I documenti usciti dalle Mura Leonine sono l’inizio di un’altra faida interna che si combatte a colpi di rivelazioni vere e false. E che partono dall’era Marcinkus e arrivano fino a oggi

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Il documento su Emanuela Orlandi, un presunto resoconto economico per l’“allontanamento domiciliare” della ragazzina scomparsa nel 1983 che l’estensore attribuisce al defunto cardinale Lorenzo Antonetti, apocrifo (come sembra) o totalmente inventato che sia è solo uno dei report che rischiano di agitare il Vaticano nel futuro prossimo venturo. Perché, con l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio, le guerre intestine dentro la Santa Sede non sono affatto terminate e molti temono che la pubblicazione di nuovi documenti segreti rischi di infiammare, a breve, una nuova stagione di Leaks.

La nota spese sulla Orlandi, piena di errori formali ma costruita con mani scaltre da soggetti che conoscevano molto bene uomini, vicende e circostanze del pontificato di papa Giovanni Paolo II, era infatti finita nell’armadio blindato della Prefettura degli affari economici della Santa Sede, il cui custode era Lucio Vallejo Balda, segretario della Prefettura dal 2011 al 2015. Una cassaforte che fu scassinata a fine marzo del 2014 da misteriosi ladri mai identificati, che portarono via una serie di faldoni su vicende delicate che riguardano, almeno a detta di testimoni oculari che in quelle stanze lavoravano, alcuni episodi significativi, passati e recenti, della storia del Vaticano.

Vatileaks
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È stato accertato che parte di quei report trafugati sia tornata in un plico anonimo in Prefettura un mese dopo il furto: dentro ci sarebbero stati fogli su presunti finanziamenti della Chiesa al sindacato polacco Solidarno??, carteggi dei banchieri Roberto Calvi e Michele Sindona in merito al crac del Banco Ambrosiano, missive che documentano liti intorno a eredità contese dell’ex nunzio di Francia Mario Tagliaferri, morto nel 1999, e altri dossier economici contenuti nell’armadio di quella che è stata, fino al 2015, la Corte dei Conti della Santa Sede.

Ma è certo, pure, che nell’autunno del 2015, in concomitanza con l’arresto della pr Francesca Chaoqui e di Balda (entrambi membri di Cosea dal luglio del 2013, sono entrambi stati condannati nel processo vaticano per fuga di notizie riservate), gli uomini della Gendarmeria guidati da Domenico Giani hanno cercato di capire se esistesse o meno una cassa di documenti fotocopiati dall’archivio. E finita nelle mani di uno o più “corvi”.

Nei faldoni del processo VatiLeaks 2 esistono verbali di interrogatorio secretati che parlano senza giri di parole di un baule pieno di carte (tra queste era presente anche la presunta nota sulla Orlandi), che però - nonostante le ricerche dei poliziotti del papa - non è mai stata ritrovato.

Ora è possibile che, in un futuro non troppo lontano, coloro che hanno conservato documenti riservati vogliano uscire dall’ombra e colpire ancora tornando a volare sopra il Cupolone. Per svelare misteri mai chiariti, forse. O per mandare nuovi messaggi, prendersi rivincite e chiudere conti in sospeso ancora aperti. «Chi pensa che ci siano solo pesci piccoli dietro i VatiLeaks, si sbaglia di grosso», chiosa un prelato molto anziano: «Ci tengo a far presente che i primi hanno contribuito alle dimissioni di un pontefice dopo secoli: non si crederà davvero che un’operazione di tale entità sia stata messa in piedi solo dal maggiordomo Paolo Gabriele? Ammetto che sono preoccupato».

Esclusivo
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È un fatto che il pontificato di Francesco viva, da qualche tempo, un momento difficile. Se Bergoglio è amatissimo dal suo gregge, ed è considerato un papa rivoluzionario dai media laici di tutto il mondo, all’interno della Santa Sede i suoi nemici, invece di diminuire, in questi primi quattro anni e mezzo di pontificato sono cresciuti. Di numero e di forza. Le aperture dottrinarie a favore della comunione ai divorziati risposati, il progressismo audace, almeno a parole, verso gli omosessuali e le famiglie non tradizionali, la lotta (seppur difficile) contro la corruzione dentro le mura leonine, hanno compattato un fronte eterogeneo. Che è sempre più critico verso Bergoglio sia da un punto di vista pastorale («ormai non si capisce più nulla», ripetono gli antipatizzanti) sia per lo stile di governo pugnace. Di sicuro poco incline alla mediazione con l’ala tradizionalista, ancora riottosa al cambiamento portato dall’ex arcivescovo di Buenos Aires.

I “corvi”, veicolando all’esterno il falso della Orlandi, tornano a volare in un periodo particolarmente complicato. Dopo la pubblicazione del dossier apocrifo oggi molti scuotono ancora la testa inveendo nuovamente contro le nomine di alcuni membri della commissione pontificia Cosea, mentre altri stanno ancora cercando di capire i motivi che hanno portato Francesco a promuovere a capo della segreteria dell’Economia il cardinale George Pell. La scelta di chiamare a Roma “il ranger” australiano fu presa nonostante il porporato fosse già assai chiacchierato in patria e fuori, da quasi un decennio, per essere stato accusato da alcune vittime di aver protetto, quando era vescovo di Sydney e Melbourne, alcuni preti pedofili. All’inizio dell’estate Pell è stato addirittura incriminato dalla polizia dello Stato di Victoria con l’accusa di aver lui stesso abusato, molti anni fa, di cinque minorenni. Così Bergoglio a fine dello scorso giugno, dopo averlo a lungo protetto, è stato costretto ad abbandonarlo al suo destino sospendendo il suo incarico in attesa dell’esito del processo.

Se coloro che speravano in una riforma dell’economia e degli enti vaticani più incisiva e più aderente alle promesse si sono man mano aggiunti alla schiera dei delusi, il gruppo dei cardinali conservatori è sul piede di guerra da tre mesi, da quando Bergoglio ha deciso di “licenziare” Gerhard Müller, l’ex capo della Congregazione per la dottrina della Fede, a cui non è stato confermato il secondo mandato. Il cardinale è stato silurato, secondo alcuni, per le presunte divergenze che avrebbe avuto con Francesco in merito al contenuto di “Amoris Laetitia”, l’esortazione post sinodale su matrimonio e famiglia. Per altri, invece, ha semplicemente pagato il fatto di aver contrastato troppo blandamente il tema della pedofilia ecclesiastica.

Insomma il mare, oltretevere, è mosso. Ed è in questo scenario che si agitano le nuove (o, più probabilmente, vecchie) gole profonde vaticane. Non sappiamo se e quando verranno pubblicati, come avvenuto durante gli ultimi due ultimi VatiLeaks, nuovi documenti imbarazzanti. Né se siano in arrivo report veri o altri apocrifi, costruiti ad arte proprio per minare, forse, la credibilità di documenti originali che il Vaticano sa essere in circolazione. È un fatto che nessuna carta pubblicata negli scandali del 2012 e del 2015 sia mai stata smentita dalla Santa Sede, e che le inchieste giornalistiche abbiano costretto la Santa Sede - come nel caso della ristrutturazione dell’appartamento di Tarcisio Bertone pagato con i soldi del Bambin Gesù - ad aprire fascicoli penali per tentare di mettere una pezza agli scandali provocati dai whisteblower.

Le reazioni
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Ma i beninformati ipotizzano pure che il rischio di polpette avvelenate sia dietro l’angolo. Se qualcuno, dopo la pubblicazione della nota spese taroccata forse copiando pezzi di documenti reali rammenta il caso di Dino Boffo, dove una velina per delegittimare l’ex direttore di Avvenire venne costruita con un documento giudiziario vero e un report di un anonimo circolato tra i vescovi italiani, altri ricordano come Balda, condannato nel luglio del 2016 a 18 mesi di reclusione per aver diffuso report interni segreti (Chaoqui ne ha avuti 10 con pena sospesa) sia finito nell’occhio della gendarmeria anche per uno strano viaggio a Dubai. «In Medioriente, lo scrisse pure “Repubblica”, il monsignore cercò di incontrare uomini dei servizi segreti cinesi per consegnare loro una falsa cartella clinica del papa, da lui stesso contraffatta attraverso la falsificazione delle analisi dell’anziana madre», attacca l’anziano prelato che ha passato una vita in segreteria di Stato.

Per la missione, in effetti, Balda si fece accompagnare dall’ex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno: i gendarmi scoprirono le velleità spionistiche del monsignore attraverso l’analisi del suo computer, e ipotizzarono che il viaggio avvenne tra il dicembre del 2014 e il gennaio del 2015. Non si è mai capito perché il prelato avesse deciso di mettere in piedi quella messinscena. Il Vaticano non ha mai fatto sapere gli esiti dell’inchiesta d’intelligence, né si è mai capito come mai i corvi di VatiLeaks 2 modificarono un documento (probabilmente originale ma senza intestazioni) su Monte dei Paschi di Siena inserendo una timbratura fasulla.

A oggi, naturalmente, non sappiamo quali siano i documenti riservati ancora in circolazione. Fonti della Prefettura spiegano che l’archivio aperto tre anni fa con una fiamma ossidrica era stracolmo di dossier di diversi periodi storici, e che i ladri (o altri soggetti che nulla c’entrano con l’effrazione del marzo 2014) potrebbero aver preso (o fotocopiato) di tutto. Sia documenti conservati lì da fine degli anni Settanta, come le lettere scritte a mano del banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri di Londra nel 1982 (le missive di Calvi sarebbero decine); sia certificazioni di altri dicasteri ottenuti dai membri della Cosea durante il loro lavoro di screening degli enti economici vaticani. Come, per esempio, quelli sui conti all’Apsa da chiudere (dopo una due diligence della società di revisione Promontory l’Apsa ha chiesto ai prelati che avevano un conto personale, come l’ex presidente Agostino Cacciavillan, di spostare i loro denari allo Ior: ne sono nate proteste vibranti perché l’Apsa garantiva interessi migliori); e i conti deposito dell’Istituto delle opere di religione, in passato aperti a favore di laici che non ne avevano alcun diritto. Due anni fa il Vaticano ha annunciato urbi et orbi di averli chiusi tutti, ma non ha mai consegnato - come aveva informalmente promesso all’autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia - la lista dei presunti evasori e riciclatori che avevano nascosto i loro soldi dentro il torrione Niccolò V.

Ma i timori di una nuova fuga di notizie sono stati segnalati anche da ambienti ecclesiastici vicini a Santa Marta, come ha evidenziato lo scorso giugno Massimo Franco sul Corriere della Sera. Subito dopo le dimissioni di un altro uomo novus del corso bergogliano, l’ex primo revisore generale dei conti Libero Milone, qualcuno ha detto al giornalista che per «il papa è un momento delicato, non vogliamo precipitare in un terzo VatiLeaks». Milone era il braccio destro di Pell, finito sui giornali a ottobre del 2015 per aver denunciato alla gendarmeria la violazione del suo computer personale. Anche il suo ufficio era situato al quarto piano del palazzo della Prefettura, e anche di quella vicenda non si è saputo più nulla.

L’economo, a sorpresa, ha scelto di andare via tre anni prima della scadenza naturale del suo incarico: se qualcuno ipotizzò semplici diatribe sulla retribuzione, la nota della sala stampa spiegò che era stato l’ex presidente di Deloitte chiamato da Pell per mettere mano nei bilanci, segretissimi, della segreteria di Stato, dei dicasteri e dei vari enti della città santa, ad aver dato le dimissioni, subito accettate da papa Francesco. «Ci aspettiamo una nuova mareggiata, da un momento all’altro», conclude una fonte autorevole. In Vaticano credono che la pubblicazione del presunto report sull’allontanamento della ragazzina che suonava il flauto, insomma, sia solo l’inizio di una battaglia a colpi di carte. E di veleni.