Demagogia. Xenofobia. Religione. Narendra Modi ha risvegliato l’orgoglio patrio opponendosi sia all’Islam sia all’Occidente
Per l’India quello di metà marzo è stato un altro tsunami, il secondo dopo la vittoria di Narendra Modi alle elezioni politiche del 2014. Il Bharatiya Janata Party (Bjp), nazionalista e tradizionalista, già al potere a Delhi, ha trionfalmente vinto le elezioni amministrative in cinque dei principali stati del Paese, con risultati senza precedenti: in particolare nello stato dell’Uttar Pradesh, il più popoloso dell’India e il più importante in senso strategico e di immagine, in cui non era mai accaduto che un partito vincesse le elezioni con una maggioranza tanto schiacciante: più o meno il quaranta per cento dei voti e l’ottanta per cento dei seggi, lasciandosi indietro di molto le migliori performance ottenute nel passato dal Congresso, che in Uttar Pradesh ha sempre avuto delle roccaforti di ferro.
Secondo alcuni analisti la vittoria non sarebbe da attribuirsi completamente ai meriti del Bjp quanto all’incapacità da parte delle opposizioni di produrre candidati credibili, ma comunque il risultato non cambia: il partito del Congresso ha toccato i suoi minimi storici, i comunisti sono di fatto scomparsi e anche gli altri partiti di opposizione praticamente non esistono più.
Per altri commentatori si tratta invece dell’ennesima vittoria personale del premier Narendra Modi, amato e detestato in ugual misura sia dai membri del suo stesso partito sia dalla cittadinanza. Figlio di un “chaiwallah”, un venditore di tè, Modi ha scalato con abilità e spregiudicatezza tutti i gradini che conducono alla poltrona di premier. Partendo dai ranghi del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), organizzazione di estrema destra ispirata al nazifascismo, è diventato Chief Minister dello stato del Gujarat, che ha guidato con pugno di ferro dal 2001 al 2013. Sostenitore del nazionalismo e al tempo stesso del liberismo più sfrenato, viene definito anche dai suoi detrattori «uno dei migliori amministratori dell’India».
Sotto la sua guida il Gujarat è cresciuto costantemente di un buon 10-12 per cento contro le magre performance del 5-6 per cento degli ultimi anni dell’India nel suo complesso. Grazie a un accorto mix di politiche fiscali, sviluppo di infrastrutture e semplificazione delle procedure burocratiche, “NaMo” è riuscito ad attirare nello stato investimenti sia esteri sia nazionali: adesso il Gujarat vanta circa il 16 per cento della produzione manifatturiera nazionale e concorre al prodotto interno lordo per più di un quarto delle esportazioni.
L’altra faccia della medaglia è un po’ meno brillante, almeno per una buona fetta degli indiani. Modi non ha mai reciso i suoi legami con la destra estrema nazionalista, è un sostenitore convinto della supremazia hindu (e della cosiddetta ideologia Hindutva) ed è stato pesantemente implicato, moralmente e politicamente, nei massacri di musulmani avvenuti in Gujarat nel 2002-2003 a seguito dell’incidente di Godhra. Nonostante il suo ruolo nell’accaduto non sia mai stato del tutto chiarito, “NaMo” è riuscito a compiere un certosino lavoro di ripulitura della sua immagine sdoganandosi in patria e anche agli occhi della comunità internazionale. A parte questo, ha fama di essere un politico incorrotto e incorruttibile e, soprattutto, un geniale manipolatore di media e un eccezionale oratore.
Nei quasi tre anni del suo governo ha applicato al paese la ricetta già vincente in Gujarat tentando di trasformare l’India in un vero e proprio marchio da vendere all’estero basandosi sulle “cinque T”: technology, trade, tourism, talent and tradition. Per essere eletto, Modi aveva spregiudicatamente adoperato la carta del nazionalismo populista: facendo leva non soltanto sul nazionalismo di stampo religioso dei suoi compagni di partito ma anche sul nazionalismo di matrice più laica nato, secondo il premio Nobel Amartya Sen, all’interno di una nuova, agguerrita classe media cresciuta e arricchitasi all’ombra del boom tecnologico-informatico degli anni scorsi.
Il progresso economico avrebbe creato e diffuso un forte senso di orgoglio nazionale in una nazione che sembrava ormai persa dietro una frammentazione sempre più accentuata delle sue diverse identità. «L’India ha bisogno di essere modernizzata, non occidentalizzata», ha dichiarato Modi in campagna elettorale: e per farlo, si è concentrato su economia e politica estera cercando di costringere il resto del mondo a prendere l’India sul serio. E a considerare come partner militare, economico e commerciale un paese che si rifiuta di giocare seguendo le regole scritte dall’Occidente.
Il voto a favore di Modi e del Bjp, sia alle politiche sia alle amministrative, è stato assolutamente trasversale per convinzioni politiche, casta e ceto sociale. A votare per lui sono stati gli uomini d’affari, i piccoli e i medi commercianti, i giovani alla ricerca di un lavoro e anche le masse di contadini e lavoratori che nel figlio del chaiwallah assurto al potere hanno visto l’incarnazione di un neonato “sogno indiano”. A votare per lui sono stati poi tutti quelli delusi dall’immobilità stagnante dell’ultimo governo del Congresso. E poco importa se il prezzo da pagare è la repressione brutale delle proteste studentesche a Delhi, se la macellazione di carne bovina è stata proibita un po’ dappertutto e il possesso di una bistecca è punito più severamente del traffico di droga; o se a comandare l’Uttar Pradesh adesso è un religioso induista dell’estrema destra (vedi riquadro a sinistra) che minaccia di trasformare lo stato, già turbolento, in una polveriera la cui esplosione sarebbe disastrosa.
Durante la campagna elettorale e in conseguenza della vittoria, è ritornata perfino a tenere banco sui giornali la cosiddetta questione di Ayodhya: episodio sanguinoso della recente storia indiana che nel corso degli anni ha provocato tre-quattromila morti direttamente o indirettamente imputabili a essa. Alla questione di Ayodhya sono legati anche i massacri di musulmani nel Gujarat di cui Modi è stato materialmente e moralmente imputato. I cittadini si dichiarano puntualmente indignati, ma poi al dunque vanno a votare per il Bjp.
Modi ha usato e continua a usare in modo strategico e spregiudicato il nazionalismo hindu: non ha nessuna intenzione di permettere ai fanatici di estrema destra di risollevare una questione che lo tocca da vicino e di cui ha impiegato anni a ripulire se stesso, ma degli induisti integralisti continua tuttavia a incassare il consenso.
Tentazioni integraliste religiose a parte, le priorità di Modi sono e rimangono di natura prettamente terrena: l’economia innanzitutto e una serie di riforme che dovrebbero portare l’India direttamente nel Ventiduesimo secolo saltando il Ventunesimo a piè pari. Ma per far passare le promesse riforme in materia di lavoro e distribuzione delle terre e la sospirata riforma fiscale che secondo le stime governative dovrebbero creare milioni di nuovi posti di lavoro, il governo ha bisogno di un’ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento: per ottenere questa maggioranza aveva bisogno, come è successo, di vincere le elezioni amministrative.
Elezioni che si svolgevano tre mesi dopo l’emanazione di un provvedimento a dir poco contestato: dalla sera alla mattina sono state messe fuori corso le banconote da 500 e 1.000 rupie, con tutta una serie di restrizioni per poterle convertire in banconote di nuovo corso. Il provvedimento è stato emanato per far riemergere il denaro nero, ma ha colpito duramente proprio lo zoccolo duro della base elettorale del Bjp. Così, siccome le riforme tardavano e sulle spalle dei cittadini gravava la tanto detestata demonetizzazione, durante la campagna elettorale Modi e il suo partito sono stati costretti a mettere da parte per un momento le problematiche economiche e fare leva invece sul populismo di natura religiosa e nazionalista.
È stata quindi lasciata praticamente mano libera alle frange più estremiste della destra al potere che al dunque ha reclamato la sua libbra di carne mandando al potere in Uttar Pradesh Yogi Adityanath che sarà probabilmente messo in riga dal governo centrale una volta passata l’ubriacatura elettorale e adoperato ancora una volta nella sua veste più estrema in vista delle politiche del 2019. Dove è prevista, se le opposizioni non tirano fuori dal cilindro un coniglio vincente, un’altra valanga di voti a favore del Bjp e di Narendra Modi che riesce a sempre e comunque, giocando con consumata abilità tutte le carte a sua disposizione, a trascinare dalla sua parte anche categorie di persone che, in teoria, avrebbero ben poco a che spartire con le ideologie di destra.
Narendra Modi vince perché gioca in politica in modo del tutto nuovo, mentre i suoi avversari sono prigionieri di schemi e teoremi del passato. Vince perché riesce a far digerire al popolo anche mosse potenzialmente disastrose come la demonetizzazione: dopo due mesi di assoluto delirio, i bancomat erano di nuovo pieni alla vigilia delle elezioni e questo, più di molte analisi politiche “alte”, ha influito non poco sul voto. Vince perché gioca la carta del populismo in modo spregiudicato ed è riuscito a convincere i più che la demonetizzazione serviva, come Robin Hood, a colpire i ricchi e premiare i poveri. Non era vero, ma la gente ne era convinta. E l’India da convincere, piaccia o no, non è quella degli intellettuali di città (per quanto anche molti di loro abbiano votato per Modi alle ultime politiche): l’India da convincere è quella della provincia, quella che tenta di destreggiarsi tra passato e futuro. E Modi, in qualche maniera, riesce a regalare loro qualcosa che intellettuali più fini e politici più raffinati non riescono a dare: l’attaccamento alla tradizione insieme alla speranza in un futuro migliore.