Scatenare un’ondata anti Islam in Europa. Per portare tutti i fedeli di Allah dalla propria parte. Fino alla guerra totale. Con le armi chimiche. Ecco cosa progetta lo Stato islamico
La strage di Parigi è l'inizio della guerra totale. Ma loro vogliono di più. Sognano l’Apocalisse, la battaglia definitiva che segnerà l’ultimo dei giorni. Lo Stato islamico si evolve, continuamente. Non si pone limiti e per questo ora sta cercando di mettere le mani su quelle armi di distruzione di massa, evocate dall’America nel 2003 come pretesto per devastare gli equilibri del Medio Oriente.
Non agisce in maniera difensiva, perché conosce solo l’attacco: è la sua ragion d’essere, ispirata alle imprese di Maometto e all’irresistibile espansione dell’Islam originario. È cresciuto sfruttando gli errori dell’Occidente e ha imparato dagli sbagli dei movimenti jihadisti precedenti. E ha una strategia chiara. Quella che manca agli Usa e all’Europa, incapaci di comprendere la minaccia. «Noi non abbiamo sconfitto la loro idea», ha ammesso il generale Michael Nagata, comandante delle forze speciali statunitensi in Iraq: «Noi non riusciamo nemmeno a capire la loro idea».
La nuova fase è quella degli attentati in grande stile, un’offensiva globale che ha scopi diversi. Distruggere l’economia di alcuni paesi arabi, territori in bilico dove il Daesh vuole mettere radici. I due massacri del museo del Bardo e di Sousse hanno stroncato il turismo tunisino disintegrando la risorsa della borghesia locale più aperta. Oltre a provocare un effetto simile ai danni dell’Egitto, la distruzione dell’Airbus russo decollato da Sharm el-Sheikh è stata anche una vendetta: la risposta alla campagna siriana di Putin.
Così come le autobombe della scorsa settimana nel quartiere sciita di Beirut hanno punito l’intervento di Hezbollah al fianco di Damasco. L’eccidio nella capitale francese è una rappresaglia per i raid di Hollande ma come tutti gli altri assalti ha una funzione primaria, fondamentale per lo sviluppo del Daesh: attirare ondate di reclute, la linfa armata che permette all’Is di andare avanti.«C’è un’attrazione magnetica che gli procura fondi, talenti, armi per ingrandirlo, potenziarlo e incoraggiarlo», ha detto il generale Michael Nakata. E oggi, come ha sintetizzato un dirigente dell’Fbi, «arrivano più volontari di quanti riusciamo ad ammazzarne».
Il Califfato è formato soprattutto da questi giovani raccolti in tutte le comunità musulmane del pianeta. La loro ideologia fondamentalista fino all’estremo non ha una larga diffusione, non è un fenomeno di massa, ma la propaganda Web permette di contattare e unire queste minoranze radicali sparse nei continenti, spingendole a raggiungere l’unico Stato dove vivere la legge coranica più pura e dura,«un’entità politica e uno strumento di salvezza per le loro anime».
Al Baghdadi ha dimostrato di avere la leadership e i requisiti religiosi per proporsi come l’erede del Profeta: vuole forgiare un popolo nella violenza incondizionata, quella che nell’anno 622 portò alla conquista di Medina e al trionfo delle armate musulmane che «conoscevano l’efficacia della brutalità nei momenti di necessità».
Chiunque si oppone va eliminato, tutti gli infedeli devono essere uccisi o resi schiavi, senza compromessi. Lo ha promesso il portavoce dell’Is Abu Muhamad Al-Adnani: «Conquisteremo la vostra Roma, spaccheremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne». Non fanno mai prigionieri: «Sacrificare gli ostaggi getta la paura nel cuore del nemico e dei suoi sostenitori». Come è accaduto nell’orrore del Bataclan.
La ferocia è il cemento del Daesh, uno strumento di governo. Le reclute vengono educate alla crudeltà, con continue esecuzioni in piazza davanti ai bambini. C’è una spettacolarizzazione della morte: video con ammazzamenti sempre più elaborati, dalla crocefissione al rogo, dalla decapitazione al dissanguamento. Brett Friedman, un capitano dei marine ritenuto tra i migliori analisti della strategia del Daesh, l’ha paragonata alla stagione del Terrore della rivoluzione francese, con la ghigliottina diventata centrale nella vita sociale e il tricolore onnipresente come oggi lo sono le bandiere nere nel Califfato. E lo stesso Friedman ritiene che lo Stato islamico rappresenti «la rivoluzione dello jihad, una al Qaeda all’ennesima potenza».
La sua tesi si basa sulle ideologie che hanno alimentato l’evoluzione del concetto di guerra santa. Non a caso, il fondamento è intitolato “Pietra miliare”. È stato pubblicato nel 1964 mentre l’autore era in cella, in attesa dell’impiccagione per avere cospirato contro il presidente egiziano Nasser. Sayyid Qutb era un erudito, con studi negli Usa. Indossava giacca e cravatta pure tra le sbarre, ma nutriva un odio assoluto per la «degenerata» civiltà occidentale. Ha teorizzato che l’Islam non andasse separato dalla politica e che quindi fosse necessario abbattere tutto ciò che impediva ai credenti di vivere secondo le leggi divine: il terrorismo come forma di autodifesa. È stato lui a imporre il principio di jihad come avanguardia combattente della riscossa musulmana.
LOGORARE I NEMICI
Il concetto scaturito da quella prigione egiziana è stato poi sviluppato da Osama bin Laden, che l’ha intriso della sua esperienza di uomo d’affari saudita. Ispirandosi al collasso dell’Unione Sovietica per il costo del conflitto afghano, ha sostenuto che i nuclei di al Qaeda dovevano trascinare i nemici vicini (i paesi arabi) e quelli lontani (Stati Uniti, Israele, l’Europa) in una guerra di logoramento, anche economico. Ecco perché le Torri gemelle sono diventate un bersaglio. E all’indomani dell’11 settembre, Osama ha scritto al mullah Omar: «L’intervento costerà agli americani troppo sangue e troppo denaro. Alla lunga, pure loro scapperanno».
Il progetto di tante singole azioni finalizzate a un unico disegno è stato raffinato nella “Chiamata alla resistenza globale”, le 1.600 pagine scritte da Abu Musab Al Suri, “la mente”: un siriano sopravvissuto ai massacri del padre dell’attuale dittatore. È lui che perfeziona l’uso dei media e degli attentati contro i civili per «lanciare e amplificare i messaggi». Citando Che Guevara, spiega che «i pochi devono convincere le masse che chi si oppone al jihad è il nemico». Sulla sua scia, il dotto Abd Al Aziz Al Muqrin attinge a tutto il pensiero militare e rivoluzionario - da von Clausewitz a Mao e a Ho Chi Min - per indicare il passaggio dal terrorismo di pochi alla creazione di un vero esercito: «La battaglia deve diventare di nazione».
Ma se loro volevano conquistare il cuore della popolazione, è Abu Musab Al Zarqawi a cambiare rotta e investire sulla paura per imporre il consenso. Nel caos dell’Iraq invaso dagli Usa, accende la lotta di religione contro gli sciiti e si presenta come unico difensore dei sunniti. La sua brutalità irrita bin Laden e gli altri capi qaedisti, provocando lo scisma quando Al Zarqawi decide di spostare il centro dell’azione nella Siria devastata dalla guerra civile. È la nascita dello Stato islamico.
Con una base ideologica elaborata da Abu Bakr Naji in un testo intitolato “La gestione della ferocia”. Il suo credo è: «Sangue per sangue, distruzione per distruzione ci permetteranno di conquistare il potere e impediranno al nemico di opporsi». Propone un intreccio di devozione, moralità e crudeltà per unire i fedeli. Punta sulle reti mediatiche per raccogliere reclute da tutto il mondo, costruendo un’armata di stranieri. Incita a riscrivere la storia, cancellando i simboli delle altre civiltà.
OFFENSIVA SENZA LIMITI
Lo Stato islamico non vuole riconoscimenti e non conosce frontiere. Insegue l’epopea del Profeta e dei suoi primi successori, che in pochi decenni si spinsero fino alle porte di Parigi e ai confini dell’India. Si offre come modello a chiunque voglia affiliarsi: ha creato province in Libia, Egitto e Caucaso; cerca alleati in Afghanistan, Pakistan, Tunisia e Libano. Più caotica la situazione, più fragili i governi, più possibilità ha di imporsi. Perché comunque garantisce ordine e sicurezza (vedi riquadro a pagina 31). E da quasi due anni amministra un territorio vasto come la Gran Bretagna con una decina di milioni di abitanti.
La sua capacità militare è stata a lungo sottovalutata. Dietro ci sono veterani dell’esercito e dei servizi segreti di Saddam Hussein, gettati nelle braccia degli jihadisti dagli errori dell’occupazione Usa. Questi generali hanno inventato un esercito che sa muoversi a tutto campo da Baghdad a Damasco. Sono riusciti, ad esempio, a riutilizzare il colossale arsenale made in Usa catturato in Iraq: pure Abdelhamid Abaaoud, ritenuto la mente della strage di Parigi, si è fatto fotografare su un blindato “humvee” americano con la bandiera nera.
LA MINACCIA CHIMICA
La guerra totale è appena cominciata. Ci saranno ancora assalti di lupi solitari, che risponderanno all’appello di Abu Muhammad Al-Adnani, il portavoce dell’Is: «Trovate un infedele e spaccategli la testa con un sasso, investitelo con un’auto, avvelenatelo, distruggete le sue coltivazioni». Un linguaggio arcaico, per portare la tradizione guerriera medievale nel mondo presente. Perché loro deridono la modernità. E possono colpire ovunque. Ma i prossimi passi sono chiari. Puntano alle armi chimiche. E poi forse a un ordigno nucleare “sporco”, messo insieme assemblando materiale radioattivo: quello che Bin Laden ha sognato fino agli ultimi giorni, come provano i libri sequestrati nel suo covo.
C’è la certezza che stiano già usando contro i curdi granate e razzi con gas letali, come l’iprite e il fosgene. Tecnologia di un secolo fa, che basta però a creare il panico negli avversari, tanto che a inizio novembre gli australiani hanno deciso di dotare le loro truppe in Iraq di tute protettive. Non è ancora chiaro se si tratti di poche vecchie bombe scovate nelle scorte nascoste di Saddam o di Assad, ma c’è il sospetto che almeno una parte delle testate sia stata costruita dall’Is. Se fossero in grado di produrle su larga scala, l’impatto sulla prima linea sarebbe devastante. Figuriamoci se venissero usate contro una città europea.
L’IDEA OLTRE LO STATO
Controllare uno Stato permette al Daesh di sviluppare indisturbato i suoi piani di morte. Ottomila raid occidentali finora sono stati inutili. Spesso i caccia tornano alla base senza sganciare i missili: non sanno cosa colpire perché non ci sono informazioni dal regno del Terrore. I bombardamenti funzionano solo quando le brigate jihadiste devono uscire allo scoperto, come a Kobane e a Shingal. La volontà di lottare dei peshmerga sostenuta dagli aerei ha sempre battuto le bandiere nere. Ma il fronte curdo, già diviso in tre nazioni, si sta crepando per le faide di potere, mentre la Turchia di Erdogan l’ostacola in ogni maniera. E a Baghdad non ci sono forze sunnite credibili.
Così l’Occidente si trova davanti a un dilemma. Proseguire con l’inconcludente campagna dal cielo, mostrandosi debole. Oppure scendere in campo, con la prospettiva di spazzare via lo Stato islamico in pochi mesi ma restare intrappolato in un conflitto per anni. Il Daesh non teme l’intervento, anzi lo cerca in tutti i modi. Attentati come quello di Parigi mirano anche a innescare una reazione contro l’intera comunità musulmana, spingendola dalla loro parte. E a provocare un’azione terrestre americana ed europea, per poi mobilitare il mondo arabo contro “i crociati”. Con una visione apocalittica, l’Is evoca spesso la profezia della battaglia finale “contro i romani” che avverrà nella pianura di Daqib, la città siriana da cui viene il nome del suo giornale di propaganda.
I miliziani non hanno paura di venire uccisi, sono ispirati dal fervore della morte. E ogni leader abbattuto è stato sostituito da un altro comandante ancora più bellicoso. Inoltre hanno imparato da al Qaeda l’importanza di una rete decentralizzata: possono perdere un territorio, ritirarsi e poi ripartire. Il Califfato ha bisogno di uno Stato, ma se i jihadisti verranno sconfitti in Siria, studiano già di rifondarlo altrove: guardano soprattutto alla Libia. «Se non lo raggiungeremo adesso, allora lo faranno i nostri figli e i nostri nipoti», ha proclamato il portavoce del Daesh. Il cuore della loro forza è nell’idea: hanno dimostrato di potere imporre la legge coranica sulla terra. Per questo sono convinti di avere già vinto.
Trovare una risposta efficace non sarà facile. Richiede tanti fronti d’azione, costi e tempi lunghi. La strada passa da un impegno in Siria, per dare finalmente protezione ai civili e costruire una soluzione che fermi la guerra. Un’eventuale operazione terrestre dovrà essere guidata da una coalizione araba, perché non appaia come un’invasione occidentale. Bisogna poi soffocare le nuove metastasi dell’Is, a partire dalla Libia. E soccorrere in tutti i modi le democrazie sull’orlo del baratro, come Tunisia e Libano. È un impegno diplomatico, economico e militare decennale. Ma finora siamo all’anno zero.