Attivisti, ecologisti ?e indigeni massacrati. Governo golpista, bande criminali spietate. Ecco il Paese più violento del pianeta

Foto di Francesca Volpi
Appena atterrata a Tegucigalpa accendo il cellulare e trovo un messaggio: «Felix Molina non la può incontrare perché è stato gambizzato e ora si trova in ospedale». Lo avevo contattato prima di partire per l’Honduras: Molina è uno dei pochi giornalisti che non ha mai smesso di denunciare la feroce repressione in corso da sette anni contro attivisti per i diritti umani, ecologisti, campesinos, oppositori politici e popolazioni indigene.

Anche la libertà di stampa, già debole, è stata seppellita il 28 giugno del 2009. Data in cui un colpo di Stato militare, ordinato dalla Corte Suprema, ha costretto l’allora presidente Manuel Zelaya, sotto la minaccia delle armi, a uscire dal letto nel cuore della notte e, ancora in pigiama, a salire su un elicottero per il vicino Costarica, da dove avrebbe fatto ritorno in Honduras due anni dopo. Ma anche in quel tragico frangente le telecamere dei media internazionali inquadrarono questo paese del Centro America - da sempre sotto il controllo degli Stati Uniti, a maggior ragione oggi che alla Casa Bianca siede Donald Trump - giusto il tempo di dare la notizia. Degli scontri tra popolazione e militari, delle sparizioni forzate, degli omicidi politici, delle lotte per il diritto alla terra, che iniziarono o ripresero da quella notte, ne riferirono in pochi.
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Per le tv internazionali, le vicende di questo Paese centroamericano molto esteso, ma con soli otto milioni di abitanti, non erano e non sono sufficientemente attraenti. Eppure si tratta del Paese più violento del pianeta e del secondo più povero e corrotto dell’America Latina, da dove transita l’80 per cento della cocaina che entra negli Stati Uniti e in buona percentuale anche in Europa.

Non è un caso se, nel copione della serie tv “Gomorra”, l’erede ribelle del boss della camorra è costretto ad andare nella jungla della “Mosquitia onduregna”, nel nord-est, al confine con il Nicaragua, a trattare con i rappresentanti locali della lunga filiera criminale che parte dalla Colombia e attraversa Nicaragua e Honduras, passando sotto i tunnel scavati dai cartelli messicani. Oppure via mare fa il suo ingresso in California, diramandosi in tutto il corpo della Federazione. E non sembra una coincidenza che il figlio di Porfirio Lobo - il primo presidente eletto dopo il golpe e rimasto in carica fino a due anni fa - nel maggio scorso si sia dichiarato colpevole di narcotraffico davanti al procuratore capo di Manhattan nel tentativo di evitare l’ergastolo. Il rampollo era stato arrestato ad Haiti l’anno scorso ed estradato negli Usa. Il mese prossimo dovrebbe essere pronunciato il verdetto nei suoi confronti e verso i suoi complici, sei ufficiali della polizia nazionale honduregna e due esponenti di un cartello messicano.

I media internazionali sono tornati, l’anno scorso, quando Berta Cáceres, leader degli indigeni Lenca, attivista e ambientalista vincitrice nel 2015 del “premio Nobel” per la protezione dell’ambiente (il Goldman Environmental Prize), fu assassinata a colpi di arma da fuoco nella sua casa a La Esperanza. Una morte annunciata da una lunga serie di minacce iniziate ben prima della sua decisione di opporsi alla costruzione di una diga sul fiume Gualcarque, considerato sacro dai Lenca. Opera sospesa dopo l’omicidio per volere della Sinohydro, il gigante cinese delle infrastrutture che si era aggiudicato l’appalto assieme al partner locale Desa.

L’attivista 47enne era entrata nel mirino delle autorità golpiste da quando aveva preso parte con i membri della sua organizzazione non governativa, Copinh, alle proteste scoppiate in seguito al golpe. Cáceres, che ha sempre sostenuto anche le lotte dei contadini del Bajo Aguán per riottenere la terra, sottratta loro dai latifondisti con la complicità del nuovo establishment, accusava i nuovi vertici dello Stato di voler applicare l’agenda neoliberista dettata dagli Stati Uniti, ispiratori a detta di molti analisti della defenestrazione di Zelaya.

Nei suoi anni alla presidenza, dal 2006 al 2009, Zelaya già inviso al proprio partito per aver aperto al dialogo con le minoranze e sospeso il progetto di costruzione di numerose dighe, aveva stretto un patto economico con l’allora presidente venezuelano Ugo Chávez, per ottenere prestiti allo scopo di migliorare il tenore di vita bassissimo della maggior parte della popolazione, povertà che genera assieme al narcotraffico una spirale di violenza senza fine, allargatasi dopo il golpe. Oggi i telegiornali si aprono ogni mattina con le immagini raccapriccianti di regolamenti di conti finiti nel sangue, rapine, estorsioni, rapimenti di membri di bande rivali, versioni locali delle “marras” salvadoregne.

Macro e micro criminalità sono due facce della stessa medaglia al collo di una nazione dove le città, a partire dalla capitale, sono luoghi insicuri tanto che è sconsigliato muoversi a piedi e ai semafori è obbligatorio tenere i finestrini alzati e la sicura delle portiere inserita. Accorgimenti che in ogni caso servono a poco se il passeggero è entrato nelle liste di proscrizione di malavita e poteri forti, che si incrociano continuamente e si sovrappongono, avendo spesso gli stessi obiettivi.

A causa della sua schiena dritta, Felix Molina si è trovato con le gambe forate dalle pallottole mentre il taxi su cui si trovava era fermo a un incrocio. Quel giorno era già scampato a un primo attacco: mentre guidava si era accorto di essere inseguito da due motociclisti, ma dopo averli seminati, aveva creduto, o voluto credere, di essersi sbagliato. Nonostante numerosi giornalisti siano stati freddati in questi sette anni. Altrimenti come andare avanti in un Paese dove l’impunità, a cominciare da quella accordata ai golpisti, è l’unica certezza? Il rumore dei vetri in frantumi del taxi e il dolore dei proiettili nella carne viva lo hanno risvegliato dall’illusione. In Italia però le ultime immagini arrivate dall’Honduras sono quelle girate durante il reality show “L’Isola dei famosi”, ambientato in uno dei suoi incantevoli atolli nel mar dei Caraibi.

Distrazioni che sviano l’attenzione da quanto accade sulla terraferma. È nella ex città mineraria Tegucigalpa o a San Pedro de Sula, capitale economica, nelle loro strade grigie blindate da cancelli e guardie private, che si riflette l’immagine reale di questo Paese. È tra le luci fioche che non riescono a illuminare notti da coprifuoco, tra le finche bianche e l’intricata vegetazione tropicale dove atterrano gli aerei per la fumigazione riempiti di coca, tra le sterminate piantagioni da palma da olio, sorvegliate da plotoni di vigilantes armati per sparare contro le manifestazioni dei campesinos, stufi delle vane promesse del governo, che si rivela questa grande piattaforma naturale. Da sempre usata da Washington per reprimere i movimenti rivoluzionari del centro-sud America. E infatti è stata costruita qui la più grande base militare statunitense dell’America centrale, il cortile dello Sam dove ha sede il Comando Sur (Sud). La presenza dei soldati a stelle e strisce è una costante nella storia honduregna contemporanea, così come gli accordi economico-politici con la vicina super potenza che ingenuamente Manuel Zelaya aveva tentato di rescindere.

Davanti alla sua villa, in uno dei pochi quartieri ordinati e verdi di Tegucigalpa, mentre aspetto che mi vengano ad aprire la porta, due venditrici ambulanti di biscotti mi dicono: «Mel è stato l’unico a fare qualcosa per noi poveri, per questo si era accordato con il comandante Chávez e per questo la segretaria Hillary Clinton (nel 2009 segretario di Stato dell’ amministrazione Obama, ndr) ha permesso il colpo di Stato. E anche quando Xiomara, la moglie di Mel, vinse le elezioni presidenziali quattro anni fa, “los gringos” hanno fatto cambiare il risultato e ora abbiamo Juan Orlando (Hernandez, il capo dello Stato in carica, ndr) anziché lei».

I sostenitori di Zelaya e numerosi politologi sono convinti che la deposizione di quest’uomo alto quasi due metri, trascinatore di folle per il suo carisma e modi schietti, sia stata ispirata dal Dipartimento di Stato americano. Che nella persona di Hillary Clinton ha sempre negato il golpe, anche dopo il riconoscimento dell’Onu e, in seguito, dello stesso presidente Obama. L’ex candidata democratica alle presidenziali ha spiegato che ammetterlo ufficialmente avrebb e comportato la sospensione immediata degli aiuti statunitensi alla popolazione. «Quegli aiuti sono andati alla destra golpista, non alla popolazione», puntualizza Zelaya dopo avermi mostrato i buchi lasciati dai proiettili dei soldati sul cancello secondario della sua abitazione.

«Non lo sostituisco, voglio che rimanga a memoria di un’ingiustizia, di un crimine contro la fascia più debole della popolazione. Da allora questo Paese è diventato ancora più povero, gli indici economici sono precipitati e il divario sociale è aumentato. Ma io o Xiomara ci ripresenteremo alle prossime elezioni, se saremo vivi», conclude l’ex presidente dopo aver detto che quello di Cáceres è stato un omicidio politico, come quello di Nelson García, avvenuto solo due settimane dopo, e di Lesbia UrquÍa, trovata con la testa spaccata in una discarica. Anche loro erano membri del Copinh. Per la morte di Cáceres ora sono in carcere un maggiore dell’esercito, un ex ufficiale di polizia, un quadro della Desa e i killer, due gemelli ventenni pescati nel bacino della manodopera criminale.

A La Esperanza, assieme alle figlie della leader ambientalista, Laura, Bertita e Olivia, che ora chiedono l’intervento della commissione interamericana per i diritti umani, troviamo anche Felix Molina, ancora zoppicante e con cerotti e garze sulle gambe ferite. «Questo Paese sta vivendo una emorragia legislativa, come l’ha definita la politologa americana Dan a Frank, tra le più note accusatrici di Hillary Clinton per il colpo di Stato. In questi ultimi sette anni abbiamo assistito a una svolta neoliberista estrema. L’attuale presidente Hernandez ha accentrato tutti i poteri nelle proprie mani, ha imposto pacchetti di leggi che aumentano le tasse alle categorie meno abbienti, privatizzano le imprese pubbliche, consentono la costruzione delle dighe con la scusa di aiutare lo sviluppo, rendono il lavoro precario e accettano il modello delle zone economiche speciali.

Le cosiddette “ciudad modelos”, cioè le città modello, veri e propri feudi gestiti da imprese e multinazionali straniere che per venire a investire qui esigono di gestire il territorio fuori dalla giurisdizione dello Stato. Avranno anche una polizia indipendente, che risponderà solo ai proprietari di queste “republiquete”», si accalora il giornalista. Queste cessioni della sovranità nazionale, già conosciute in altri Paesi poveri della Terra, in Honduras dovrebbero essere le più spinte in termini di autonomia dallo Stato che le ospiterà in cambio di tasse e, secondo gli oppositori, laute tangenti. Non sono persone qualsiasi a tentare la realizzazione di queste “repubblichette” teorizzate dall’economista della New York University Paul Romer.

Nel Comitato “for the Application of Best Practices”, che dovrebbe governare le Zede, ci sono 21 persone tra le quali Michael Reagan, uno dei figli del defunto presidente, Mark Skousen, ex analista economico della Cia, Mark Klugmann, autore dei discorsi di Reagan e Bush padre. Cáceres e i suoi compagni uccisi avevano manifestano con i campesinos anche contro questi feudi post moderni.

Nel giorno del primo anniversario del fatale attacco contro la leader ambientalista, il quotidiano britannico Guardian ha scritto che emergerebbero le prove di una esecuzione pianificata da uomini dei servizi segreti militari honduregni legati alle forze speciali statunitensi in loco. Mariano Diaz, uno degli arrestati, era stato a capo dell’intelligence militare nel 2015 e nei giorni dell’omicidio stava per essere promosso a colonnello. Un altro sospettato anche lui in carcere, Douglas Bustillo, collega e amico di Diaz, era stato per un periodo di addestramento negli Usa. Secondo i familiari di Cáceres è impossibile che queste figure dell’intelligence militare, seppur di spicco, abbiano deciso di eliminare una figura così nota a livello internazionale senza l’avallo dei vertici dello Stato.

Il fotoreportage di Francesca Volpi è stato prodotto con il sostegno di International Women Media Foundation