Dal rifiuto o dall’accettazione dei migranti misureremo se un progetto unitario è ancora fattibile. Dopo che le crisi dovute a euro, Ucraina, terrorismo e profughi hanno sfigurato il volto della casa comune. E solleticato gli egoismi
L’Europa è finita? Prima di rispondere a questa domanda bisognerebbe stabilire quando l’Europa è cominciata. Provando a farlo, scopriremmo che di Europe ce ne sono quanti sono gli europei, i quali da sempre coltivano rappresentazioni diverse riguardo alle sue origini e alle sue forme. Se chiedessimo a ognuno degli abitanti dell’estremità occidentale della massa eurasiatica - quell’esigua penisola fra Atlantico e Urali che la geografia russa volle battezzare Asia Anteriore - di disegnare la sua carta mentale dell’Europa, ne trarremmo un’immagine assai variegata. Contraddittoria.
Qui, dove oggi si accalca un decimo dell’umanità (circa 700 milioni di anime, ucraini e russi inclusi) divisa in una cinquantina abbondante di Stati, alcuni dei quali virtuali (vedi Bosnia-Erzegovina o Moldova), spezzati dalla guerra (Ucraina) o forse in gestazione (Scozia, Catalogna), riesce arduo rintracciare un’idea di appartenenza comune. In nessun altro continente troviamo tante frontiere in così poco spazio.
Potremmo quindi tagliar corto: l’Europa non esiste, né è mai esistito uno Stato Europa. Perderemmo così di vista il fatto storico, altrettanto inconfutabile, che questo continente indefinito ha prodotto e continua a produrre profonde idee di sé, che tuttora ne segnano il dibattito pubblico. Se l’Europa non esiste è perché esistono troppe Europe. E nessuna riesce a prevalere sulle altre. Per comodità di ragionamento, ricordiamone solo tre. La prima è idea: l’Europa-civiltà, quella disegnata nel Settecento dagli illuministi come orizzonte delle libertà e dello spirito moderno. La seconda è storia: l’Europa-potenza, quella degli imperialismi otto-novecenteschi, che sui planisferi campiva immensi spazi coloniali con i colori delle sue principali nazioni, proiettate oltremare a compiere la propria “missione civilizzatrice”. La terza è in corso: l’Unione Europea, prolungamento delle Comunità sorte negli anni Cinquanta per effetto del suicidio dell’Europa-potenza nelle due guerre mondiali. E, almeno sulla carta dei suoi illeggibili trattati, è anche autoproclamata erede dell’Europa volterriana, quella dei “valori europei” intesi come valori universali.
A una sommaria diagnosi, il bollettino medico segnala oggi la sofferenza della prima, la scomparsa della seconda e lo svuotamento della terza. La quale ultima era stata concepita dai suoi padri fondatori per riscattare l’Europa-civiltà distrutta dall’Europa-potenza nella guerra civile del 1914-45. E per surrogare l’influenza di quest’ultima in un mondo dominato per la prima volta da una superpotenza extraeuropea, gli Usa, inizialmente contrastati da un rivale semieuropeo, l’Unione Sovietica. Per quasi mezzo secolo, l’Europa comunitaria è stata un successo: pace, progresso, benessere diffuso. Soprattutto per noi italiani, orgogliosi di appartenere a una famiglia che avevamo contribuito a fondare e che ci riscattava dai disastri dell’ipernazionalismo fascista. In Italia, fino a ieri il sostantivo Europa era carico di valori positivi: modello cui ispirarsi per riscattare il nostro Stato dal suo cronico deficit di legittimazione e di efficienza. Oggi, ci informano le indagini di Ilvo Diamanti, ci scopriamo più euroscettici degli inglesi. Che cosa è accaduto? In sintesi: l’Europa reale si è svelata nel tempo molto diversa da quella ideale.
Questa Europa reale - l’Unione Europea - ha cominciato a mutarsi nel 1989-91, il biennio che segnò l’esaurimento della Guerra fredda. Dunque dell’Europa occidentale, il cui destino sembrava di annettersi – il gergo ufficiale parlava di “allargamento” – la metà orientale, emancipata dal tallone di Mosca. Quell’ “altra Europa” che molti europei occidentali scrutavano dall’alto in basso, incerti se riconoscervi un parente povero oppure un estraneo. L’ “allargamento”, non ha funzionato. Per almeno tre motivi. Primo: vinta la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno smesso di affaticarsi a tenerci insieme. Secondo: senza il collante strategico a stelle e strisce, i vari Stati europei - e al loro interno alcune regioni che non hanno mai rinunciato all’idea di (ri)crearsene uno proprio, “puro” - hanno scoperto che i rispettivi interessi nazionali, una volta subordinati alla necessità di difendersi insieme, sotto l’ombrello americano, contro la minaccia sovietica, oggi appaiono inconciliabili. Terzo: i Paesi dell’ex Est vivono un’età risorgimentale: hanno recuperato la propria sovranità da Mosca e non hanno fretta di ricederla a “Bruxelles”, se non nella minima misura necessaria a incassarne i finanziamenti con cui hanno ridato tono alle loro economie.
Negli ultimi cinque anni, questa famiglia sempre più vasta e sempre meno coesa ha dovuto affrontare quattro grandi crisi, che ne stanno sfigurando il volto: euro, Ucraina, migrazioni e terrorismo. Nessuna risolta, anche se qualcuna momentaneamente sedata. Ciascuna di queste crisi è una cartina di tornasole che svela il crescente grado di separazione fra i Ventotto. Le architetture dei Trattati restano formalmente in piedi, ma largamente svuotate del loro spirito comunitario. I rapporti di forza prevalgono sulle regole. In parole povere, l’Unione non è più una comunità. Su come affrontare la Russia dopo l’annessione della Crimea e il sostegno ai ribelli del Donbas, ci siamo divisi lungo l’asse Est-Ovest. La fascia orientale dell’Ue, quella che da Svezia e Finlandia, passando per i tre Paesi baltici e la Polonia, si dirama fino alla Romania, riscopre la minaccia russa, cui gli altri soci europei, Germania e Italia incluse, sono meno sensibili. Nelle altre tre crisi la linea di faglia è Nord-Sud. La gestione dell’Eurozona divide le cosiddette “formiche” settentrionali, aggruppate attorno alla Germania, dalle “cicale mediterranee”, Italia in testa. L’emergenza terrorismo è sentita come conseguenza del presunto piano d’invasione da parte del “mondo islamico”, che mirerebbe al cuore dell’Europa ripartendo dai fragili e permissivi Stati del “Club Med”. Legandosi nella mente di molti europei ai flussi migratori che dalla Turchia e dal Nordafrica - attraverso i Balcani e l’Italia - puntano alla Germania e alla Scandinavia.
Delle quattro crisi, la decisiva è quella migratoria. Perché più delle altre ha scatenato gli impulsi xenofobi, dando fiato a formazioni politiche che speculano sulla paura dell’ “altro”. Dove l’altro non è solo il migrante, dietro il quale si sospetta il terrorista, ma anche il vicino europeo. Lo spettacolo è desolante. I singoli Stati dell’Unione Europea cercano di scaricare sul vicino la gestione dei migranti, compresi quei profughi che umanità e diritto imporrebbero di accogliere. Così i britannici vegliano a che i disperati ammassati nella “Giungla” di Calais non varchino la Manica. I francesi si rivalgono su di noi a Ventimiglia. Gli austriaci minacciano di fortificare il Brennero. E noi cerchiamo disperatamente nell’ex Libia qualcuno che faccia, certo non gratis, il lavoro sporco che una volta sbrigava Gheddafi. Con una differenza, di cui forse non siamo abbastanza orgogliosi: l’Italia di vite umane ne ha salvate a migliaia, mentre polizie e persino militari di alcuni soci europei accoglievano a bastonate chi si affacciava sulla soglia delle barriere frettolosamente erette per impedirne il passaggio.
Non c’è alternativa. Se vogliamo ridare senso e dignità a questa Unione Europea, dobbiamo affrontare insieme, dividendo costi e vantaggi delle migrazioni - sì, ci sono anche i vantaggi, basti dare un occhio alla nostra decadente demografia, che nello spazio dei Ventotto non ci permetterebbe di sostenere il welfare senza l’afflusso di due milioni d’immigrati l’anno. E se proprio vogliamo individuare un criterio decisivo per stabilire chi sia o meno europeo, dove cominci e dove finisca l’Europa, allora valutiamoci per come reagiremo alla sfida migratoria. È dal rifiuto o dall’accettazione di chi bussa alla porta che potremo misurare la possibilità di rilanciare un progetto europeo degno di tanto nome.