Un duplice omicidio e una strage lontani per luoghi e modalità di esecuzione. Ma con dei punti in comune che mettono in evidenza come i cosiddetti "lupi solitari" non siano affatto soli, ma facciano parte di una rete sociale

Prima Orlando, poi Parigi. A distanza di poche ore dalla strage compiuta in Florida da Omar Mateen nel nightclub gay Pulse, Larossi Abballa, 25 anni, nazionalità francese, ha ucciso nella loro casa di Magnanville, 55 chilometri da Parigi, una coppia di funzionari del ministero dell'Interno, lui - Jean Baptiste Salvaing, 42 anni - comandante di polizia, lei segretaria amministrativa.

Lontani geograficamente e per modalità di esecuzione, i due attentati sono accomunati da un elemento: sia Omar Mateen, nato a New York, che Larossi Abballa, nato a Mureaux ma residente a Mantes-La-Jolie, prima di condurre gli attacchi hanno dichiarato fedeltà allo Stato islamico, il gruppo terroristico che ha conquistato importanti aree della Siria e dell'Iraq, trasformandole in un Califfato.

Omar Mateen lo ha fatto telefonando alla polizia locale per definirsi seguace dello Stato islamico. Larossi Abballa, già condannato per «associazione a delinquere allo scopo di preparare attività terroristiche», lo ha fatto invece in diretta, postando alcune foto e una rivendicazione sull'applicazione Facebook Live. Il messaggio video di 13 minuti del francese comincia con un atto di fedeltà verso Abu Bakr al-Baghdadi, il leader dell'Is, l'uomo che dal pulpito della moschea al-Nuri di Mosul nell'estate del 2014 si è autoproclamato Califfo.

Il fatto che Larossi Abballa abbia dichiarato subalternità al leader del gruppo, e non genericamente all'organizzazione, sembra dimostrare che l'uomo poi ucciso dal raid delle forze speciali francesi conoscesse i protocolli di "affiliazione" al movimento jihadista, che avesse dunque dimestichezza con i codici stabiliti dal Califfo per simpatizzanti e aspiranti combattenti.

Il video prosegue con un appello a uccidere poliziotti, guardie carcerarie, giornalisti, personalità pubbliche (elencate per nome) come chiesto «dallo sceicco Adnani».

Lo sceicco a cui si riferisce Larossi Abballa è Abu Mohammad al-Adnani, il portavoce dello Stato islamico, la "voce" del gruppo, l'uomo che mobilita, invoca attentati, suggerisce la rotta da seguire. Nel settembre 2014, al-Adnani ha contribuito a modificare la strategia dell'Is. Fino ad allora, lo Stato islamico ha seguito prevalentemente le coordinate segnate dal "padre spirituale" del movimento, Abu Musab al-Zarqawi, il jihadista giordano fondatore di al-Qaeda in Iraq. Per al-Zarqawi era prioritario combattere il "nemico vicino" prima ancora che il "nemico lontano": gli altri gruppi militanti sunniti che si opponevano al suo progetto, e ovviamente gli sciiti, prima ancora che gli americani o gli altri governi occidentali. Per il suo "successore", Abu Bakr al-Baghdadi, compito primario dello Stato islamico è combattere la corruzione morale e materiale dei regimi arabi - il "nemico vicino" appunto -, purificare la comunità islamica, eliminare l’idolatria (shirk), affermare l’unicità di Dio (tawhid), attaccando gli sciiti e le altre minoranze religiose.

A partire dalla metà del 2014, lo Stato islamico sembra aver compiuto un'evoluzione strategica, aggiungendo un "elemento globale" - attacchi diretti a obiettivi occidentali, in Occidente – alla tradizionale campagna locale, per la sconfitta del nemico vicino e la conquista e la gestione dei territori del Califfato. Da qui, la dichiarazione del portavoce del gruppo, al-Adnani, che in un discorso del 22 settembre 2014 si rivolge ai simpatizzanti in Occidente: «Potete uccidere... qualunque miscredente che sia tra i Paesi che hanno dichiarato guerra, inclusi i cittadini dei paesi che sono entrati in coalizione contro lo Stato islamico, potete ucciderlo, affidandovi ad Allah, e ucciderlo in qualunque modo. Non chiedete consigli e non cercate il giudizio di nessuno. Uccidete il miscredente che sia civile o militare, perché loro si comportano allo stesso modo».

Un invito ribadito il 23 maggio, con un comunicato rivolto ai seguaci dello Stato islamico affinché colpiscano nel mese di Ramadan l'Occidente, dove «non c’è nessuno che possa definirsi innocente». Nel suo video di rivendicazione postato su Facebook Live, Larossi Abballa sostiene di rispondere proprio alla chiamata alle armi di Adnani: «l'Euro2016 (i campionati europei di calcio, ndr) saranno un cimitero», afferma.

Le rivendicazioni via Facebook di Larossi sono state segnalate da David Thomson, inviato di Radio France international, autore de Les Francais djihadistes, un libro che restituisce le storie dei «nuovi soldati francesi del jihad». Si chiamano Yassine, Alexandre, Abu Naim, Clémence, Éric, Omar, Souleymane, scrive Thomson, e sono "apprendisti jihadisti": «Gli adolescenti che hanno appreso l'Islam jihadista su internet, lontano dalle moschee, all'insaputa dei loro genitori».

Il libro raccoglie cinquanta storie paradigmatiche. Tranne due casi, sono tutti giovanissimi: tra i 17 e i 28 anni. Larossi Abballa ne aveva 25. Sono tutti nati e cresciuti in Francia, come Larossi, a eccezione di un senegalese residente in Francia e di un belga fiammingo. Metà di loro ha commesso piccoli reati, prima di votarsi alla causa jihadista, l'altra metà è completamente sconosciuta alle forze di polizia. Nessuno di loro ha scoperto il radicalismo nelle moschee o in prigione: «Il loro unico denominatore comune è Internet e la cultura delle reti social che sono arrivate a modificare profondamente il jihadismo francese», nota David Thomson.

È il jihadismo che viaggia su internet, potente mezzo di mobilitazione, reclutamento e propaganda. Lo dimostra il caso di Larossi Abballa, che ha ottenuto visibilità attraverso l'uso di Facebook Live. E lo dimostra il caso del più giovane terrorista del Regno Unito. É un quindicenne (di cui non sono state rese note le generalità) di Blackburn, una città di centomila abitanti a nord-ovest di Manchester. Nell'ottobre 2015 è stato condannato all'ergastolo per terrorismo. Terrorismo virtuale. Era entrato in contatto con un combattente australiano dello Stato islamico, Neil Prakash, nome di battaglia Abu Khaled al-Cambodi, che lo aveva introdotto via internet a Sevdet Besim, un simpatizzante del gruppo. Il quindicenne di Blackburn chiedeva al diciottenne Besim di decapitare un poliziotto durante una parata militare. L'attentato non c'è stato. Il ragazzino di Blackburn però è finito in prigione per "terrorismo virtuale".

Ricondurre la diffusione dell'islamismo salafita jihadista alla viralità di Internet sarebbe però riduttivo. Così come pensare agli attentatori di Parigi e Orlando nei tradizionali termini dei "lupi solitari". Dove sembra esserci soltanto un "lupo solitario", spesso c'è una rete sociale di sostegno, ampia o circoscritta che sia. E in tutti i casi c'è una subcultura condivisa, conosciuta dai singoli terroristi in modo più o meno approfondito, ma comunque assimilata, reinterpretata e tradotta in pratica. «La verità è che il terrorismo non è qualcosa fai-da-te. Come ogni altra forma di attivismo, è altamente sociale», spiega il giornalista Jason Burke in The New Threat from the Islamic Militancy.

«Negli ultimi tre decenni gli sviluppi più importanti dell'islamismo militante non hanno a che vedere con i successi o i fallimenti di un'organizzazione specifica, con la creazione o la distruzione di una particolare enclave in un Paese lontano, né con la conquista di una città o con la perdita di una battaglia, ma con l'emergere, il consolidamento e l'espansione di ciò che potremmo definire il movimento dell'islamismo militante».

É questo ciò che rende preoccupanti i fatti di Parigi e Orlando, al di là che siano stati soltanto ispirati o diretti dallo Stato islamico: il fatto che la propaganda jihadista, coltivata negli anni attraverso una capillare rete di strumenti di comunicazione, abbia creato una vera e propria sub-cultura. Si tratta della diffusione di un certo milieu culturale, di una particolare lingua franca internazionale, di una vera e propria «comunità globale» che condivide lingua, stili di vita, piattaforme mediatiche, pensieri, rancori e obiettivi. All'insegna dell'islamismo militante, armato. Un’ideologia spesso confusa.

Omar Mateen, per esempio, sembra che in passato abbia dichiarato di sostenere sia al-Qaeda sia lo Stato islamico. Gruppi non soltanto diversi, per orientamenti strategici e dottrinari, ma antagonisti, nel mercato del jihad contemporaneo, per assicurarsi egemonia, reclute e finanziamenti, dopo che all'inizio del 2014 si è verificata la rottura formale tra Abu Bakr al-Baghdadi e il numero uno di al-Qaeda, l'egiziano Ayaman al-Zawahiri.

Dal canto suo anche Larassi Abballa, l'autore dell'attentato di Parigi, era stato condannato nel 2013 per attività di reclutamento di aspiranti jihadisti da inviare in Pakistan e Afghanistan. Un'area, quella al confine tra i due paesi asiatici, su cui al-Qaeda vanta un'ipoteca da anni, e che lascerebbe intendere una sua adesione, quanto meno indiretta, al gruppo fondato da Bin Laden. Pochi anni dopo, Larassi Abballa ha ucciso due persone rivendicando l'affiliazione allo Stato islamico. Un cambiamento che indica quanto sia diventata fluida, più di prima, la subcultura jihadista. Spesso le questioni di appartenenza e affiliazioni, fondamentali per i leader dei gruppi terroristici, sono secondarie per i simpatizzanti, soprattutto in Occidente. L'importante, per loro, è condurre il jihad nel cuore della terra degli infedeli.