Salari da fame, nessun diritto, chiusi nei container. E tutto succede nell'Agro Pontino. Anche grazie a una rete di colletti bianchi in rapporti con i caporali
La cartellina di plastica con il nome che rivela un’origine lontana è custodita in un vecchio armadio di lamiera e ruggine, tra confezioni di riso e fili della corrente penzolanti. L’elastico che la chiude non riesce più a trattenere le decine di contratti e buste paga. L’ultima indica un totale di 300 euro per una dozzina di giornate di lavoro. «Altri trecento li ho presi in nero, ma ho pagato il commercialista perché altrimenti non mi rinnovano il permesso di soggiorno», sospira Hardeep.
Quella cartellina gonfia contiene il nuovo volto dello sfruttamento. Una volta erano solo caporali, adesso sembrano broker. Dominano la catena dall’alto, imponendo regole ancora più spietate ai braccianti. Come baroni d’altri tempi, gestiscono il mercato senza sporcarsi le mani: sono i colletti bianchi del lavoro nero, che fanno affari negando ogni diritto: trattano gli stranieri come schiavi, come corpi da cui spremere ogni energia. E proteggono la loro parvenza di legalità dietro carte in regola, prodotte da una filiera di commercialisti, consulenti, ispettori del lavoro e persino sindacalisti.
Hardeep indossa un turbante colorato e abiti consumati dalla terra dell’Agro Pontino su cui si inginocchia per 14 ore, sabato e domenica inclusi. Nato in Punjab, la regione nord occidentale dell’India, è arrivato da ormai cinque anni nelle campagne della provincia di Latina, dove pomodori, zucchine, melanzane certificate di “alta qualità” vengono raccolte senza sosta da lavoratori regolari solo all’apparenza. Divide il vecchio container grigio, di quelli usati per dare soccorso ai terremotati, con altri tre connazionali. Senza riscaldamento, un tubo di gomma per lavarsi e il bagno alla turca che scarica direttamente in un canale. Sul fornello l’odore speziato del chai si mescola a quello che la bombola del gas rilascia nell’aria. Per quel container dietro alle serre del padrone, protetto dagli sguardi di chi non vuol vedere, pagano 300 euro al mese. In anticipo e rigorosamente in nero. «Domani non vado al lavoro», confida, «il padrone mi fa restare qui perché viene l’ispettore».
Nessuna sorpresa, capita persino che si conosca in anticipo quando arrivano le ispezioni. A farle poi sono sempre in meno e il risultato è un incremento del lavoro sommerso. Un giro d’affari che, secondo il Centro Studi e ricerche sul Mezzogiorno, vale ben 320 miliardi di euro. Il 19,5% del Pil. Del resto mettendo a confronto i registri anagrafici dell’Inps con quelli della Camera di Commercio della provincia di Latina a fronte di 16.827 lavoratori iscritti solo 3.400 aziende sono in grado di assumerli stabilmente, in pratica non più di una media di 5 braccianti per ogni ditta. Una cifra evidentemente insostenibile, soprattutto in un’agricoltura che punta ai mercati di qualità. La spiegazione è semplice, basta volerla vedere: una massa di irregolari, regolarmente sfruttati. Ma per questo bisogna andare lontano dai campi e spingersi alla periferia della Latina littoria, nelle anonime palazzine dei nuovi uffici di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro collusi con imprenditori e caporali.
Parwinder, che divide il tugurio con Hardeep, sostiene ci sia persino un tariffario: «Duecento euro per ogni busta paga finta, necessaria per rinnovare il permesso di soggiorno, e mille per avere un contratto». Spesso devono pagarsi da soli i contributi o a firmare il proprio licenziamento. «A me è successo», ammette, «Ogni sei o sette mesi il padrone mi chiama e mi fa firmare un foglio. Io non capisco cosa c’è scritto, ma con lui c’è sempre un sindacalista. Io firmo e non faccio domande perché altrimenti mi mandano via». Gli stessi sindacalisti che si sono dileguati quando gli indiani hanno deciso di scioperare per i loro diritti: «Ci dovevano difendere e invece qui se denunci non lavori più. I padroni e i caporali hanno la lista di quelli che hanno manifestato».
Il 18 aprile di due anni fa è stata una giornata memorabile. Sono scesi in piazza per rivendicare quanto previsto nel contratto: nove euro per sei ore di lavoro. Una protesta senza sbocchi. E oggi nelle campagne li ritrovi fianco a fianco ai giovani africani richiedenti asilo, che hanno aspettative infime e non si lamentano. Una coabitazione al ribasso. Il fine è infatti sempre lo stesso: pagarli sempre meno.
I richiedenti asilo accettano salari da fame perché nei centri di accoglienza straordinaria che li ospitano (dove dovrebbero essere tutelati, inseriti in progetti di formazione e non abbandonati nelle mani del lavoro nero) hanno vitto e alloggio. Gli indiani sanno che così anche le loro condizioni peggioreranno ma non possono ribellarsi pena non lavorare più.
«Non ho mai potuto scegliere quando prendermi le ferie. Viene tutto deciso dal padrone. Anche quando posso tornare in India dalla mia famiglia. La mia vita la decide lui», dice Parwinder mentre da una finestra mostra le serre e i cassoni che domani mattina dovrà riempire di nuovo.
Per sopportare il dolore alla schiena, le piaghe ai piedi e resistere alla fatica molti ingoiano semi d’oppio. E a qualcuno non bastano neanche quelli. Harbhajan è seduto a terra, la testa china. Da oltre un’ora tocca il pugnale. È il simbolo religioso per i Sikh. Dovrebbe portarlo sempre con sé, ma il proprietario dell’azienda agricola glielo vieta. Harbhajan ha trent’anni, una moglie e due figli che vivono in India che non riesce più a mantenere. «In quella serra s’è ammazzato Surwinder», rivela. Era un suo amico. Lavoravano piegati uno accanto all’altro tutti i giorni. Sull’ultima busta paga di Surwinder c’è scritto 164 euro. Surwinder era disperato, ma non si lamentava. Pensava che quella fosse la regola. Solo che non riusciva a vivere. E così un giorno si è impiccato a un tubo innocenti di acciaio inox.
Negli ultimi due anni in queste campagne fra cocomeri e zucchine si sono suicidati dieci braccianti. Ribellarsi diventa impossibile e resta la paura che ti fa accettare tutto pur di lavorare. Ore chinati sotto al sole a spargere fertilizzanti e veleni senza guanti e mascherine. Quanto ai corsi di aggiornamento e sulla sicurezza, quelli finanziati dalla Regione e da vari enti, sono obbligatori ma nessuno dentro questa baracca li ha mai frequentati.
«Incredible». Lo ripete sette volte in mezza giornata Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù. È arrivata qui in una mattina di sole di metà ottobre, tra turisti pronti a sdraiarsi sulle spiagge vip di Sabaudia per godersi l’ultimo scampolo d’estate. Sudafricana di origini indiane, giudice impegnata nel contrasto alle disuguaglianze e all’apartheid, si commuove quando incontra Balbir. Lui per sei anni ha vissuto in una roulotte, picchiato quotidianamente e obbligato a mangiare gli avanzi del padrone. È il primo indiano ridotto in schiavitù che riesce ad uscire da questa condizione: merito delle denuncia presentata ai Carabinieri di Latina, che gli ha fatto avere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Schiavi del XXI secolo a meno di cento chilometri dalla capitale del Paese. Accanto a Balbir c’è un ragazzo di 20 anni. È impaurito e non ha molta voglia di parlare. Riesce solo a dire che ha lavorato per molti mesi in una stalla senza ricevere un euro di retribuzione. Per arrivare qui ha pagato 10 mila euro ad un trafficante indiano e s’è ritrovato schiavo in un’azienda italiana. Per Bhoola «si tratta di una situazione inaccettabile, inserirò le loro storie nella relazione per l’Onu».
L’obiettivo è quello di riconoscere che in un Paese europeo esistono vecchie e nuove forme di schiavitù. E far sì che il governo italiano non riveda la legge sul caporalato, voluta dopo la morte di Paola Clemente, la giovane donne stroncata sui campi pugliesi: una norma potente, che per tutelare la dignità del lavoro prevede di arrestare non solo i caporali ma anche i “padroni” sequestrando i loro beni. Quel che emerge dalla ricognizione delle Nazioni Unite è un’Italia di sfruttati, da Monfalcone a Ragusa, dall’agricoltura all’edilizia. Donne e uomini, italiani e stranieri che hanno bisogno di sopravvivenza e accettano paghe da due-tre euro l’ora, senza alcuna tutela. «Persone che non si possono nemmeno ribellare. Su oltre un centinaio di processi oggi pendenti, quelli iniziati con la denuncia di un lavoratore si contano sulle dita di una mano», sottolinea Bruno Giordano, magistrato di Cassazione a cui si deve la legge. Con lo sfruttamento si inculca l’omertà. «Come si può chiedere a chi ha bisogno di un pezzo di pane di farsi paladino contro un sistema, denunciando quello che gli apparati dello Stato sanno benissimo?», chiede. Punto centrale sono i controlli. «C’è un’enorme confusione di competenze amministrative e risorse investigative, con lo spreco di tempi e forze. Si pensi che se una squadra mobile vuole organizzare un blitz in un’azienda agricola, si deve coordinare con l’Asl, con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro che a sua volta dovrebbe coordinare i Carabinieri del lavoro, gli ispettori dell’Inps e quelli dell’Inail.
E quello che sanno e fanno questi uffici non confluisce in nessun sistema operativo centralizzato», sottolinea Giordano. Da dieci anni è stato previsto il Sinp (sistema informatico nazionale della prevenzione) che garantirebbe una banca dati sugli illeciti in materia di sicurezza del lavoro, ma non è ancora partito. Il danno di questo lassismo istituzionale non è solo per i lavoratori ma per la collettività. Sfruttare vuol dire evadere i contributi e le assicurazioni, ossia far pagare ancora di più a braccianti e imprenditori in regola.
Il governo Renzi ha accorpato tutte le forze in un’unica centrale di azione, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Negli ultimi cinque anni però il numero degli ispettori è crollato di 1.400 unità. Un migliaio in meno sono quelli del lavoro e nello stesso periodo sono diminuiti di ben 20mila gli accertamenti alle aziende. Il ministro Luigi Di Maio ha promesso un concorso straordinario e messo alla guida dell’Ispettorato Leonardo Alestra: nonostante abbia maturato esperienza in una terra difficile come comandante provinciale dei Carabinieri della Calabria il suo non sarà un compito facile. E poi c’è il grande buco nero delle Asl, con numeri degli ispettori dimezzati negli ultimi 10 anni, nonostante siano loro a poter contestare la maggior parte delle violazioni.
Alle otto del mattino Parwinder ha già raccolto un cassone di ravanelli insieme a Mohamed che arriva dalla Guinea. Oggi vengono pagati a cottimo: 2,90 euro ogni 150 mazzetti da 15 ravanelli. Gli stessi ravanelli che ritroviamo dopo giorni in un grande supermercato della Capitale: prezzo al pubblico quasi un euro a mazzetto. Una filiera che si arricchisce sui disperati e che sembra non avere fine.