La strage di Motta Visconti riporta l'attenzione sul tema della violenza di genere, un'emergenza spesso al centro del dibattito politico. Peccato che il "piano di azione straordinario" sia fermo al palo da mesi. Tutto perché manca l'ok del ministero delle pari opportunità, la cui delega è nelle mani dell'ex Rottamatore
I dati restano preoccupanti e quanto accaduto sabato sera a
Motta Visconti nel milanese ne è la conferma: ancora molto dev’essere fatto per combattere la
violenza di genere e l’ondata di femminicidio. È stato, d’altronde, lo stesso Viminale a snocciolare i numeri, non a caso nel giorno delle festa della donna. Mentre calano gli omicidi di genere, non calano quelli che hanno avuto come vittime le donne: dai 528 omicidi del 2012 si è passati ai 501 del 2013, mentre per i femminicidi, all’opposto, dai 159 registrati due anni fa si è arrivati l’anno scorso a quota 177, quasi uno ogni tre giorni. Una tendenza che, purtroppo, pare trovare conferma nel rapporto sull'omicidio volontario pubblicato proprio oggi, realizzato dall’
Eures in collaborazione con l’Ansa.
Dal dossier emerge come nel contesto familiare e affettivo la vittima sia principalmente donna (61,1%), di età compresa tra i 25 e i 54 anni. Mentre il killer in oltre 9 casi su 10 è un uomo. E, forse, non è un caso che gli omicidi tra compagni interessino quasi la metà (49,1%) delle vittime totali di uccisioni in famiglia. I dati, poi, raccontano anche di un impressionante trend decennale: dal 2003 al 2012 si sono contati ben 1.838 omicidi volontari consumati all’interno della sfera familiare o affettiva, con una media annua di 184 vittime, pari ad una vittima ogni 2 giorni.
Numeri, insomma, su cui bisognerebbe riflettere e non poco. Anche in ambito istituzionale.
Negli anni, è vero, tanto è stato fatto. Nel 1996 venne approvata la legge sulle “norme contro la violenza sessuale” e poi nel 2009 con il decreto (poi convertito in legge) recante “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Due provvedimenti importanti che hanno dotato il nostro Paese di strumenti per il contrasto alla violenza di genere.
Affinché però ci possa essere una reale azione di tutela delle donne, si sa, sono necessari fondi di cui possano avvalersi centri e associazioni presenti sul territorio. Ce l’ha detto, d’altronde, anche l’Europa con la Convenzione del 7 aprile 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata in Italia il 19 giugno scorso. Cristallino l’articolo 8: “Le Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione”.
Ed ecco allora che - anche in funzione delle disposizioni comunitarie - nell’agosto del 2013 è stato approvato un altro decreto tramite cui si prevede anche un finanziamento “per la realizzazione di azioni a sostegno delle donne vittime di violenza”. Dieci milioni per il 2013. Ma non basta: governo e Parlamento sembravano voler fare realmente sul serio, e allora è stata inserita un’ulteriore norma nella legge di stabilità 2014, attraverso cui si è incrementato il fondo di 10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016. Un finanziamento significativo per far partire il “Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”.
Un impegno importante, anche perché, per l’anno in corso, risultano a disposizione non solo i 10 milioni previsti per il 2014 ma anche ulteriori 8 di risorse non utilizzate nell’anno precedente. Per un totale di 18 milioni di euro. E, in effetti, già si saprebbe come investirli. Basti prendere in mano il bilancio di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri: 10 milioni di euro per il già menzionato “Piano d’azione”; 7 milioni per l’assistenza e sostegno territoriale a donne vittime di violenza e ai loro figli; 300.000 euro per la stipula di convenzioni o accordi finalizzati all’aggiornamento di statistiche sulla criminalità contro le donne e all’istituzione di una banca dati sui possibili servizi offerti; e infine 700.000 euro per la prosecuzione delle attività per il contrasto alla violenza di genere e allo stalking.
Tanti buoni propositi che, ad oggi, restano solo propositi visto che manca la firma. Come lamentano le tante associazioni di settore, i soldi sono fermi al palo poiché nessuno li ha ancora effettivamente stanziati. Il motivo? Bisogna che se ne occupi “il ministro delegato per le pari opportunità”. Questo prevede il decreto del 2013. Peccato però che, ad oggi e contrariamente ai suoi predecessori, Renzi abbia tenuto per sé la delega. E non abbia pensato ad assegnare nemmeno una piccola fetta dei 18 milioni. Insomma, non c’è nessun ministro, viceministro o sottosegretario che possa occuparsi della questione, semplicemente apponendo una firma a quanto già predisposto e previsto a bilancio.
D’altronde anche la compagna di partito di Renzi ed ex viceministro proprio con delega alle pari opportunità,
Maria Cecilia Guerra, aveva messo in guardia l’ex premier in un’intervista del 30 aprile scorso: fino ad ora, argomentava la Guerra, il governo Renzi non ha prestato la dovuta attenzione alla tematica, “prima con l’abolizione del Ministero e ora per via di questa delega ancora in capo al Presidente del Consiglio. Mi permetto di dubitare non certo delle buone intenzioni di Renzi nei confronti di questo problema, ma semplicemente del fatto che i compiti del suo ufficio gli lascino lo spazio per occuparsene. Per ora è tutto fermo”.
“Chi ha l’autorità politica per convocare i gruppi di lavoro del piano?”, si chiedeva ancora Guerra. “In teoria i gruppi li dovrebbe convocare Renzi stesso, ma faccio fatica a credere che, con il mestiere che fa, possa assumere un ruolo operativo nei confronti del piano”. Dubbi che, ancora oggi, sembrano fondati.