Inafferrabile. Sanguinario. Studioso del Corano. Ritratto del capo di Boko Haram, il gruppo che ha rapito duecento ragazze e compiuto gravissimi attentati nel nord del grande paese africano

Abubakar Shekau
«Abubakar Shekau è tornato dal regno dei morti e non sa cosa sia la paura». Non c’è frase più efficace per descrivere il terrore, la costernazione e il mistero che avvolge l’immagine del comandante in capo di Boko Haram, il gruppo islamista nigeriano diventato famoso nel mondo per il sequestro, il 14 aprile scorso, di oltre duecento ragazze nel dormitorio di una scuola ai confini col deserto.

La pronuncia, quella frase, Mohammed Salkida, un giornalista nigeriano che l’ha conosciuto così da vicino da subire l’accusa di essere un sostenitore del gruppo fondamentalista e da collezionare minacce di morte al punto da dover fuggire dal Paese assieme alla famiglia. L’uomo che ha velocemente scalato la classifica dei terroristi più pericolosi del globo è stato dato per ucciso diverse volte. E sarà per non alimentare quella che per i suoi proseliti sta diventando una leggenda, ma le autorità nigeriane, contro l’evidenza, continuano a sostenere la tesi della sua scomparsa. Come ha fatto, ad esempio, Marilyn Ogar, portavoce dei Servizi di sicurezza, il 12 maggio scorso, dopo la diffusione del video nel quale il comandante sostiene di essere pronto a «vendere al mercato» le ragazze: «Il vero Abubakar Shekau è morto, credeteci».
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Impossibile. Nel filmato si vede un uomo con la barba, sulla trentina. Kalashnikov a tracolla, berretto rosso e tuta mimetica, agita il braccio con scatti improvvisi, come fosse fuori controllo. «Impregneremo la terra della Nigeria», dice, «del sangue dei cristiani e dei cosiddetti musulmani che contraddicono l’Islam». Ma per Marilyn Ogar è al massimo un sosia perché Boko Haram «è solo un marchio» e nuovi comandanti hanno preso il posto, il nome e il “titolo” del vero Shekau. Il quale è stato dato per morto, l’ultima volta, ad agosto, dopo uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Ma di quell’episodio non si è saputo più nulla. Fino a quando il volto di Shekau è comparso di nuovo in video, con il ghigno di sempre. Poche frasi in inglese, arabo e kanuri, una delle lingue del nord-est della Nigeria, la regione dove Boko Haram è nato e ha la maggior parte dei seguaci: «Allah mi ha protetto». E nel suo nome ha lanciato la nuova sconcertante sfida col rapimento delle studentesse capace di scuotere l’interesse del mondo, con l’adesione massiccia alla campagna “Bring back our girls” (restituiteci le nostre ragazze). 
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Ma chi è davvero Abubakar Shekau, il “risorto”? Di lui si sa pochissimo ed è incerta persino l’età. C’è chi dice abbia 35 anni, chi 36, chi 44. Sarebbe nato in un villaggio al confine tra Niger e Nigeria. Poche case assediate dal deserto nel cuore di quello che un tempo era il Califfato di Sokoto e oggi una regione tra le più povere d’Africa, dove oltre il 70 per cento della popolazione vive con meno dell’equivalente di un dollaro e 25 centesimi al giorno.

Negli Anni Novanta Shekau si trasferisce a Maiduguri, la città più importante del nord-est della Nigeria, la culla di Boko Haram. È qui che comincia a studiare il Corano e conosce le figure chiave dell’organizzazione, primo tra tutti l’imam Mohammed Yusuf, il fondatore. Il nome scelto da questo teologo-predicatore per la sua creatura è “Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad”, che in arabo vuol dire “Popolo impegnato nella propagazione degli insegnamenti del Profeta e nel jihad”. Ma a Maiduguri, nella moschea e nella scuola coranica di Yusuf, si comincia a usare un altro nome. Più breve e facile da pronunciare, comunque carico di significati. Su “haram”, una parola di origine araba traducibile come “peccato” o “proibito”, gli studiosi concordano. Più incerta la genesi di “boko”, un termine in lingua hausa associabile al concetto di “falso”.
La sua accezione cominciò a mutare dopo il 1903, anno della conquista britannica del Califfato di Sokoto, per un secolo uno degli imperi più estesi e potenti a sud del Sahara.

Il modello di insegnamento scolastico introdotto dagli inglesi fu definito “ilimin boko”, dove “ilimin” vuol dire “educazione” e “boko” è sinonimo di occidentale in senso dispregiativo. Un’accezione valida ancora oggi e che Shekau fa propria. Di lui il giornalista Mohammed Salkida racconta: «Ha una memoria fotografica e un’attitudine per la teologia, tanto che lo chiamano “Darul Tawhid”, l’esperto del Tawhid, la dottrina dell’unità e dell’unicità di Allah». 
Una manifestazione per la liberazione delle ragazze rapite a Abuja, Nigeria

Il suo basso profilo, la modestia apparente, piacciono ai militanti fondamentalisti. È quasi sempre sui libri, scrive, si mostra devoto. Veste con abiti da poco e pare non voglia guidare l’automobile, che considera un lusso incompatibile con la condotta di un buon musulmano. Sono anni decisivi, tra il 2002 e il 2006, durante i quali Boko Haram si conquista uno spazio e un ruolo sociale in una regione dove le frontiere con il Niger, il Ciad e il Camerun esistono solo sulla carta. Il gruppo si impegna soprattutto nell’assistenza ai poveri, ignorati dal governo centrale e dalle multinazionali che sfruttano i pozzi petroliferi del Sud, lontani più di mille chilometri.

I luoghi di ritrovo sono la moschea e la scuola coranica, mentre si fanno proseliti tra i contadini con i prestiti senza interessi, nel rispetto dei precetti dell’islam. «Boko Haram è stato fondato sull’ideologia», sottolinea Salkida, «ma si è rafforzato e ha assunto un ruolo a causa del malgoverno e dell’assenza dello Stato». È in questo contesto che Boko Haram costruisce una struttura militare. Nel mirino finisce chiunque si opponga al suo Stato clandestino fondato sull’interpretazione intransigente della sharia. Le vittime sono anche esponenti della minoranza cristiana ma soprattutto musulmani, politici, amministratori e ufficiali delle forze dell’ordine, servi corrotti di un governo infedele.

Come ricostruisce il centro studi International Crisis Group, in questo periodo, «Yusuf ha difficoltà a tenere sotto controllo i suoi indisciplinati luogotenenti, soprattutto Shekau». La svolta arriva nel luglio del 2009. A Maiduguri assalti a caserme di polizia ed edifici governativi innescano la repressione dell’esercito. Nell’arco di pochi giorni sono arrestati o uccisi 700 presunti militanti e migliaia di persone sono costrette ad abbandonare case e villaggi. È catturato anche Yusuf. La sua fotografia a torso nudo, strattonato dai soldati, diventa l’emblema della riscossa dello Stato. Poi pare sia  stato ucciso, nella prigione di un commissariato. 

Anche Shekau finisce in manette, ma è rilasciato. Salkida è convinto che in lui agenti dei servizi deviati abbiano visto l’uomo giusto per tenere in scacco il governo. La vita di Shekau, comunque, è perennemente in pericolo. Secondo Martin Ewi, ricercatore nigeriano dell’Istitute for Security Studies, «sa che se le forze di sicurezza lo prendono è spacciato e per questo si gioca il tutto per tutto» La nomina a capo di Boko Haram è annunciata nel 2010 con un video, sfondo verde e logo con fucili automatici, Corano e bandiera nera del jihad. Il comando va a chi si è dimostrato più intransigente e ha legami più stretti con le comunità locali di etnia kanuri.

Contano però anche i rapporti con Mamman Nur, un ex studente di teologia originario del Camerun, ritenuto uomo di collagamento con al Qaeda nel Maghreb islamico, Al Shabaab e altri gruppi della galassia islamista in Africa. Sarebbe proprio Nur la mente del primo attentato suicida nella storia della Nigeria, nel giugno 2011, contro il quartier generale della polizia ad Abuja. Due mesi dopo è colpita la sede delle Nazioni Unite e i morti sono più di venti. Comincia una nuova fase: Boko Haram punta al cuore dello Stato. L’obiettivo dichiarato è rovesciare il governo di Goodluck Jonathan, presidente originario del sud petrolifero e perlopiù cristiano della Nigeria. Il sogno restaurare il Califfato fondato sulla sharia. Si iscrive in questo progetto l’operazione Kano, la principale città del nord del Paese a maggioranza musulmana, antico centro carovaniero noto per la tradizione di tolleranza. Nei blitz in caserme, commissariati e uffici governativi sono uccise oltre 180 persone.

Le vittime sono di meno ma lo shock è ancora maggiore il giorno di Natale del 2011. L’esplosione di una bomba nella chiesa cattolica di Madalla, a pochi chilometri dalla capitale Abuja, spinge anche i mezzi di informazione europei e americani a occuparsi di Boko Haram. Torna di moda la tesi dello “scontro di civilità”. Gli Stati Uniti, primi acquirenti del greggio nigeriano, inseriscono Boko Haram nella lista delle organizzazioni terroristiche e adottano sanzioni nei confronti di Shekau e dei suoi luogotenenti.

L’accusa è essersi resi responsabili dell’uccisione di oltre mille persone, in maggioranza civili, in  un anno e mezzo. Le misure prevedono la confisca di beni negli Stati Uniti e vietano ai cittadini americani di offrire qualsiasi tipo di sostegno ai terroristi. Ma sono inefficaci, come confermano nuovi attentati e la taglia di sette milioni di dollari messa da Washington sulla testa di Shekau nel giugno scorso. L’imprendible e sanguinario leader si fa vivo con video stile Al Qaeda. La faccia feroce, un inglese stentato, il dito puntato contro la telecamera proclama: «Mi piace uccidere chiunque Allah mi ordini di uccidere, allo stesso modo in cui mi piace uccidere le galline». O ancora: «La guerra è contro tutti i cristiani in generale. Kill, kill, kill, kill, kill, kill». Uccidere: pronunciato sei volte.

Il governo nigeriano, troppo a lungo debole e inerte, punta ora sulla repressione, cercando di parare i colpi di un’opposizione forte soprattutto al nord e decisa a giocarsi tutto alle elezioni del 2015. Ma lo stato di emergenza e 22.000 soldati nelle regioni del nord-est non bastano senza opportunità di lavoro e prospettive di sviluppo. Il massacro di 50 studenti dell’istituto agrario nel villaggio di Gujba a settembre e il rapimento delle liceali di Chibok, cittadina dove cristiani e musulmani vivono insieme da sempre, ne sono la conferma.

Boko Haram torna alle origini del proprio nome, identifica le scuole con lo Stato e lo Stato con il giogo “occidentale”. Spiega monsignor Matthew Hassan Kukah, vescovo di Sokoto, convinto che il conflitto non sia tra musulmani e cristiani: «Corruzione, ingiustizie e delusione per il fatto che la fine del regime militare e 15 anni di democrazia non hanno migliorato le condizioni di vita sono diventate una miscela esplosiva anche a causa delle esecuzioni sommarie e degli abusi dell’esercito; che Boko Haram si richiami alla religione è inevitabile, perché in Nigeria la religione è l’unico segno di appartenenza comprensibile a tutti.