La tranquillità dell'investimento in questo periodo di alti e bassi è diventata la priorità per coloro che hanno della liquidità. E secondo l'ultimo studio centro Einaudi e Intesa Sanpaolo tornano gli appetiti sul mercato immobiliare

mutuo, casa
Benvenuti nell'era dell'investimento in perenne stato di terremoto, in cui le scosse del mercato sono una routine, e pochi credono davvero che arriverà il "big one", cioè la scossa disastrosa. Scriveva così, qualche giorno fa sul "Financial Times", Michael McKenzie. Che cosa potrebbe fare la parte del big one nell'interpretazione dell'autore? L'improvvisa fine dell'austerity, e l'adozione collettiva (spinta anche dal populismo trionfante in politica) di stimoli fiscali (leggi: spesa pubblica).

Questo perché tutte le strategie di investimento impostate fin qui con la politica dei tassi sottozero risulterebbero superate: la caccia al rendimento che ha mosso il denaro verso titoli con dividendo e bond a lunga scadenza (con un recente ritorno sulle obbligazioni dei mercati emergenti), sarebbero improvvisamente invecchiate, innescando una fuga collettiva a comprare piuttosto titoli "ciclici". Di qui, appunto, un terremoto.

Vallo a dire ai redditi schiacciati dalla crisi che la fine dell'austerity è una minaccia. Ma ammesso che sia un rischio che pende sulla testa di tutti, questo riguarda forse un po' meno la maggioranza dei risparmiatori italiani, almeno stando all'ultimo Rapporto su risparmio e scelte finanziarie appena presentato dal Centro Einaudi e IntesaSanpaolo. Che oltre a dare un identikit degli italiani e i soldi nel 2016, approfondisce un aspetto: quello dell'investimento immobiliare. Segnalando che ci troviamo in un momento ideale, secondo le regole economiche, per tornare a comprare il mattone.

Ma andiamo con ordine.

Che hanno fatto gli italiani in questi frangenti? Se hanno qualcosa da parte, preferiscono la liquidità, tenendo i propri risparmi depositati sul conto, ma non investiti in strumenti finanziari. Come segnala d'altra parte l'ultimo survey dell'Abi (l'associazione bancaria) che registra a fine giugno un aumento dei depositi di 45 miliardi rispetto a un anno fa.

Solo l'8 per cento degli intervistati se le sente di correre il rischio di comprare azioni, o magari giocare sui cambi. Del popolo dei borsini, quello che nel 2003 stava attaccato ai video con l'andamento di Borsa nei foyer delle banche, è sparito: erano allora 32 persone su cento risparmiatori, oggi sono solo 5.

Siamo ancora oggi, dopo anni di crisi, il solito popolo di formiche? In realtà no. Si direbbe piuttosto ci sia stato un ritorno a una mentalità di stampo contadino: difendere il fieno in cascina, se c'è, a tutti i costi. E tagliare i consumi. L'obiettivo "sicurezza dell'investimento", che nel 2011 era un must solo per il 24 per cento dei capifamiglia, oggi è l'incubo del 58 per cento di loro. Cinque anni hanno dunque cambiato in profondo il clima e la visione del futuro.

Questo anche se la percezione della crisi, per gli italiani intervistati nel Rapporto, è che sia ormai dietro le spalle: l'anno scorso un intervistato su due riteneva probabile un peggioramento delle proprie condizioni economiche; oggi sei persone su dieci si aspettano di migliorare il proprio reddito. Resta però molto esile la linea dell'incertezza: in un anno salgono dal 25 al 35 per cento coloro che dichiarano di avere un reddito "appena sufficiente", al confine con quello zoccolo duro del 17 per cento che ha un reddito del tutto insufficiente. Soprattutto, è raddoppiato in due anni il numero di quanti si dichiarano finanziariamente "non indipendenti". Erano il 4 per cento nel 2014, sono più del 9 per cento nel 2016, e sono coniugi (soprattutto donne) e persone che hanno perso il lavoro. Ulteriore testimonianza che la crisi ha spiazzato una fetta sostanziosa della popolazione.

E ha ridotto, ovviamente, la quota di quanti possono risparmiare. Intanto perché la politica dei tassi bassi ha colpito qui più duramente che in altri paesi: secondo uno studio della Bce gli italiani hanno registrato tra il 2008 e il 2015 un calo dei flussi di interessi attivi più che doppio rispetto a quello dei pagamenti, con un impatto negativo sui bilanci familiari. Francia e Germania, invece, danno un risultato di equilibrio. In secondo luogo la possibilità di risparmiare da noi è condizionata non solo dal reddito ma anche da fattori demografici. Cioè dall'invecchiamento delle popolazione.

In questi anni di crisi la generazione dei baby boomers, che fino a ieri lavorava, nel migliore dei casi è transitata nella schiera dei pensionati, nel peggiore in quella dei disoccupati: in ogni modo con reddito in declino. Parallelamente, l'ingresso delle giovani generazioni nel mondo del lavoro è stato molto più faticoso, e il rimpiazzo non c'è stato. Che cosa è successo quindi al reddito familiare? Che mentre nel 2007 la metà dei giovani che vivono in famiglia poteva contribuire al reddito familiare, oggi sono un terzo può farlo. Che i capofamiglia 35-44enni hanno trovato più difficoltà nel far fronte alle esigenze crescenti del nucleo proprio nel momento più delicato. Che, in sostanza, anche se i dati macroeconomici ci hanno detto che siamo usciti dalla recessione, le famiglie non se ne sono ancora accorte. E continuano a comportarsi come se vi fossero ancora totalmente immerse.

Lo dice anche il dato del risparmio. Negli ultimi sedici anni la quota dei risparmiatori è cambiata vistosamente. Erano il 57 per cento della popolazione del Duemila, nel 2007 sono stati sorpassati dai non risparmiatori, che nel 2016 sono cresciuti fino al 60 per cento. Ma i risparmiatori volontari e programmatici sono ancora meno di quel 40 per cento rimasto. Chi ha potuto tenere sotto controllo il proprio bilancio è metterne una quota da parte non era sceso mai sotto il 25 per cento. Quest'anno, per la prima volta, scende sotto il 20 per cento.

Scottati anche dalle vicende che hanno travolto chi ha investito nelle obbligazioni subordinate delle quattro banche fallite l'anno scorso, i risparmiatori rimasti hanno una sola stella polare: sale dal 66 al 74 per cento da un anno all'altro la richiesta di sicurezza dell'investimento. Pazienza se il rendimento non c'è. Il 40 per cento dei capofamiglia pensa che con i tassi zero non ci sia nulla da fare; per il 23 che sarebbe logico chiedere consiglio a un esperto; ma per il 14 che è meglio lasciare i soldi sul conto corrente, per non rischiare. Più della metà, insomma, optano per lo stare fermi e aspettare che passi la nottata.

In questo quadro, il Rapporto mette a fuoco una finestra di opportunità. Quello dell'investimento nel mattone. E sottolinea che ci troviamo in una congiuntura finanziaria particolare: con il 2015 è iniziata un'epoca teoricamente favorevole agli investimenti immobiliari, per il combinato disposto "dei tassi di interesse sui mutui schiacciati dalla politica monetaria, del rendimento nullo o quasi delle attività finanziarie concorrenti e del fatto che il mercato immobiliare ha esaurito la lunga discesa dei prezzi". In pratica, dicono gli autori, "i rendimenti razionalmente attesi sugli investimenti immobiliari realizzati dal 2015 in avanti dovrebbero essere positivi". Sia che si tratti di acquisto per uso proprio, sia che si tratti di acquisto per dare in affitto.

Ma la domanda chiave è: in un periodo di deflazione, cioè di prezzi calanti, ma anche in un contesto economico che rende la prospettiva di aumentare il proprio reddito (individuale o familiare) molto difficile, conviene impegnare una quota tanto importante del proprio patrimonio in un bene come la casa, decisamente "illiquido"? Insomma, come si combina la voglia diffusa di restare fuori dai rischi con quello di rischiare dagli otto ai dodici anni di reddito su un solo bene? L'elemento chiave è l'attesa di una ripresa dei prezzi (oltre che naturalmente dei bisogni individuali, ma allora siamo fuori il puro ragionamento economico). Su questo fronte il clima generale è cambiato (almeno stando al Rapporto): mentre tra il 2012 e il 2016 la quota di persone che intendevano operare sul mercato immobiliare era crollata dal 13 all'8 per cento, ora il periodo del digiuno del mattone sembra finito. Il Rapporto festeggia un 48 per cento del campione che si attende una ripresa dei prezzi, e arriva per questa ragione a stimare che nei prossimi tre anni ci possa essere un ritorno all'acquisto da parte del 19 per cento degli investitori.

Il che vorrebbe dire una domanda di un milione 125 mila abitazioni. Posto che nel 2015 ci sono state poco più di 400 mila compravendite residenziali, saremmo di fronte a un nuovo boom. Vedremo chi si farà sotto.