Il ricercatore trovato ucciso un anno fa annotava tutti gli sviluppi del suo lavoro. E dal documento emergono nuovi dettagli su chi lo voleva morto
Giulio Regeni aveva un diario. Lo scriveva sul suo pc. Sono considerazioni e analisi delle sue giornate al Cairo. Il testo ha un carattere 9, giustificato, scritto in un ottimo inglese. Giulio ha annotato così in dieci report sensazioni, perplessità, aspetti umani e professionali delle persone conosciute nell’ambito della ricerca che svolgeva in Egitto. Per ogni incontro una, al massimo due cartelle in cui focalizza la sua attenzione su una decina di ambulanti incontrati in tre diversi mercati, sulle loro condizioni sociali, economiche e sindacali. Una copia è tra le carte dell’inchiesta della procura di Roma, un’altra nelle mani della famiglia. In quei file, scritti tra il 29 ottobre e il 18 dicembre 2015, c’è Giulio, il suo rapporto con i venditori di strada, i suoi interrogativi su cosa pensassero di lui e su quanto quel metodo dell’osservazione partecipata potesse influenzare i loro comportamenti.
Li ha scoperti il pubblico ministero Sergio Colaiocco analizzando il Mac portatile ritrovato, nella stanza dove viveva, dai genitori accorsi al Cairo pochi giorni dopo aver appreso la notizia della scomparsa. In quella stanza, nel quartiere di Dokki, il figlio passava ore a studiare, a programmare le attività, a riflettere sugli sviluppi della ricerca.
Le note dicono molto sull’ambiente in cui è maturato il sequestro. Ci raccontano il quotidiano, la curiosità nella conoscenza di esperienze apparentemente distanti, ma in quel momento vicine, l’evoluzione di un rapporto di fiducia che Giulio considerava basilare per un arricchimento umano. Lunghe chiacchierate a sorseggiare del tè offerto dai venditori e lui che, per ricambiare la gentilezza, si sente fin da subito in dovere di portare i pasticcini. Ogni sera accende il suo computer e scrive di un clima sereno: dopo qualche incontro finiscono a parlare come amici di mogli e fidanzate. Giulio osserva con attenzione le merci disposte per strada, le luci accese, si interessa alle tecniche utilizzate per la vendita. Da una parte braccialetti, dall’altra vestiti. Annota di chi tiene d’occhio il banco dell’altro quando va in moschea a pregare e si offre di dare una mano. E, tra un cliente che si ferma e un altro che cerca di spuntare un prezzo più basso, può succedere di tutto. Una sera, l’attenzione del giovane ricercatore viene richiamata da un ragazzino. Non si regge in piedi. In mano ha una bottiglia di colla da sniffare. Il venditore che gli sta accanto, smette di parlare e decide di intervenire. Afferra la bottiglia, la butta via e rimprovera il ragazzo. Quella sera, quando ritorna nella sua stanza, Giulio trascrive stupito quell’episodio.
Gli ambulanti sembrano aver fiducia in lui e toccano anche argomenti importanti: le difficili condizioni economiche, la scarsa possibilità di influenzare le scelte dello Stato in merito ai loro diritti. Parlano di piazza Tahrir, di quei giorni d’inverno del 2011 quando un milione di persone si erano radunate per gettare le basi di una rivoluzione mai concretizzata. Giulio annota tutto sul suo diario.
Un tardo pomeriggio, non appena si fa buio, al mercato irrompe la polizia. Un uomo dal fondo della strada grida: «Baladia» (una sorta di municipale ndr). È il 29 ottobre. Tutti spengono le luci, raccolgono in fretta le merci e scappano, hanno paura della confisca e di finire in prigione. Giulio segue i venditori nella fuga. Trovano riparo dentro la moschea dietro l’angolo. Si muovono secondo un copione. È qualcosa che succede spesso. Anche più volte al giorno. Giulio descrive quella difficile convivenza tra ambulanti e polizia. Qual è la necessità di un controllo così invasivo? Perché essere costretti a scappare?
[[ge:rep-locali:espresso:285256331]]Regeni frequenta gli ambulanti per realizzare la sua ricerca di dottorato all’università di Cambridge. Arriva al Cairo a settembre 2015 e, attraverso la American University of Cairo, entra in contatto con il Centro egiziano per i diritti economici e sociali (Ecesr). Qui incontra Hoda Kamel Hussein, la responsabile dei dossier in materia di lavoro esperta in campo sindacale, che lo aiuta nei contatti. È lei a presentargli alcuni venditori e sindacalisti, tra i quali Mohamed Abdallah. L’uomo che l’ha poi tradito e consegnato nelle mani dei carnefici.
La prima volta si conoscono nella sede del Centro che oggi rischia di chiudere a causa di una legge che limita le attività delle associazioni per la difesa dei diritti umani. È il 13 ottobre 2015. Si vedranno altre sei volte. Abdallah, a capo del sindacato autonomo degli ambulanti e con un passato da giornalista di tabloid, mette a verbale davanti ai magistrati egiziani: «Mi ha chiamato Hoda per dirmi che c’era un ricercatore che stava facendo un dottorato, mi ha chiesto di incontrarlo per vedere come aiutarci a vicenda». Ne segue una lunga intervista registrata, cui prende parte anche Hoda. Abdallah risponde alle domande di Giulio raccontando la composizione del sindacato, il programma, le quote associative, la mancanza di una pianificazione delle aree dedicate. E poi il blocco imposto dal ministero del Lavoro per le iscrizioni, le garanzie sociali inesistenti, le leggi e i regolamenti sul lavoro emananti da Abd al-Fattah al Sisi che hanno determinato un aumento delle tasse e dei prezzi aggravando le condizioni dei venditori e dei più poveri.
Passa oltre un mese e mezzo prima che si rivedano. Abdallah lo motiva così alla procura del Cairo: «Mi ha chiesto di accompagnarlo ai mercati, di fargli conoscere altri ambulanti. Io mi sono rifiutato perché era uno straniero». Eppure l’8 dicembre inspiegabilmente acconsente e cerca Giulio che già da fine ottobre frequenta i mercati, conosce altri venditori. Un cambio di posizione che appare strano, considerando che i primi contatti di Abdallah con la Polizia a cui segnala Regeni «come un ragazzo che faceva troppe domande», perché è «illogico che un ricercatore straniero si occupi dei problemi degli ambulanti se non lo fa il ministero degli Interni», sono nebulosi.
Si vedono al calar della sera di quel giorno al mercato di Ahmed Helmy, un’area adibita a parcheggio vicino alla stazione. Di quell’incontro ci sono due versioni. Giulio rimane sorpreso del ruolo e delle capacità di leadership di Abdallah. I venditori lo salutano, lo omaggiano, discutono delle loro condizioni. Abdallah racconta la storia dei sindacati in Egitto, parlano del loro ruolo fondamentale nella costruzione di una democrazia e consegna al giovane ricercatore documenti, articoli di legge, persino una mappa con un piano di trasferimento del mercato nel centro del Cairo con tanto di spazi adibiti per regolarizzarli. Abdallah però aveva preparato tutto, sceneggiato in ogni dettaglio quella visita. «Siccome non mi fidavo», spiega agli inquirenti cairoti «prima di andarlo a prendere alla stazione Ramses ho fatto un giro e ho detto di stare attenti a quello che dicevano, di non farsi coinvolgere in discussioni con lui. Avevo spiegato di non fare commenti, di lasciare fare a me».
Qualche giorno dopo, l’11, Giulio lo incontra alla Casa dei servizi sindacali e del lavoro. È in corso l’assemblea in cui i sindacati indipendenti discutono sul futuro e sulle azioni da intraprendere per contrastare le politiche di Al Sisi. Nel suo intervento Abdallah sottolinea il ruolo dei venditori di strada nello sviluppo del tessuto commerciale del Cairo, tanto che Ahmed Helmy è il primo mercato pubblico in Medio Oriente alimentato da energia solare. Lamenta la mancanza di comunicazione tra venditori e sindacati indipendenti e dichiara il supporto dei venditori ai sindacati indipendenti nell’ipotesi della creazione di una loro federazione. È proprio durante quell’assemblea che Giulio si accorge di essere fotografato.
Passa una settimana. L’appuntamento è di nuovo al mercato, ma tutto è cambiato. Giulio scopre chi è Abdallah. Quel personaggio oscuro si tradisce, il suo unico interesse sono i soldi. Giulio gli consegna un foglio tradotto in arabo che descrive il progetto della Fondazione inglese Antipode: offre contributi fino a 10 mila sterline per la promozione e lo sviluppo di ricerche in materie sociali. Giulio ragiona su come ottenere una sovvenzione, condivide l’idea anche con Hoda, ma ad Abdallah poco importa del progetto, vuole quel gruzzolo tutto per sé. Per questo è una «miseria umana». Ai magistrati del Cairo, che l’hanno sentito a febbraio, aprile e maggio scorsi, sostiene di far risalire a quell’incontro «di natura politica» il suo cambio di opinione: «Ho iniziato ad avere i primi dubbi e anche un altro venditore Saied mi ha chiesto: perché l’hai portato, non lo voglio incontrare. Mi risultava sospetto che potesse ottenere soldi per noi da parte di un paese straniero».
Abdallah è l’uomo delle bugie, pronto a cambiar versione a seconda della piega delle indagini. Dice di aver incontrato Giulio «più di dieci volte», poi «solo sei», assicura di non essersi rivolto alla polizia: «Non sono una spia. Anche se dovessimo trovare un cadavere, ci gireremmo dall’altra parte» salvo poi dichiarare con orgoglio e amor di patria all’Huffington Post edizione araba: «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni, ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso. Noi collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro».
Dalle informazioni fornite alla procura di Roma Abdallah segnala Regeni a due poliziotti della municipale proprio il 18 dicembre, dopo il loro incontro al mercato. Il giorno dopo Giulio torna a casa per le vacanze. Farà rientro al Cairo il 4 gennaio. Abdallah in quel periodo si dà da fare e i suoi contatti con la polizia si intensificano: riferisce a ben cinque ufficiali superiori della Sicurezza Nazionale, il Servizio segreto interno egiziano.
[[ge:rep-locali:espresso:285256847]]Quando Giulio rientra si affretta a chiamarlo, probabilmente sollecitato proprio dalle forze di sicurezza e fa di tutto per incontrarlo al mercato di Ahmed Helmy il giorno dell’Epifania. Abdallah arriva preparato, indossa una telecamera nascosta. Inquadra ogni movimento. Il video, che dura circa due ore, lo registra mentre passeggia, si guarda attorno, osserva. Poi, dopo circa un’ora arriva Giulio. Per cinquanta minuti Abdallah in arabo lo incalza, lo provoca, tenta in ogni modo di portare il discorso sul progetto della Fondazione Antipode. Si vede Giulio inquadrato dal basso che risponde a malapena, diventa vago e sfuggente davanti a quell’uomo di cui ha ben compreso l’interesse economico. Al procuratore generale d’Egitto Ahmed Nabil Sadek, Abdallah rivela: «Quel video l’ho consegnato alla Sicurezza Nazionale, sono stati loro a chiedermelo». Di contro i servizi egiziani ammettono di averlo ricevuto ma non richiesto e sostengono che Abdallah s’è dato da fare autonomamente per trovare e far funzionare quell’attrezzatura. E poi, ad allontanare da loro i sospetti, sottolineano che in ogni caso Regeni rifugge dal parlare di soldi, quindi per loro non ha alcun interesse.
Insomma smettono di spiarlo. Avevano anche detto di aver effettuato accertamenti sul giovane dopo l’esposto del sindacalista, ma «solo tre giorni» a inizio gennaio, e si era tutto concluso con un nulla di fatto. Eppure da una recente analisi dei tabulati telefonici di Abdallah, effettuata dai nostri investigatori di Ros e Sco, i rapporti tra lui e la Sicurezza Nazionale non sono cessati alla consegna del video. Il 7, l’8, il 9 e poi l’11 e il 14 gennaio si sentono.
Utilizzando un sistema di utenze esclusive i nostri investigatori individuano cinque numeri che entrano in contatto con Abdallah solo in quel periodo. Sono numeri che rispondono alla sede centrale della Sicurezza Nazionale a Nasr City. Abdallah ormai sempre più chiuso nell’angolo delle sue menzogne conferma quei contatti e anzi si compiace di essere stato ringraziato. «Erano molto interessati per le informazioni che avevo fornito alla vigilia del 25 (il giorno del quinto anniversario della Rivoluzione
ndr)». Informazioni preziose nel contesto generale di paranoia in cui è immerso l’Egitto di al Sisi. Un regime che ha limitato la libertà delle persone, reprime il dissenso, usa la tortura, le sparizioni forzate. Abdallah riceve l’ordine di non chiamare Giulio e di aspettare. Giulio si fa risentire il 22 gennaio alle 20:56 e poi alle 21:02. Gli chiede il contatto di un giornalista freelance egiziano esperto di mondo sindacale con il quale fissa un incontro per il 26 gennaio. A quell’appuntamento Giulio non andrà mai. Forse Abdallah lo sapeva, certi ne erano i suoi aguzzini. La sera del 25 gennaio esce dalla sua stanza sulla riva destra del Nilo, senza farvi più ritorno.