Secondo i dati del rapporto annuale dello Sprar (Sistema di Protezione per migranti e richiedenti asilo promosso dal ministero dell’Interno) nell’ultimo anno, su 29.698 accolti, sono stati attivati 26mila percorsi formativi. Quasi 21 mila gli stranieri che hanno seguito con continuità corsi di lingua italiana

Rahaman dà lezioni di inglese ai vigili urbani di Caltanissetta. A Bologna, Emmanuel e Yaso realizzano reportage e servizi giornalistici grazie alla collaborazione con due televisioni locali. A Martina Franca, Sahid e Fadil producono audio guide multimediali e inventano applicazioni per il turismo sostenibile. A Milano, Riad lavora come mediatore culturale e interprete a Palazzo di Giustizia.

Inutile prendersi in giro: il percorso che porta all’integrazione è lungo e difficile. Fra progetti che faticano a partire, intoppi burocratici ed evidenti barriere linguistiche, la maggior parte dei migranti in fuga dalle guerre è destinata a perdersi per strada o a proseguire il cammino verso Paesi più promettenti.

Qualcuno che in Italia abbia trovato l’America, però, esiste davvero. I dati dell’ultimo rapporto annuale dello Sprar (Sistema di Protezione per migranti e richiedenti asilo promosso dal ministero dell’Interno) lo confermano: nell’ultimo anno – su 29.698 accolti - sono stati attivati 26mila percorsi formativi rivolti ad altrettanti stranieri che hanno ottenuto la “status” di rifugiato, la protezione sussidiaria o quella umanitaria. Nel corso del 2015, inoltre, sono stati quasi 21mila gli stranieri beneficiari del sistema di protezione che hanno seguito con continuità corsi di lingua italiana.

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Dati positivi anche per quanto riguarda i percorsi professionali: nel 43,2% dei casi sono stati attivati da 1 a 10 tirocini formativi e da 11 a 20 nel 19,9% dei casi. Mentre malgrado la crisi economica oltre la metà dei progetti (55,7%) si è concluso con la realizzazione di fino a 10 inserimenti lavorativi. Complessivamente, nel 2015 sono riusciti a ottenere un contratto di lavoro stabile 1.972 migranti. Soprattutto nel settore della ristorazione e del turismo (60%), agricoltura e pesca (40%), servizi alla persona (30%).

Ma – dicevamo - chi pensa che questa sia una strada in discesa costellata di storie a lito fine sbaglia di grosso. Perché troppo spesso i migranti, delusi e frustrati, decidono di abbandonare il percorso: si calcola che durante lo scorso anno siano uscite dal progetto di accoglienza 11.093 persone. Le istituzioni li perdono di vista e non si sa che fine facciano. Di questi, il 34,5% ha dovuto lasciare perché scaduti i termini di accoglienza indicati dalle linee guida dello Sprar, il 31,6% ha abbandonato volontariamente l’accoglienza mentre il 29,5% si è semplicemente – e fortunatamente – emancipato. Grazie agli insegnamenti ricevuti, quindi, è riuscito a costruirsi una propria opportunità lavorativa.

DAL BARCONE ALLA CATTEDRA

La maggior parte dei profughi che arrivano a beneficiare del sistema di protezione, va detto, possiede già in partenza un grado di scolarizzazione medio alta. Quasi il 26% di loro – si legge nel rapporto – ha un diploma di scuola superiore o specializzazione universitaria, mentre il 22% possiede la licenza media. Per chi è già abituato a studiare e ha una buona istruzione alle spalle, infatti, tonare sui banchi a imparare una lingua e una professione risulta più facile. E poi c’è l’esperienza pregressa. Un patrimonio dal quale attingere per creare un bacino di professionisti che si mettano a servizio della società e, al tempo stesso, riescano a costruirsi un futuro.

“Il processo di autonomia socio economica – spiegano dallo Sprar – si consolida non solo attraverso la conoscenza del territorio, l’apprendimento della lingua italiana e l’acquisizione di nuove competenze professionali ma anche soprattutto con il recupero dei propri background lavorativi e formativi”. Va da sé, dunque, che chi nel proprio Paese d’origine lavorava come ingegnere verrà impiegato nel ramo tecnologico o di alta precisione. O che i docenti vengano utilizzati nell’insegnamento.

Come è successo a Caltanissetta. Dove due esigenze si sono incontrate: il comandante dei vigili urbani aveva urgenza e necessità di istruire i propri uomini perché fossero in grado di fornire informazioni stradali in inglese alle centinaia di turisti che ogni anno affollano l’assolata città siciliana. Rahaman, insegnante pakistano, aveva la voglia e la competenza per poterlo fare. E così pennarello e lavagnetta alla mano, dopo aver ottenuto il consenso del Comune, il docente si è trovato di fronte venti allievi in divisa. Con pazienza ed esperienza è riuscito non solo a impartire ai vigili i primi rudimenti necessari, ma gli alunni d’eccezione sono rimasti talmente soddisfatti del loro nuovo insegnante che il corso d’inglese è stato prolungato con entusiasmo fino a oggi.

MIGRANTI 2.0

E poi c’è chi – pur non avendo particolari esperienze pregresse - l’attitudine al digitale ce l’ha nel sangue. Attraverso il progetto #Sullevenedellapuglia a Martina Franca, provincia di Taranto, un gruppo di rifugiati si è messo alla prova e ha superato ogni aspettativa creando audio guide multimediali e multilingue che spiegano e valorizzano le bellezze locali, come l’Acquedotto Pugliese, la più grande opera di ingegneria idraulica in Europa.

Coordinati da una guida turistica della Regione Puglia e opportunamente formati sulla storia del paesaggio culturale locale e sui sistemi di data entry, sono stati gli stessi rifugiati a raccogliere, elaborare, tradurre e rendere consultabili su un’applicazione i file audio, le descrizioni e le immagini video che parlano della storia e della bellezza del territorio. Il tutto corredato da fotografie scattate da loro stessi. Le guide, che si trovano su una piattaforma online di storytelling, sono state ovviamente tradotte dai migranti nelle rispettive lingue.

La multimedialità è anche al centro del laboratorio di giornalismo “temporary journalist” di Bologna. Qui un gruppo di rifugiati ha invertito le parti: da protagonista dalla cronaca è diventato produttore di cronaca. Attraverso una collaborazione con due televisioni locali (la TRC di Modena e l’emiliana Nettuno tv) che prevede il quotidiano scambio di informazioni con i giornalisti professionisti della redazione, i migranti hanno realizzato interviste e reportage cercando di sfatare i luoghi comuni che li riguardano ed entrando direttamente nelle case dei telespettatori. Il risultato è stato sorprendente: i cittadini hanno chiamato in redazione per congratularsi dell’originale iniziativa.

LE OPERE D’ARTE? CI PENSANO I RIFUGIATI

Il problema è noto: il patrimonio artistico del nostro Paese potrebbe fruttare milioni di euro all’anno se non fosse trascurato e maltrattato per mancanza di manodopera. E la manodopera italiana arriva soprattutto dagli stranieri. A Capua qualcuno ha messo in pratica questa equazione. E così, in questa città archeologica piena di storiche bellezze, nel 2014 è stato avviato un laboratorio per rifugiati e richiedenti asilo che prevede lo studio di tecniche di restauro di mobili antichi attraverso attività preliminari, che vanno dalla ripulitura e ai trattamenti anti tarlo fino alle vere e proprie forme di restauro. Il laboratorio all’inizio era itinerante, mentre oggi vanta una sede fisica e coinvolge sei richiedenti asilo provenienti dal Pakistan, dal Camerun, dalla Nigeria e dalla Guinea Bisseau che sono affiancati da un operatore dello Sprar, da un esperto in tecniche di restauro e conservazione e dal titolare di un’azienda del settore. Oltre ai mobili, i migranti si occupano anche del restauro delle chiese antiche della città e delle strutture dello stesso Comune di origini etrusche.

Sempre nella cittadina campana, i rifugiati partecipano regolarmente alle attività di sensibilizzazione nelle scuole del territorio, durante le quali non solo raccontano ai ragazzi le proprie esperienze ma illustrano cos’è un progetto di accoglienza e cosa prevede.

RINASCERE CON LA MUSICA

Alaa, 30 anni, quando è arrivato in Italia aveva solo due cose in mano: il suo violino e il passaporto di un Paese che non esiste più. Apolide e poliglotta, sta aspettando che l’iter burocratico per il riconoscimento della sua condizione di rifugiato politico arrivi al termine, ma il cammino si annuncia lungo e tortuoso. In Siria, nella provincia di Daraa, la sua famiglia gestiva un caffè dove si suonava a tutte le ore del giorno e si organizzavano mostre d’arte. Cosa non particolarmente gradita ai miliziani di Assad, che hanno dato fuoco al locale. Alaa ama i romanzi di Dostoevskij, suona le sinfonie di Schubert, Chopin e Beethoven. E così, dopo l’esilio forzato in Libano, in Italia ha cercato di mettere a frutto le sua capacità. Dopo un periodo al Centro di Ricerca per la Comunicazione Fabrica di Treviso, oggi fa parte di gruppo di musicisti che sperimenta la commistione fra musica e poesia e programma tournè in Italia e all’estero. A Milano, Alaa sta anche progettando di far nascere un centro culturale che riunisce artisti siriani, italiani e libanesi e che sarà battezzato “Alpha”.

E poi c’è chi ha messo a disposizione la sua competenza per aiutare e mettere in salvo altri profughi che, come lui, hanno raggiunto l’Italia in condizioni disperate a bordo delle “carrette del mare”. E’ il caso di Tarek, pure lui siriano, in grado di parlare perfettamente italiano e inglese, che oggi lavora con profitto per la rete Frontex, l’agenzia europea che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne aeree e marittime per la riammissione degli extracomunitari respinti lungo le frontiere. Anche Riad, originario di Damasco, ha imparato l’italiano a tempi di record. Oggi pure lui è riuscito a ricostruirsi una vita: lavora come mediatore culturale e ha il delicato ruolo di interprete per il Tribunale di Milano

Il settore dove trova impiego la maggior parte dei richiedenti asilo, però, si conferma quello della ristorazione. Per esempio Hammar, yemenita, attualmente lavora con profitto in un ristorante di cucina greca a Milano. Mentre Abu, 19 anni, originario del Mali, dopo un tirocinio al bar dell’ospedale Fatebenefratelli a settembre sarà definitivamente assunto. “La forza di volontà di questi ragazzi è immensa – spiega Susy Iovieno presidente dell’associazione Sos Emergenza Rifugiati Milano – il problema però subentra quando, a causa della mancanza di fondi da parte delle istituzioni, i percorsi formativi finiscono. E’ allora che rischiano di ritrovarsi in mezzo a una strada”.

BORSE DI STUDIO A PAVIA

Fra i profughi in cerca di un futuro ci sono anche molti ragazzi. I più giovani si sono messi in marcia ancora prima di iniziare un percorso scolastico, mentre gli altri hanno dovuto interrompere gli studi perché le loro scuole e università sono state distrutte. Si calcola infatti che il 42,2% dei rifugiati beneficiari dei programmi di accoglienza abbia fra i 18 e i 25 anni.

Piena età universitaria, dunque. Ecco perché è stata avviata una collaborazione con alcuni atenei che hanno aperto le proprie porte agli stranieri meritevoli per permettere loro di perfezionare la propria istruzione. E’ il caso dell’Università di Pavia, che in collaborazione con la Fondazione Cittalia – Anci e con il servizio centrale dello Sprar ha destinato 14 borse di studio a giovani rifugiati selezionati per merito e capacità sulla base della conoscenza della lingua italiana e inglese.

Gli studenti, oltre al vitto e all’alloggio in collegi convenzionati con l’università, possono ovviamente accedere alle biblioteche e alle sale informatiche della struttura. Al momento i posti già occupati sono otto. Ognuno arriva da un diverso Paese martoriato dalla guerra: Afghanistan, Togo, Iran, Gambia, Camerun e Libano. Hanno scelto perlopiù facoltà scientifiche, come Ingegneria. Fra loro c’è un’unica ragazza, originaria dell’Ucraina, che si è iscritta a Scienze della Comunicazione.

Si trovava già in Italia con un permesso umanitario quando ha saputo che la sua casa era stata data alle fiamme durante uno degli ultimi conflitti fra ribelli e filorussi. Adesso l’iniziativa pavese promette presto di allargarsi anche ad altre università. Anche se qui l’altruismo o la carità cristiana c’entrano ben poco. La visione è molto più pragmatica e a lungo termine.

“Formare persone competenti e preparate utilizzando la loro intelligenza- spiegano dall’ateneo lombardo – per loro è una strada verso la salvezza, per noi è un investimento”.