La scalata al “Corriere della Sera”. L’eredità Rovelli. ?Gli affari dei Borromeo. La lista Falciani. Amici e carriera ?di un potente ora finito in carcere

Scorcio delle British Virgin islands
Un palazzetto nel cuore di Milano. Un quadrilatero di mura, a pochi passi dal Castello Sforzesco, che cinge un giardino con alberi secolari. Si è conclusa qui, poco dopo la mezzanotte del 25 aprile, la carriera di Filippo Dollfus de Volckersberg, barone milionario del riciclaggio internazionale.

La caccia è durata più di due anni. Il finanziere di origini svizzere, 66 anni, sposato con una Medici di Marignano, ha girato al largo dell’Italia per molto tempo. Alla fine lo ha tradito un telefonino di troppo. Gli agenti della Guardia di Finanza di Busto Arsizio hanno seguito le tracce elettroniche del fuggitivo fino ad arrestarlo sulla soglia di casa, una dimora principesca che risulta intestata a una società offshore di Cipro, la Hogolman trading.

Chiuso in una cella del carcere di San Vittore, Dollfus per ora tace. Si tiene per sé nomi, numeri e circostanze che potrebbero illuminare molte vicende oscure della finanza nazionale.

Tanto per cominciare, “l’Espresso” ha scoperto che il barone svizzero viene più volte nominato nelle carte della lista Falciani, il libro nero dei clienti della banca Hsbc di Ginevra. In questa girandola di sigle e di milioni abbondano gli italiani con il tesoretto oltreconfine. È il caso di Daniele Lorenzano, l’ex manager Fininvest a suo tempo condannato (tre anni e otto mesi) nel processo per frode fiscale a Mediaset. I file segreti della Hsbc, trafugati nel 2008 dal consulente informatico Hervé Falciani, collegano Lorenzano a una sigla delle British Virgin islands, la Najis Real Estate. E quest’ultima era gestita proprio da Dollfus, insieme a un collaboratore italiano, Gabriele Bravi.

I due professionisti facevano coppia fissa da decenni. Casa a Milano, Lugano e La Punt, una delle località più esclusive dell’Engadina, il barone amministrava un esercito di società offshore. La Guardia di Finanza ne ha contate almeno 28. E molto spesso a fargli da sponda c’era il collega italiano. Il sodalizio si è rotto per cause di forza maggiore nel 2013, quando Bravi è finito agli arresti domiciliari a Milano per riciclaggio. In sostanza, secondo l’accusa, il socio di Dollfus ha dato una mano a far sparire all’estero centinaia di miliardi di lire che Rita Rovelli negli anni Novanta aveva ereditato dal padre Nino, al centro del clamoroso caso di corruzione giudiziaria nel processo Imi-Sir.

Gli investigatori hanno scoperto che una parte di quel colossale patrimonio era stato utilizzato per comprare, tramite prestanome, una villa ad Anacapri. E così, passo dopo passo, l’inchiesta è infine approdata a Dollfus, descritto come la mente di un sistema che nell’arco di una trentina di anni ha mosso almeno 460 milioni di euro (quelli già accertati), ma forse molti di più, per conto di una sessantina di clienti. Nella lista Falciani, per esempio, troviamo anche Giorgio Dal Negro, un altro ex manager del gruppo Berlusconi, pure lui coinvolto, ma assolto, nell’indagine sulla frode fiscale Mediaset. E anche Dal Negro, secondo i documenti provenienti dalla Svizzera, si era affidato alla coppia Dollfus-Bravi. I nomi dei due consulenti ricorrono almeno una decina di volte nei file della Hsbc, associati a schermi societari con base in diversi paradisi fiscali, dal Lussemburgo a Panama. Lo schema è sempre lo stesso. I capitali in partenza dall’Italia rimbalzano a Lugano per poi approdare nei porti offshore. Tutto in gran segreto, ovviamente.

Adesso però le indagini della procura di Milano, affidate al pm Roberto Pellicano, hanno alzato il velo su un primo elenco di vip in qualche modo collegati al sistema Dollfus. Nelle carte dell’inchiesta giudiziaria troviamo anche personaggi noti alle cronache come il finanziere Carlo Bonomi, padre di Andrea fondatore del fondo Investindustrial che controlla l’Aston Martin, e il costruttore Massimo Pessina (pure lui nella lista Falciani) già aspirante compratore del quotidiano “l’Unità”. Gli investigatori, con la consulenza tecnica del commercialista Giangaetano Bellavia, sono ancora al lavoro su questi e su altri clienti del fiduciario finito agli arresti. E va precisato che al momento nessuno di loro è indagato.

Andando a ritroso negli anni, però, seguendo la pista del denaro offshore si scopre che Dollfus ha messo la firma su affari colossali chiariti fin qui solo in parte. C’è per esempio una società delle British Virgin islands che tra il 2005 e il 2007 ha fatto girare centinaia di milioni di euro accreditati su conti svizzeri. La società in questione si chiama Maryland e in quegli anni ruggenti, poco prima del crack mondiale del 2008, ha giocato un ruolo non secondario in operazioni di Borsa come la scalata ad Antonveneta e alla Rcs Mediagroup, l’editore del “Corriere della Sera”.

Chi c’è dietro Maryland? Le carte ufficiali rivelano che la società era gestita da Bravi e Dollfuss per conto della famiglia del finanziere Francesco Bellavista Caltagirone. Tutto si tiene, perché Bellavista Caltagirone era sposato con Rita Rovelli, l’ereditiera che ha messo nei guai la coppia di fiduciari. E allora, a ben guardare, si scopre che quel guscio vuoto con base ai Caraibi ha incassato utili milionari grazie al trading di titoli Antonveneta e Rcs. Di più, altre carte dimostrano che la stessa Maryland avrebbe comprato per poi rivendere nel giro di pochi mesi anche un pacchetto di azioni Hopa, la holding del bresciano Chicco Gnutti salito alla ribalta con la scalata a Telecom in coppia con Roberto Colaninno. Un affare, quello su Hopa, da 100 milioni di euro. Bellavista Caltagirone andava a colpo sicuro. Si era messo in scia a Stefano Ricucci e al banchiere Gianpiero Fiorani, che finanziava alla grande le incursioni in Borsa della Maryland. A dirigere il traffico di azioni e di quattrini c’era Dollfus con l’inseparabile Bravi, che all’occorrenza poteva esibire anche un passaporto venezuelano. A fine corsa i profitti approdavano su conti svizzeri, quasi sempre a Lugano.

Passavano dal Lussemburgo, invece, gli affari dei Borromeo. Un ramo della nobile casata lombarda aveva scelto Dollfus come fiduciario. Giberto Borromeo (scomparso nel febbraio scorso) e il figlio Vitaliano gestivano il patrimonio di famiglia tramite una holding del granducato, la Sogefinlux. Tra gli amministratori di questa società troviamo il solito Bravi e anche Roberto Mazzotta, il banchiere, ed ex politico democristiano, in passato presidente di Cariplo e Popolare di Milano. Nel 2008, i Borromeo hanno venduto per 200 milioni le loro aziende che producono e commerciano acciaio, ma restano proprietari di un’immensa fortuna in terreni e immobili. Dopo la morte di Giberto, al comando del gruppo sono rimasti i figli Federico e Vitaliano, primi cugini di Lavinia Borromeo, moglie del presidente della Fiat, John Elkann.

Attorno a Dollfus, invece, gli amici di un tempo hanno già fatto terra bruciata. In Svizzera, infatti, il barone godeva di appoggi e frequentazioni altolocate, ma ora che è finito nei guai, parenti e sodali svizzeri si sono affrettati a prendere le distanze dal finanziere arrestato. «Non sappiamo che cosa abbia combinato», hanno detto ai giornali.

Resta il fatto che la famiglia di Dollfus possiede una quota rilevante, circa il 25 per cento, della Cornèr Banca di Lugano, che al pari dei concorrenti locali vive sui traffici con gli italiani. E Dollfus in persona, fino a tre anni fa, sedeva nel consiglio di amministrazione dell’istituto di credito ticinese. «Le sue attività di fiduciario non hanno nulla a che fare con la banca», recita un comunicato ufficiale targato Cornér. Sarà un caso, ma il barone si è fatto da parte proprio mentre entravano nel vivo le indagini sul riciclaggio dell’eredità Rovelli. Una lunga scia di denaro nero. Ultima fermata, il carcere.