L'artista di origine bulgara è scomparso all'età di 84 anni. Ripubblichiamo l'intevista che ci rilasciò nel 2017 e in cui spiegava il suo lavoro: "Ho conquistato la mia libertà millimetro per millimetro e non la cedo di certo per denaro"

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Il segno del successo arrivò subito, fin dal primo giorno: il 18 luglio 2016. Ma al quinto, quando 270mila persone raggiunsero il lago d’Iseo perché un artista di nome Christo era riuscito nel miracolo di far camminare tutti sulle acque, ci si cominciò a preoccupare. Vigili urbani e vigili del fuoco, poliziotti e carabinieri, volontari e militari furono coinvolti nel difendere le fragili istituzioni e la limitata capienza del piccolo specchio d’acqua e nel tenere a bada la folla di uomini, donne, bambini, anziani e ragazzi determinati ad affrontare infinite code e complicati sistemi di accesso pur di poggiare i piedi sulle passerelle gialle dei “Floating piers” di Christo. Oltre un milione di persone, una media di 72mila al giorno per 18 giorni. Questo fu alla fine il calcolo. Ma per molti fu stima per difetto.

Ora, a poco più di anno di distanza, Christo torna in Italia. E torna per parlare: il 16 settembre, in un dialogo con Andrea Montanari (direttore del Tg1) nella Basilica Superiore di Assisi, per la terza edizione del Meeting Internazionale del Cortile di Francesco, luogo di incontro e dialogo fra culture religiose e non, tra uomini d’arte e di pensiero raccolti intorno a un tema: “Il cammino”.

Il suo tema, in fondo. Quello che ha segnato la sua vita professionale e personale, da quando sul finire degli anni Cinquanta, giovane, minuto, spettinato e ispirato fuggì dalla Bulgaria sovietica per arrivare a Parigi senza parlare una parola di francese. Quel cammino che nel 1958 gli fece incontrare Jeanne-Claude, la compagna di strada e anima gemella, figlia di un militare francese, nata in Marocco il suo stesso identico giorno, nello stesso identico anno: 13 giugno 1935. Quel cammino che insieme li portò in tutto il mondo a immaginare grandiosi progetti e realizzarne anche i più impossibili e più incredibili. “Running fence”: un nastro di nylon bianco alto cinque metri e mezzo che nel 1976 attraversò la California del nord per quaranta chilometri, rimosso dopo 14 giorni. “Umbrellas”, del 1991: migliaia di ombrelli che invadono contemporaneamente una valle in California e una in Giappone, distinti da un diverso colore - giallo per gli Stati Uniti, blu per il Giappone. “Gates”: 7503 portici di stoffa color zafferano, alti cinque metri, che spuntano nel 2005 su tutti i sentieri di Central Park a New York. “Wrapped Reichstag”, del 1995: spettacolare impacchettamento visitato da cinque milioni di persone, che richiese agli artisti anni di pazienza e 662 lettere, per convincere uno ad uno i membri del Parlamento; al Bundestag 70 minuti di dibattito sull’autorizzazione; all’opera 15 chilometri di corda e 100mila metri quadri di tessuto.

Forse nulla, però, colpisce più l’immaginazione di quell’evangelico camminare sulle acque di un lago lombardo. Ma non chiamatelo miracolo, perché Christo si indispettisce, e spiega che di miracoloso nella sua opera c’è solo un duro e ostinato lavoro.
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Un evento d’arte più popolare di un concerto rock, un lago poco frequentato che improvvisamente viene preso d’assalto, fino a diventare un vero e proprio pellegrinaggio. Signor Christo, non trova che ci sia qualcosa di mistico e rituale in tutto questo?
«Non mi chiamo signor, ma solo Christo. E non voglio usare chiavi politiche, letterarie o religiose per parlare del mio lavoro. Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo, è politica in sé. Avete idea di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag? Convincere Mister Kohl e tutto il Bundestag? Costringerli a votare qualcosa che non esiste ancora, se non nell’immaginazione? Questa è vera dimensione politica, non illustrazione della politica, ma pura visione politica. Così come “camminare sull’acqua” non è l’immagine di un evento miracoloso, ma è il procedere passo dopo passo, galleggiando, bagnandosi, esponendosi al vento e all’umidità del lago. È una vera esperienza».

È questa la chiave del successo dell’opera? Quella che ha attirato oltre un milione di visitatori?
«Numeri approssimativi. Difficile sapere esattamente quante persone siano venute o quante persone siano entrate in contatto con ogni nostro progetto che è sempre e comunque immersivo. Una pittura è una superficie, può essere astratta, figurativa, molto piccola, molto grande, ma occupa sempre uno spazio piatto. Una scultura o un’installazione conquista la terza dimensione, ma anche se include video o movimento come i “mobile” di Calder, vive in uno spazio controllato e connotato: il museo, la galleria, la collezione. Ma quando esci dal tuo guscio, attraversi la strada, ti esponi al mondo e vedi alberi impacchettati o chilometri di tessuto che si snodano per la California, sei in uno spazio che include ogni cosa: il vento, le macchine, gli uomini, gli animali. Non sei preparato, non hai deciso di entrare in una galleria, c’è stato un incontro. Questa è la nostra arte: non illustrazione, ma pura esistenza».

Lei usa sempre il plurale e nonostante la scomparsa della sua compagna i progetti continuano ad apparire firmati a quattro mani. È ancora vivo il contributo di Jeanne-Claude?
«Certo. Dei 46 progetti che abbiamo preparato chiedendo permessi e lottando con la burocrazia ne sono stati realizzati solo 23. Ma in ognuno c’è il suo perfezionismo, la sua attitudine ipercritica, l’attenzione maniacale ad ogni particolare, l’incredibile capacità organizzativa. Ci sono le nostre discussioni anche accese, la sua determinazione a trovare una soluzione anche dove sembrava impossibile. Ogni progetto presenta problemi imprevisti e dobbiamo calcolarli tutti prima: la forza dei venti, le previsioni climatiche, le perizie statiche. Insieme abbiamo impacchettato ponti, alberi, chilometri di coste. È stato un enorme piacere passare la vita insieme in questo progettare, una vera spedizione nell’esistenza. Abbiamo incontrato migliaia di persone che non appartenevano al mondo dell’arte, abbiamo conosciuto sindaci e ingegneri, operai e addetti all’ordine pubblico, primi ministri e artigiani. E ognuno ci ha dato qualcosa. Fanno tutti parte della mia vita e della mia memoria. Grazie a tutto questo e a Jeanne-Claude sono diventato ricco, e non di denaro né cose materiali».

Lei ha più volte detto che la vostra idea di arte è fatta per essere vissuta e non posseduta. Inoltre non avete mai voluto una galleria, né un mercante. Finanziate in gran parte i lavori vendendo disegni preparatori e immagini dei progetti. Insomma una posizione in netto contrasto con l’attuale sistema dell’arte.
«Sono nato in un paese comunista, da lì sono scappato perché era tale il bisogno di diventare artista ed essere un uomo libero, da spingermi a Parigi completamente solo, senza amici né parenti e senza sapere una parola di francese. Ho conquistato la mia libertà millimetro per millimetro e non la cedo di certo per denaro. Ho finanziato i miei progetti con i miei soldi e sono arrivato a realizzarne di molto costosi. Ma ogni cosa è stata una mia/nostra decisione libera, assoluta, che arrivava dal cuore. Solo così i progetti prendono forza al punto di convincere parlamenti interi a dare permessi per qualcosa di completamente inutile e irrazionale. Immaginate cosa può voler dire spiegare a quattrocento giapponesi - che peraltro a causa del mio nome sono convinti di trovarsi di fronte un eccentrico missionario - che io non voglio convertire nessuno, ma installare in una valle di Ibaraki, a nord di Tokyo, 1340 ombrelli blu alti 6 metri e larghi 8,66. Il tutto senza avere una lingua in comune».

Ci siete riusciti. Così come siete riusciti a impacchettare le coste dell’Australia, a vestire di rosa isolotti in Florida o di tessuto dorato il Pont Neuf a Parigi. Eppure è cronaca recente che lei ha deciso di far cadere il monumenta le progetto a cui lavora da venticinque anni: “Over The River”, un soffice e brillante tetto d’argento che dovrebbe accompagnare per sei miglia il fiume Colorado in Arizona e su cui lei ha già investito 15 milioni di dollari. Si dice che sia stato anche un gesto polemico contro l’amministrazione Trump, anzi per il New York Times il più visibile e costoso gesto di protesta finora visto!
«In realtà è l’amministrazione Trump ad essere polemica con me, perché come sempre una parte importante dell’opera è la richiesta dei permessi. Dai proprietari privati erano stati ottenuti e quando cominciai, in tempi di amministrazione Clinton, anche la pubblica burocrazia, che richiede tempi molto complessi, si dimostrò favorevole. Più critica poi, ma non ostile, al tempo di Bush, mentre trovai un supporter in Obama. Ma ora sono partite anche battaglie legali che mi accusano di essere una minaccia alla fauna e alla flora: ogni piacere di lottare per questo progetto è sparito e non intendo spendere altro tempo e altri soldi per cercare di convincere questa amministrazione. L’ho detto: sono un uomo libero. Libero anche di cambiare strada».

C’è un’altra persona che da tempo vi ha seguito: Wolfgang Volz, il fotografo a cui avete affidato una gran parte della documentazione e le immagini della vostra storia. Lo vedremo in mostra ad Assisi. Che ruolo ha la foto nell’opera di Christo?
«Un ruolo importante di documentazione. Wolfgang non si limita a fotografare le opere, è con noi fin dall’inizio. Rende visibile il work in progress, dai disegni ai modellini fino ai carteggi burocratici. Poi ogni fase della messa in opera dalla costruzione alla demolizione. È un materiale che viene acquisito da archivi e fondazioni, è stato oggetto di mostre molto visitate come quella al secondo piano del Reichstag, ma è un documento e basta. E in nessun modo sostituisce l’opera».

Dopo “Floating piers” tornerà a lavorare in Italia?
«Ho un grande progetto, ma è ancora segreto. E ho un grande amore per questo paese fin dagli anni Settanta quando rivestii Porta Pinciana a Roma (“Wrapped Roman Wall”, 1973, ndr). Una difficile opera di diplomazia per superare diffidenze di politici e sovrintendenti che vedevano in me solo un giovane visionario bulgaro. Ma fui molto aiutato da un artista potente che capì l’opera, nonostante il suo lavoro fosse molto lontano dal mio. Era un comunista e si chiamava Guttuso, lo conosce?».