Prende il nome da un’eroina celebrata durante il carnevale di Ivrea. Dispone di otto psicologhe e due avvocate. Con una convinzione: è necessario coinvolgere da subito i maschi

Lo sappiamo: quanto si sta facendo contro la violenza sulle donne è ancora poco. I fondi investiti sono esigui, i percorsi scolastici sull’educazione affettiva restano dichiarazioni fumose, la sanità ha poco personale, la formazione delle forze dell’ordine è sottovalutata. Non è un caso che l’argomento torni alla ribalta per i continui fatti di cronaca, che in fretta suscitano forti emozioni e altrettanto in fretta si dissolvono. In questo scenario mi sembra di grande importanza conoscere le realtà, quasi sempre piccole e ben radicate sul territorio, che lavorano ogni giorno in silenzio per invertire la tendenza crescente di violenze e omicidi.

 

Ve ne racconto una, nella convinzione che possa servire a dare voce a chi, senza proclami e con scarse risorse, mette a servizio dei cittadini professionalità, tempo e intelligenza.

 

L’associazione Violetta di Ivrea prende il nome da un’eroina leggendaria che si celebra durante il carnevale della città. La donna doveva concedersi al tiranno, ma pur di non farlo gli taglia la testa e la esibisce al popolo che poi lei stessa guiderà verso la liberazione. Questa associazione nasce nel 2007 per contrastare la violenza e per educare all’emancipazione. Violetta dispone di 8 psicologhe e 2 avvocate, ciascuna delle quali accetta come compenso il solo rimborso spese. Il Comune, del resto, non finanzia questa associazione nonostante Violetta faccia registrare passi in avanti nella prevenzione della violenza e una crescente fiducia da parte dei cittadini. Da qualche anno l’amministrazione ha messo a disposizione una sede ma non le spese per mantenerla.

 

Il personale specializzato che lavora presso questa associazione illustra, in incontri pubblici e individuali, cos’è un atteggiamento violento, dato che in molti casi chi lo subisce non lo riconosce, anzi a volte lo ritiene addirittura normale o comunque troppo diffuso perché possa essere un segnale di allarme. Qualche dato relativo alle attività del 2023: Violetta ha preso in carico 70 richieste di aiuto su 74, inserendo le donne vittime di violenza (41 per cento psicologica, 26 per cento fisica, 20 per cento assistita, 13 economica) in un percorso ben strutturato. Teniamo in considerazione che l’autore delle violenze sulla donna è per il 75 per cento il compagno/marito e che nell’82 per cento dei casi è italiano. Chi chiama l’associazione, su un campione di 100 telefonate, chiede aiuto perché subisce violenza (74 per cento), per avere un supporto maggiore da parte di amici, insegnanti e parenti (20 per cento), è un minorenne che dichiara di subire violenza (6 per cento). La psicologa Barbara Bessolo, una delle anime di Violetta, spiega che per contrastare la dipendenza affettiva di una donna maltrattata bisogna rispondere immediatamente alle sue richieste e inserire la vittima in un percorso predisposto. Il rischio di una risposta non tempestiva è perdere chi lancia l’allarme, che in fretta si rassegna ad accettare la sua condizione. Violetta cerca di arrivare alle donne che non sanno di aver bisogno di aiuto e di portare avanti un’operazione di orientamento che chiarisca a chi rivolgersi, perché conoscere i riferimenti è l’unico modo per non rimanere prigionieri. A volte per non morire. L’associazione offre un servizio clinico e di consulenza legale, coprendo l’iter dell’assistito dall’inizio alla fine. Siamo di fronte a un lavoro di rete e di équipe per rendere consapevole una donna quasi sempre «deprivata del suo giudizio», con «una mente colonizzata dalla logica del maltrattante», spiega la dottoressa. La psicoterapia, in questo caso, è il più importante strumento di rieducazione e riappropriazione di sé. La donna che completa il percorso eredita qualcosa di fondamentale: oltre a mantenere viva la memoria di ciò che ha vissuto al fine di scongiurarne una ricaduta, diventa testimone per altre, per cui attiva a sua volta una rete di rapporti e di sostegno. Questo si chiama restituzione: ciò che ho appreso per emanciparmi diventa esperienza e conoscenza utile per l’emancipazione dell’altro.

 

Sappiamo - dagli annunci più che dai fatti - che bisogna cominciare presto a educare alle relazioni. Per questo Violetta forma insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria: 460 maestri in 50 scuole del Canavese, fino ad oggi. Gli insegnanti devono essere i primi a sapere come agire di fronte al pericolo o alla denuncia. Alle scuole medie, invece, gli studenti incontrano non solo psicologi e avvocati, ma anche forze dell’ordine, che fanno conoscere gli aspetti legali, procedurali e burocratici per segnalare casi e gestire emergenze. Alle scuole superiori, infine, il gruppo di formatori cresce ancora: due poliziotti, un avvocato e una psicologa. La sensibilizzazione viene di solito fatta agli studenti del terzo anno e anche in questo ciclo vengono preparati insegnanti “di riferimento” che fanno da ponte tra ragazzi e associazione. Si punta ad aumentare la qualità della comunicazione tra pari, dato che un adolescente preferisce spesso confidarsi con un coetaneo.

 

Cosa emerge da questi incontri? Che è necessario coinvolgere da subito i maschi. Gli studenti generalmente non si riconoscono nel ritratto che la cronaca fa del maschile. «Io non sono così», ribattono. Anzi: da questa narrazione rimangono schiacciati e più inibiti a condividere le loro insicurezze. Ecco perché l’associazione cerca di insegnare non solo a una ragazza come chiedere aiuto, ma di far capire a un ragazzo che se in una relazione reagisce in modi preoccupanti e che non immaginava è bene che ne parli e si rivolga a qualcuno. «Parlare solo di maschilismo significa perdere metà della platea», aggiunge Bessolo:  «Bisogna partire dalle differenze sostanziali, guardarle come una ricchezza, rispettarle e puntare ogni momento a integrarle, non a omologarle». L’efficacia di Violetta sta proprio nel portare avanti una sinergia tra il femminile e il maschile.

 

Barbara Bellardi, vice presidente dell’associazione, confida, con un’energia contagiosa, che la situazione nel territorio è buona, l’80 per cento delle donne che chiama Violetta arriva fino in fondo a un percorso lungo anni che si conclude con una riappropriazione della libertà di scelta. È la ricaduta della sensibilizzazione, della prevenzione e dell’assistenza tempestiva. E nel lasciarci racconta un’ultima cosa: se l’amica di Giulia Cecchettin, la sera prima che venisse uccisa, fosse stata una delle ragazze che hanno partecipato alle attività formative, forse ascoltando quell’ultimo messaggio avrebbe saputo cosa fare. E io voglio crederci.