel processo di demilitarizzazione della politica turca. Grazie al fatto di avere il controllo della polizia e dell’apparato giudiziario, i gulenisti hanno accusato il cosiddetto “Stato profondo” turco, ma nella loro foga hanno manifestato una grave mancanza di rispetto per la legalità e la giustizia procedurale, e si sono spinti al punto di inventare prove e architettare delitti per punire sospetti e innocenti nello stesso modo. Queste stesse manovre, risultate gradite al primo ministro quando erano funzionali ai suoi scopi, in seguito sono state stigmatizzate e utilizzate per condannare il movimento Gülen allorché il conflitto tra i due ex alleati è venuto in piena luce. E, contrariamente alle aspettative, la guerra è degenerata fino al punto di non ritorno.
Le elezioni locali sono state il primo round di un lungo ciclo elettorale che ad agosto proseguirà con le prime elezioni per voto popolare del presidente della repubblica. Sarà poi la volta nel giugno 2015 delle elezioni generali. Ci sono state molte accuse non suffragate di prove, molte delle quali esagerate, di irregolarità nel conteggio dei voti e un buon numero di risultati elettorali è già stato rovesciato. Il primo ministro ha deciso di combattere contro le ben documentate accuse di frode e anche contro le registrazioni compromettenti ottenute illegalmente che lo chiamano in causa per illeciti finanziari, e lo ha fatto esonerando i pubblici ministeri, destituendo i giudici e intervenendo direttamente nel processo giudiziario. Avendo riscosso successo in questa difficile situazione e nel clima fortemente polarizzato che egli stesso aveva contribuito a creare, il primo ministro è riuscito a mantenere l’appoggio di buona parte dei suoi sostenitori. Il suo partito, infatti, alla fine ha ricevuto quasi il 44 per cento dei consensi degli elettori. Ergodan dal canto suo è riuscito a presentare le accuse e le intercettazioni come il frutto di una cospirazione finalizzata a destituirlo e a fermare l’ascesa globale della Turchia, e al contempo ha promesso di contrastare e fermare la corruzione una volta vinta questa battaglia.
Erdogan ha presentato la propria vittoria come l’unica garanzia che le diverse fasce della popolazione potevano avere di mantenere i risultati acquisiti negli ultimi undici anni, tra i quali redditi in crescita, welfare in aumento, migliore accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, le libertà religiose, l’affrancamento dalla tutela militare e il mantenimento dello status acquisito di recente di nuova élite del Paese. Per molti dei suoi elettori la stabilità è quindi diventata la motivazione determinante per accordargli la preferenza, insieme al desiderio di non gettare il loro eroe in pasto ai lupi.
Erdogan è un politico populista di primo piano, un misto di Silvio Berlusconi, Hugo Chávez (ormai scomparso) e sempre più Vladimir Putin. Questa combinazione ha spaventato molte persone tra i detrattori di Erdogan, alcuni dei quali erano sostenitori del suo regime nelle prime fasi della democratizzazione. Ma proprio costoro sono sempre più delusi dal dispotismo in aumento e hanno rotto ogni rapporto in seguito alla feroce repressione dell’estate scorsa delle proteste al parco Gezi.
Nel conteggio finale dei voti, quelli del vittorioso Akp sono scesi di circa 2,3 milioni, pari a 5-6 punti percentuali rispetto alle ultime elezioni generali, quando l’Akp ottenne il 49,9 per cento dei consensi. Eppure, i risultati evidenziano una volta di più che questo continua a essere l’unico partito nazionale turco. In quasi tutte le elezioni delle 81 province turche ha vinto o è stato il contendente più importante.
La stasi del più rilevante partito dell’opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp) di sinistra, è risultata ancora più evidente, dato che ha ottenuto il medesimo numero di voti di due anni fa. Il partito si sta sempre più trincerando in una sorta di ghetto demografico, geografico e settario. È ancora privo di una visione chiara e convincente da offrire alle nuove giovani classi medie, ambiziose e proiettate verso l’alto. E non è neanche capace di fare breccia nell’elettorato della classe operaia dei centri industriali più importanti della Turchia, buona parte della quale ha preferito schierarsi con decisione con l’Akp.
Il partito nazionalista Mhp è uscito da queste elezioni con un evidente vantaggio, dato che pare aver ottenuto quasi l’esatto numero di voti – due milioni e più – che l’Akp ha perso. Pur continuando a essere in gran parte un partito confinato nelle province nazionaliste e conservatrici del Paese, dove ha sfidato l’Akp, l’Mhp ha infiammato coloro che si oppongono alle aperture ai curdi del governo e ne ha ottenuto il sostegno.
Il movimento politico curdo rappresentato dal Partito pace e democrazia (Bdp) ha vinto in tre dei quattro comuni metropolitani, e nel complesso amministrerà 11 province delle 12 nelle quali i curdi costituiscono la maggioranza nella regione sudorientale del Paese. Di conseguenza, adesso il partito dovrebbe poter mettere in pratica il proprio progetto di amministrazione autonoma.
La Turchia ora è proiettata a gran velocità verso le elezioni presidenziali. Le elezioni comunali hanno dato nuova vita all’aspirazione di Erdogan di diventare presidente della Repubblica. Poiché il suo discorso dopo la vittoria elettorale è parso tutto fuorché conciliatorio, si prevedono però ulteriori tensioni politiche e un più veemente tono politico nei discorsi del primo ministro. Ciò lascia intuire che l’atmosfera polarizzata nel Paese proseguirà e che la caccia alle streghe contro i gulenisti acquisterà maggiore slancio. Nel frattempo i diritti e le libertà dell’individuo sono a rischio: anche se la Corte costituzionale ha rimosso il blocco imposto a Twitter, YouTube resta ancora inaccessibile.
Lo status nel quale si trovano attualmente Erdogan e il suo partito è molto lontano da quello che avevano all’inizio del mandato di governo dell’Akp. A quel tempo Erdogan si mise a capo di un esperimento turco in virtù del quale il partito islamista combatté una guerra giusta per la democrazia, civilizzò la politica, fece spazio ai diritti e alle libertà individuali. Erdogan e i suoi collaboratori fecero compiere un passo avanti al Paese in direzione dell’Ue, dettero vita a una buona amministrazione economica, e allacciarono rapporti cordiali con tutti.
Negli ultimi tempi, malgrado il fatto che il primo ministro riconosca la mancanza di un’alternativa strategica all’Alleanza atlantica per la Turchia, Erdogan con lo spirito sta allontanando il Paese dall’Occidente. La sua agenda è guidata dal desiderio di vincere le battaglie politiche a tutti i costi e dalla smania di trasformare la Turchia a propria immagine, ma mette sempre più in evidenza la sua volontà autoritaria di esercitare il potere. In questa fase, i problemi dell’Ue e la cattiva condotta tenuta in passato nei confronti della Turchia sono un tema poco efficace in politica interna. Tutto è pronto per gli Stati Uniti, che sono riusciti a persuadere il primo ministro a ricalibrare la politica estera di Ankara e ad allinearla con quella di Washington. Lo testimoniano la risoluzione del dissidio tra israeliani e turchi data per imminente e le nuove aperture a Cipro. Purtroppo, in passato di rado Washington ha dedicato grande attenzione alle politiche interne della Turchia o alla qualità della sua democrazia. Resta pertanto da vedere se questa volta le cose andranno in modo diverso.
Tutto sommato, la sfida della democratizzazione della Turchia è integralmente faccenda turca, che sarà affrontata nei prossimi appuntamenti elettorali del Paese. traduzione di Anna Bissanti