L’integrazione più stretta della Germania con ?i suoi satelliti potrebbe funzionare in economia. Ma sarebbe politicamente molto pericolosa

E pluribus unum è il motto latino che campeggia sul sigillo degli Stati Uniti. Per unire veramente gli stati americani ci sono voluti più di due secoli e una devastante guerra civile. L’Unione europea (Ue) sta cercando di compiere la stessa evoluzione, ma ha cominciato solo sessant’anni fa e vorrebbe evitare guerre civili.

Nonostante la lentezza e le complicazioni, finora questo processo di unificazione era sembrato inevitabile e irreversibile. Oggi non più. Con i rischi concreti di un’uscita della Grecia dall’euro (che secondo i trattati implicherebbe anche un’uscita dall’Unione) e il referendum inglese sulla possibilità di abbandonare l’Ue, il processo di integrazione europea rischia di ingranare la marcia indietro. Perché l’Europa è entrata in crisi? È solo colpa della situazione economica o ci sono problemi strutturali? Per salvare il processo di unificazione ha senso creare un’Europa a più velocità?
La risposta alla prima domanda è semplice. La crisi del processo di integrazione europea era inevitabile. All’inizio sono stati colti i benefici più significativi, che potevano essere ottenuti con cessioni molto limitate della sovranità nazionale: la libera circolazione di persone, beni e capitali. Non a caso questa fase avvenne con ampio consenso delle nazioni coinvolte.
Poi venne la moneta unica. Il beneficio immediato (più bassi tassi di interesse) sembrava sovrastare qualsiasi costo futuro in termini di perdita di sovranità e in molti (forse troppi) saltarono sul carro. Ora però, per continuare a beneficiare della moneta comune è necessario creare dei meccanismi di condivisione del rischio durante le crisi: quali un’assicurazione europea contro la disoccupazione.
Perché questo possa avvenire politicamente, però, ci vuole innanzitutto un’identità di popolo. È già difficile rinunciare ai propri soldi per aiutare il prossimo. Diventa pressoché impossibile quando questo “prossimo” ci appare diverso (per tradizioni, lingua o religione). Tanto più diversa da noi è una persona in difficoltà, tanto più facile è trovare una giustificazione per non aiutarla: non se lo merita, è pigra, ecc. Lo stesso vale per i Paesi. Dati alla mano i greci lavorano di più dei tedeschi, eppure questi ultimi giustificano il loro rigore con la pigrizia greca.


PER GLI STATI UNITI è stato più facile: hanno potuto cementare la loro identità di nazione per quasi 150 anni prima di introdurre un sistema di welfare durante il New Deal. Per giunta la Grande Depressione colpì tutti gli Stati indifferentemente: se la Depressione fosse stata limitata solo al Sud, le tensioni della guerra civile sarebbero probabilmente riesplose come riesplodono oggi in Europa le divisioni ed i risentimenti della Seconda guerra mondiale.

La crisi economica (per di più asimmetrica) che ha colpito l’Europa ha solo innescato delle contraddizioni che erano intrinseche al processo di unificazione. Se una ripresa potrà attenuarle, non riuscirà mai ad annullarle. Proprio per questo veleggia l’ipotesi di uno scatto in avanti. Se non c’è consenso tra tutti i paesi dell’Ue per una maggiore integrazione, perché non tentare con un’Europa a due velocità?


SAREBBE MOLTO FACILE per la Germania integrarsi maggiormente con i paesi satelliti, dall’Olanda all’Austria, dal Belgio alla Finlandia; e dal punto di vista economico questo esperimento potrebbe servire da esempio per gli altri. Ma creerebbe due grossi problemi politici. Senza la Francia (che non è pronta né economicamente né politicamente per un salto del genere), il gruppetto assomiglierebbe pericolosamente a un Quarto Reich. Inoltre se l’esperimento riuscisse, le successive estensioni non sarebbero adesioni ma annessioni. L’avanguardia europea trasformerebbe il processo di unificazione europea in una egemonia totale della Germania.

Purtroppo non ci sono scorciatoie: se vogliamo salvare l’ideale europeo è necessario creare una coscienza europea. Ma è impossibile formarla fintantoché l’Europa è gestita dai capi dei governi nazionali e non da un governo comune europeo. Il vero deficit di cui si deve preoccupare l’Europa è quello di democrazia.