Un imprenditore quarantenne cerca protezione dal 'cecato'. Ma finisce imputato con lui. E racconta tutto ai giudici
La protezione a Roma il quarantenne imprenditore
Cristiano Guarnera l’ha cercata nel clan di
Massimo Carminati. Nel 2012 ha scelto di mettersi sotto l’ala del Cecato per sbaragliare la concorrenza, avere una marcia in più e una corsia preferenziale nel mondo della criminalità romana.
Per un paio di anni c’è riuscito, fino a quando non è stato arrestato con l’accusa di associazione mafiosa. Lui è “er Gaggio”, alias Cristiano Guarnera, costruttore, 43 anni. Quel soprannome, a Roma, si affibbia a chi, anche se si dà parecchie arie, non si rivela precisamente un’aquila: secondo chi lo conosce, a Cristiano«tutti jé levano i soldi».
Guarnera è sotto processo insieme a Carminati. Il costruttore ha fatto una scelta di campo. Da ex amico del “Cecato” ha scelto di raccontare a modo suo mafia Capitale, i motivi che spingono un imprenditore ad affidarsi a un clan come quello del “mondo di mezzo” per ottenere vantaggi e il “metodo” messo in pratica da Carminati. La sua decisione di rilasciare dichiarazioni spontanee in aula ha innervosito parecchi imputati, innanzitutto lo stesso Carminati.
Il “Gaggio” si è trasformato in “saggio”, in cella ha letto le intercettazioni del capo di mafia Capitale e ha compreso di essere stato sempre sfruttato. Quella che credeva amicizia si è rivelata una serie di estorsioni “a sua insaputa”. Quindi decide di cambiare rotta. Confessa i propri errori e il suo collegamento con il Cecato. E si pente. Spiega attraverso la propria esperienza personale il metodo Carminati applicato all’imprenditoria. In parole povere cos’è il sistema mafioso che in questi giorni viene giudicato in tribunale. Nelle scorse settimane Cristiano Guarnera si è seduto davanti ai magistrati e nelle sue lunghe dichiarazioni ha raccontato cosa spinge un imprenditore a mettersi sotto l’ala di Carminati. Come l’ex terrorista nero sparge terrore e perché essere suo amico tiene lontani altri malavitosi e concorrenti.
I contatti tra i due iniziano con una inaspettata, almeno per i romani «comuni», richiesta di protezione da parte del costruttore. Sì, perché può essere purtroppo normale in Messico, in Colombia oppure, per rimanere in Italia, in Sicilia e in Calabria, che un imprenditore minacciato si rivolga al boss locale per chiedere protezione. Ma scoprire che questo succede nel cuore di Roma a un’impresa con un patrimonio di 100 milioni di euro, comincia a farci capire cosa ci sia dietro la cartolina della Capitale d’Italia.
La storia personale di Guarnera è complicata: la confessione ai giudici parte da lontano ed è anche dolorosa: «I miei genitori si sono separati quando avevo sei anni. Sono stato letteralmente lasciato allo sbando da mio padre. Signor giudice, per dare un’idea, ricordo un episodio avvenuto quando avevo otto anni. Era un fine settimana e mi trovavo a casa con mio padre. La sera mi dice: “vado a prendere la pizza”. Ed è tornato tre giorni dopo. Per fortuna la casa di mio padre era vicina a quella di mio nonno...».
Guarnera inizia il suo racconto con questo aneddoto personale, per poi proseguire descrivendo un padre tutt’altro che esemplare: «Nel periodo in cui mia moglie era incinta, mio padre ha mandato nel mio ufficio un suo amico per ricattarmi, dicendomi che se non gli avessi dato cinquemila euro avrebbe sparato in pancia a mia moglie». «Mio padre mi ha sempre tirato dentro a queste brutte situazioni. Sapeva della minaccia e non ha detto nulla, ha fatto finta di nulla» spiega rammaricato mentre tiene fra le mani alcuni fogli dove ha segnato appunti dei fatti che vuole raccontare al tribunale.
«Sono cresciuto con una figura paterna e primaria che sono mio nonno e mia nonna. Devo confessare che mio nonno, un imprenditore di successo, mi ha viziato, forse per l’assenza di mio padre. Aveva per me un affetto veramente grande e mi ha viziato tanto, non ho vergogna a dirlo. Mio padre ha proprio abdicato al ruolo di genitore, è pure tossicodipendente da oltre 35 anni, è una persona estremamente violenta negli atteggiamenti e nei modi e frequenta spesso pregiudicati. Mi ha causato fin dalla nascita problemi di ogni sorta. Perché? Perché quando mio padre andava a comprare la droga non pagava e come garanzia dava l’indirizzo di casa mia. Abitavo in campagna, e più volte tornando a casa ho trovato ad aspettarmi davanti al cancello gli spacciatori che mi chiedevano i soldi per la coca che avevano dato a lui. Per proteggermi ho dovuto mettere a casa i vetri blindati, rafforzato porte e finestre e assunto per un anno una società di metronotte».
È una storia familiare devastante: «Mio padre veniva a qualunque ora del giorno e della notte a casa mia e si attaccava al citofono finché non gli aprivo, perché voleva soldi. Sono stato continuamente sempre vittima del suo modo di fare minaccioso». Le minacce sono proseguite nel tempo con varie persone che si presentavano anche nell’ufficio dell’imprenditore a pretendere il pagamento della coca e così «mia moglie mi disse di mettere un freno a questa storia e a mio padre, ma non ci sono riuscito», racconta costernato ai giudici.
La figura di Cristiano Guarnera è senza dubbio molto interessante per comprendere il rapporto tra il clan Carminati e il mondo delle imprese. Il “Gaggio” affronta uno per uno i componenti dell’organizzazione e li descrive così: «Ho conosciuto il benzinaio Roberto Lacopo (
imputato ndr) che gestisce il distributore di Corso Francia (
il luogo di ritrovo di Carminati, ndr), tredici anni prima di iniziare a frequentare Massimo Carminati. E con Lacopo avevo un sorta di confidenza, ci vedevamo quasi tutti i giorni perché mi fermavo a far rifornimento da lui. Lacopo sapeva dei problemi che avevo con mio padre e per questo mi ha presentato Riccardo Brugia (
braccio destro di Carminati, imputato anche lui, ndr) dicendomi che questa persona poteva aiutarmi». Così è stato. «Brugia dopo averlo conosciuto mi dice: “non ti preoccupare, prenditi Matteo Calvio, te lo porti dietro come autista e come guardia del corpo, e così starai più tranquillo, serve più a te che a me”. E così ho preso Calvio, ma è rimasto a lavorare per me solo tre mesi. Non andavamo d’accordo, non era puntuale negli appuntamenti, non era professionale e oltretutto sono stato pure scippato di un orologio di grande valore proprio mentre lui era presente».
Così Guarnera ricostruisce il primo passo che l’organizzazione di Carminati fa per “abbracciarlo” : mettergli a disposizione l’uomo adatto alla bisogna.
Matteo Calvio ha 47 anni, lo chiamano «Bojo» ma alle sue vittime si presenta più volentieri con l’altro soprannome: «Spezzapollici». Una montagna di muscoli sopra i quali si leggono tatuaggi poco incoraggianti. Sull’avambraccio destro c’è scritto: «non c’ho amici»; sul bicipite gonfio: «la paura non fa per me» e sul braccio sinistro: «mó basta». Calvio è l’uomo filmato dalle videocamere del Ros mentre, seduto al distributore di Corso Francia, minaccia al telefono un altro imprenditore, Riccardo Manattini, che deve pagare un debito.
La lettura delle intercettazioni apre un nuovo squarcio nella vita di Guarnera, come se si aprisse una finestra su un mondo di cui non aveva mai immaginato l’esistenza. Le parole dei protagonisti gli svelano che «questa gente» gli è stata messa accanto dal padre. «Pensavo di aver trovato da solo le relazioni per proteggermi, e invece era tutto un raggiro di mio padre», confessa incredulo Guarnera, il quale ammette: «Ho conosciuto Carminati, e non mi vergogno a dire che è una presenza che mi ha affascinato molto fin dall’inizio, perché era una persona molto alla mano, con lui potevo parlare di qualsiasi cosa, da quelle più stupide a quelle più importanti, sempre con la massima educazione, almeno all’inizio».
Guarnera subisce la personalità del Cecato, lo considera un amico, fino a quando non sente con quale violenza Carminati parla di lui ai suoi compari. «Avevo preso lui come punto di riferimento, non sapendo chi fosse Massimo Carminati» e Guarnera però tenta di restare al di qua dei fatti penali, non va oltre contro il Cecato, preferisce autoaccusarsi ma tenta di non accusarlo: «Fra me e lui non c’è stato alcuno scambio di favori e nemmeno di soldi». Però prende le distanze. Le intercettazioni, ammette Guarnera, mostrano un Carminati diverso da come si mostrava con i modi felpati e amichevoli durante i loro incontri.
È proprio a questo giovane costruttore che Carminati spiega la sua immaginifica teoria da «Tolkien de noantri» del “mondo di mezzo” seduti al tavolino di un bar, registrata dalle microspie degli investigatori.
Brugia racconta che Guarnera ha bisogno di protezione dai debitori che non lo pagano e da alcuni brutti ceffi che lo minacciano. Probabilmente sono montenegrini. E propone al Cecato di metterlo sotto la loro cupola protettiva per entrare così di soppiatto nel business della costruzione di un grande palazzo nel quartiere di Monteverde di 90 appartamenti, per un valore di diverse decine di milioni di euro. Carminati è contrario: «Per fa’ che, compa’?... ma lascia perde [...] ma ’nse ’mpicciamo, quello fa beve [arrestare, ndr] tutti... damme retta... compà […] tu a me me... vie’ a cura’... co ’sta cosa dei montenegrini... poi se impicciamo troppo.». E Brugia: «Però sta facendo novanta appartamenti a Monteverde». «E lo so ce l’ha... c’ha i soldi... e ho capito c’ha i soldi... eh... embè... e allora [...].» dice Carminati e Brugia ribatte: «A Ma’... è un “gaggio”... è uno che gli leva i soldi... jè levano i soldi... tutti...»
Carminati al fido Brugia espone la strategia di abbordaggio a Guarnera come fa un amministratore di una società quando spiega il suo business plan. Lo scopo ultimo, spiega il Cecato, non deve essere quello di entrare in società con l’imprenditore nella costruzione del palazzo di Monteverde. Carminati non ha alcuna intenzione di assumersi il rischio d’impresa, piuttosto vuole fornire servizi tramite società a lui vicine a un prezzo gonfiato che includa il profitto del boss. Solo così si guadagna senza rischiare perdite. È il metodo mafioso di Carminati. L’esempio di Guarnera serve all’ex Nar per spiegare al compare Brugia quale debba essere la regola nei rapporti tra l’organizzazione e le imprese da assoggettare: non bisogna più intervenire volta per volta offrendo la protezione all’imprenditore minacciato o il recupero “one spot” con le maniere forti del singolo credito incagliato, come si faceva una volta, rischiando così di infilarsi in scontri pericolosi con altre bande criminali e guadagnare poco. Molto meglio, invece, stringere un patto nel quale sia chiaro sin dall’inizio che la protezione è solo uno dei servizi forniti all’interno di un accordo complessivo.
In questo modo l’imprenditore entra nella rete di Carminati e, piano piano, ne viene imprigionato: alla fine non saranno più Brugia e compagni a lavorare per lui, offrendo protezione, ma sarà il costruttore stesso a rischiare per garantire profitti all’organizzazione.
Questo schema, scrivono i magistrati, replica pedissequamente la strategia di controllo delle attività economiche operata, in particolare nel sud del Paese, dalle organizzazioni tradizionali di stampo mafioso. Carminati, dunque, non vuole più occuparsi solo di «recupero crediti» perché «non siamo più gente che potemo fa una cosa del genere... pe’ du lire». L’obiettivo dell’associazione, spiega ancora Carminati, non è quello di fornire protezione in cambio di denaro: «A me mi puoi anche dire che mi dai un milione di euro per guardarmi tutte ste merde» ma entrare in affari con gli imprenditori: «È normale che dall’amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme».
Guarnera ai giudici dice che con Carminati «ha avuto solo una semplice conoscenza». «E invece sempre dalle trascrizioni delle intercettazioni che ho letto dopo il mio arresto vengo a sapere che Carminati ha tutta questa gentilezza nei miei confronti perché Calvio, detto da loro “l’investigatore dei poveri”, me lo avevano incollato per controllarmi, perché volevano che una loro impresa facesse lavori nei miei cantieri. E per questo motivo mi facevano pressioni». L’imprenditore scopre solo adesso che nei suoi confronti gli uomini di Carminati stavano organizzando truffe, estorsioni e ritorsioni, fingendosi amici.
«Ho detto però una bugia» rivela l’imprenditore ai giudici, «Carminati non si è mai interessato, contrariamente a quanto ho detto nelle intercettazioni, di farmi avere il permesso per costruire». Quel passaggio registrato nelle intercettazioni per Guarnera è solo una millanteria.
«Parlando con un mio amico mi sono lasciato andare stupidamente a questa affermazione in cui dico che Carminati è riuscito a farmi dare un’autorizzazione in tre giorni cosa che non riuscivo ad avere da due anni», spiega il costruttore.
«Ho parlato della mia intima amicizia con Carminati e di favori che mi avrebbe fatto, per evitare problemi con persone che mi chiedevano una grossa somma di denaro ed erano intenzionati a usare la violenza per ottenerla» e allora «in quella situazione non ho trovato altra soluzione che fare il nome di Carminati per difendermi». E di colpo gli aggressori si sono dileguati. Dire a Roma di essere amico di Carminati, spiega Guarnera, ti mette a riparo dalla malavita.
«La lettura delle trascrizioni delle intercettazioni mi ha svelato che quella con Carminati non era amicizia come la intendevo io». Le conversazioni registrate hanno fatto vedere un Carminati diverso da quello che si mostrava a Guarnera durante i loro frequenti incontri, perché «ero convinto di essere suo amico» e invece lui lo voleva solo sfruttare, spremergli più soldi possibile.
La dichiarazione di Guarnera, affiancato in aula dal proprio avvocato, non è affatto gradita da Massimo Carminati che assiste in video-collegamento dal carcere di Padova. L’ex Nar, come ormai gli capita di frequente, ha subito chiesto al presidente del Tribunale di intervenire e una volta ottenuto l’assenso dice, in tono parecchio nervoso: «Volevo sapere se era possibile all’esito del mio esame (la deposizione che farà in aula ndr) fare un confronto con Guarnera. Lo dovrei fare con l’avvocato di Guarnera, però purtroppo lo posso fare solo con lui».
Perché Carminati tira in ballo l’avvocato del costruttore? Che messaggio vuole mandare ai penalisti romani che fanno solo il loro dovere di difensori? In aula si sente un mormorio fra i banchi, si coglie tensione fra i legali. Interviene l’avvocato Giulio Vasaturo, parte civile per Libera che fa mettere a verbale: «La richiesta di confronto con il difensore di un imputato è irricevibile. E siccome non lo ha detto nessuno lo dico io». «Ma è scontato che sia irricevibile, avvocato» ribatte il presidente del tribunale. Però il segnale di Carminati resta, non può essere cancellato. Una parola quando è pronunciata in un’aula di tribunale, non è come un biglietto di carta che una volta scritto si può accartocciare e gettare nell’immondizia.
In definitiva, Cristiano Guarnera è accusato di essere un imprenditore che fa parte dell’associazione di stampo mafioso. Questo perché gli inquirenti lo considerano inserito organicamente negli affari di mafia Capitale: dal clan riceveva protezione e appoggi, e con loro faceva affari sul versante delle costruzioni e dell’emergenza sociale. Tutte le accuse formulate dai magistrati nascono da quella scelta sballata fatta anni addietro. Quando l’imprenditore decise di chiedere, invece che a polizia o carabinieri, protezione alla mala.