È irrisolto l’omicidio che nel 1991 in Calabria diede inizio alla stagione delle stragi. Ora un’inchiesta indaga sui lati oscuri del magistrato. E dello Stato (Illustrazione di Emanuele Fucecchi)

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Avvicinabile ma integerrimo, garantista e colpevolista, Antonino Scopelliti resta l’enigma per eccellenza della stagione delle stragi mafiose. Il magistrato che doveva sostenere l’accusa nel Maxiprocesso a Cosa Nostra in Cassazione è stato ucciso il 9 agosto 1991 a Campo Piale, sopra Villa San Giovanni. La sua morte è il primo passo di una transizione politico-criminale conclusa il 18 gennaio del 1994 nei pressi di Scilla, con l’assassinio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. In mezzo, ci sono le morti eccellenti di Salvo Lima, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ignazio Salvo, degli agenti delle scorte, dei passanti colpiti dalle bombe di via Palestro a Milano, di via dei Georgofili a Firenze, di San Giorgio al Velabro a Roma.

Solo su Scopelliti non c’è una condanna. I processi ai mandanti e agli esecutori si sono sempre chiusi in un nulla di fatto. Ci riprova la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Oltre un quarto di secolo è trascorso in discorsi consolatori e celebrazioni davanti alla stele dedicata al giudice, tra false piste e tragedie, come i criminali chiamano le fake news di cui questa vicenda abbonda. Per troppo tempo si è fatta la storia giudiziaria dei trenta mesi di sangue fra l’agosto 1991 e l’inizio del 1994 con un’impostazione “palermocentrica”. Ma il bilancio del cui prodest è chiaro. A dispetto della trattativa intavolata con lo Stato, la mafia di Totò Riina e Bernardo Provenzano è stata distrutta, mentre la ’ndrangheta ha proseguito la sua scalata al vertice del crimine mondiale.

Non può essere un caso se l’alfa e l’omega della strategia stragista sono state inscenate in Calabria, nei pochi chilometri di costa che si affaccia sullo Stretto da un cornicione naturale di bellezza stupefacente. «Il delitto Scopelliti è il prodotto dell’integrazione profonda fra crimine calabrese e siciliano», dice Giuseppe Lombardo, il procuratore aggiunto di Reggio che sta tornando sul crimine dell’agosto 1991 e che insieme al procuratore capo Giovanni Bombardieri ha messo sotto indagine diciotto persone incluso Matteo Messina Denaro, «ma è anche collegato agli ambienti romani, segnati da componenti massoniche, e ai salotti democristiani che facevano da ponte con la parte riservata della ’ndrangheta nel momento in cui si sviluppano i progetti autonomisti delle leghe meridionali».

In quei pochi mesi cambia il governo del mondo. Mentre l’Urss si sfalda e il Pentagono si dedica a Saddam Hussein, viene meno la vigilanza sul governo italiano in funzione anticomunista che la Cia ha conferito a Cosa Nostra, secondo l’agente segreto Usa Victor Marchetti. Se ne accorge John Gotti, boss del clan Gambino a New York, investito da un’inchiesta che lo distruggerà.
Il personaggio
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In questo contesto sciasciano assumono valore vecchie testimonianze, come quelle del pentito nisseno Leonardo Messina, scomparso da qualche mese, e nuove rivelazioni come quelle di Giovanni Brusca o del catanese Maurizio Avola, l’assassino del giornalista Pippo Fava, che ha fatto ritrovare il fucile secondo lui usato per uccidere Scopelliti, o come quelle di Nino Cuzzola, killer delle cosche calabresi in Lombardia, che parla di un summit a casa del capobastone reggino Mico Tegano con gli uomini di Riina e Santapaola, bloccati e poi liberati da un funzionario di polizia, due settimane prima dell’agguato a Scopelliti.

LA SCENA DEL DELITTO
In quasi tre decenni di indagini i punti fermi che nessuno ha mai messo in discussione non sono molti. Bisogna partire da queste certezze.
Dal mese di giugno del 1991, quando si viene a sapere che Scopelliti sosterrà l’accusa nel Maxiprocesso in Cassazione, il magistrato inizia a mostrare un’inquietudine che non si priva di comunicare ad amici e conoscenti. È il primo dei tanti paradossi. Scopelliti è spaventato da un processo che ha voluto fortemente. O che qualcuno gli ha chiesto di seguire.
Eppure non chiede un servizio di protezione che gli sarebbe stato facilmente concesso. A Roma Scopelliti continua a recarsi al Palazzaccio, sede della Cassazione, con l’unico accompagnamento del suo autista. Vive in centro, in via della Scrofa, dove staziona una macchina delle forze dell’ordine che sorveglia il suo vicino di casa, il ministro repubblicano Antonio Maccanico.

Giovedì 25 luglio intorno alle 13 il magistrato inizia le ferie. Prende la Bmw in garage, la carica delle sentenze e dei ricorsi del Maxi, ma anche dei suoi appunti su un altro processo che considera di grande interesse per il tema della responsabilità oggettiva. È il verdetto contro Adriano Sofri, condannato il 12 luglio in secondo grado per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi.

Dice a un amico che intende passare prima da Palermo ma non lo fa. Era sua abitudine dichiarare itinerari fittizi, per motivi di sicurezza. In serata arriva nella sua casa sulla collina di Campo Calabro dove lo aspettano gli anziani genitori. Il magistrato passerà i quindici giorni di vita che gli restano in una routine quasi assoluta, fra lo studio delle carte, le cure al padre malato e il riposo dalle 11 alle 17 al lido il Gabbiano fra Villa San Giovanni e Scilla.

Fra i pochissimi imprevisti, il 7 agosto c’è il funerale del figlio dell’Avvocato generale Giovanni Montera, scomparso in mare. «Certo era un momento tragico», ricorda l’allora gip Vincenzo Macrì che partecipò alle esequie, «ma vidi Scopelliti in disparte, sui gradini della chiesa, e mi sembrò particolarmente cupo».
I segnali di allarme da parte del magistrato si moltiplicano ma le sue abitudini non cambiano. Il giorno prima dell’agguato, l’8 agosto, un conoscente si trova in macchina dietro la Bmw di Scopelliti che non lo riconosce e incomincia a zigzagare, rallentare, accelerare, chiudere la strada finché non riconosce il guidatore. Lo stesso 8 agosto durante una telefonata serale dice a un’amica: «È un’apocalisse».

Il giorno dopo, il suo ultimo, mentre fa il bagno con Alessandra Simone, al tempo in servizio alla Criminalpol, si spaventa per una busta di plastica trascinata da un motoscafo tanto da nuotare verso riva a precipizio.
Intorno alle cinque, si avvia verso casa. Alcuni testimoni notano una Volkswagen che si accoda alla Bmw. L’auto sale dalla statale 18 verso la collina e supera il piccolo cimitero di Cannitello. Passa per il breve tunnel sotto l’A3 nella zona campo Piale e segue la carreggiata che si allunga in un rettilineo di poche centinaia di metri.
La visibilità è perfetta e Scopelliti è in uno stato di allarme che confina con la paranoia. Eppure lascia che una moto lo raggiunga e gli si affianchi in fondo al rettilineo in modo che l’uomo seduto dietro possa fare fuoco.
Secondo la perizia balistica, il killer ha un fucile a canne mozze caricato con due cartucce a pallettoni calibro 12. Il primo colpo parte da una distanza inferiore ai cinque metri in direzione avanti-indietro e sinistra-destra. Per il commando il margine di errore è pari a zero. Qualunque manovra della Bmw in una strada stretta che si avvicina a una curva può pregiudicare l’incolumità dei sicari e la fucilata che, invece, va perfettamente a segno. Quando l’auto esce di strada e sfonda un cancello per fermarsi in un terrapieno pochi metri in basso, il magistrato è già morto. Il killer se ne accerta. Scende fino alla macchina nel punto dove oggi sorge la stele commemorativa in pietra e spara il secondo colpo.

Il benzinaio della stazione di servizio dell’A3, a poche decine di metri in linea d’aria, sente il colpo violento della Bmw che esce di strada. Alle 17.30 chiama il 113 per avvertire che c’è stato un grave incidente. Fra i primi ad arrivare c’è il numero due della Mobile, Mario Blasco, che riconosce il giudice e dà l’allarme.
Il giorno stesso inizieranno ad arrivare a Reggio Calabria le più alte cariche dello Stato, a cominciare dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Ai funerali il giorno dopo, il 10 agosto, si presenta anche il ministro della Giustizia Claudio Martelli con i suoi principali collaboratori, Livia Pomodoro e Giovanni Falcone. Il direttore degli affari penali di via Arenula dice senza esitazioni ai colleghi reggini: «È stata Cosa nostra». Lo confermerà in un articolo pubblicato il 17 agosto sulla Stampa. L’11 agosto arriva la prima di quattro rivendicazioni della Falange Armata, una sigla misteriosa che aveva esordito dieci mesi prima (ottobre 1990) per attribuirsi l’omicidio dell’agente penitenziario Umberto Mormile avvenuto l’11 aprile 1990 e deciso in realtà dai boss della ’ndrangheta a Milano, Domenico e Antonio Papalia, spesso visitati in carcere da uomini dei servizi segreti.

Nei rilevamenti sulla scena del delitto Scopelliti l’arma non viene trovata, ed è una prima anomalia. Non essendo automatica, non c’è traccia dei bossoli. Sulla strada ci sono rottami della Bmw ma anche di una Fiat, che potevano essere lì da giorni. Data l’angustia della sede stradale, l’uso di un’automobile per il delitto viene escluso. Nessuno sembra dare importanza al fatto che Scopelliti, come ultima cosa della sua vita, ha visto un uomo che gli puntava un fucile da una moto senza tentare alcuna reazione.

Un elemento di contesto va aggiunto. Il 1991 è l’ultimo anno della guerra di ’ndrangheta che infuria dall’ottobre del 1985, quando il clan De Stefano-Tegano-Libri tenta di uccidere con un’autobomba il rivale Antonino Imerti detto Nano feroce. In sei anni si contano oltre 700 omicidi e i clan mantengono un controllo ossessivo sul territorio con servizi di ronda e sentinelle pronte a segnalare presenze anomale.
La zona dove vive Scopelliti è l’epicentro dello scontro, nel triangolo tra Villa San Giovanni, il quartiere destefaniano di Archi e Fiumara di Muro, il paese di Imerti.

In mezzo a questo terremoto, Campo Calabro è una sorta di zona franca. Il “locale” di Campo è retto dai fratelli Antonio e Antonino Garonfolo, coloni e amici di infanzia di Scopelliti. Sono destefaniani ma sono anche l’unica cosca del reggino che non subisce perdite e nemmeno attacchi dal fronte opposto. A vietarli espressamente interviene un superboss degli imertiani, Pasquale Condello, ex alleato di Paolo De Stefano.
Nonostante la parentela con gli Iamonte, potente famiglia della zona ionica (Melito Porto Salvo), i Garonfolo sono a volte stati trattati come una famiglia di poco conto. Il trattamento di riguardo che hanno avuto dagli avversari dimostra il contrario. Un investigatore dice all’Espresso: «Nella zona fra Campo e Fiumara ci sono clan ricchissimi con investimenti in tutta Italia. Abbiamo tentato di incastrarli con le indagini patrimoniali ma ormai è impossibile. Questa è ’ndrangheta 4.0».

Ai funerali di Scopelliti uno dei fratelli Garonfolo avvicinerà la sorella del magistrato e si scuserà per non avere potuto impedire il crimine. Qual è stata la causa di forza maggiore che ha tagliato fuori i Garonfolo? E se fossero stati loro una componente di questa forza maggiore? E se Scopelliti non avesse chiesto la scorta allo Stato perché, su quel lungo rettilineo che portava a casa sua, riteneva di avere già la sua scorta privata?
Cronologia
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LE ’NDRINE AL PALAZZACCIO
Il rapporto fra Scopelliti e i suoi amici di infanzia è stata la chiave di ogni indagine sull’omicidio del magistrato a partire dal primo rinvio a giudizio del gup Alberto Cisterna nel 1994 fino al lavoro attuale dell’aggiunto Lombardo.
«Non può sottacersi», si legge nel documento di venticinque anni fa, «che la vittima fosse solita intervenire presso soggetti pubblici e privati al fine di perorare assunzioni e pratiche di vario genere». Nell’interrogatorio del 22 aprile 1993 Antonio Garonfolo riferisce che Scopelliti riceveva al Palazzaccio compaesani e amici.
I due processi della prima e della seconda sezione penale di Reggio Calabria che hanno condannato i mandanti di Cosa nostra, i vari Riina, Provenzano, Calò, Madonia, Brusca, sono stati ribaltati in secondo grado non solo perché applicano in modo troppo estensivo la responsabilità oggettiva alla Commissione provinciale di Palermo ma anche perché restano intrappolati in un corto circuito logico sul comportamento di Scopelliti verso le pressioni e raccomandazioni che aveva ricevuto «e sicuramente respinto». La sentenza di Assise della seconda sezione accumula le contraddizioni. «Il magistrato era per attitudine caratteriale portato al contatto umano e consentiva a chiunque di avvicinarlo... La grossa caratura mafiosa dei Garonfolo era sicuramente nota a tutti e non poteva sfuggire a Scopelliti ... ma la presenza di siffatti elementi inquinanti non influiva sulla sua condotta professionale». Il giudice tollerava la vicinanza dei Garonfolo «per affetto e passate consuetudini di vita».

Non era l’atteggiamento che poteva risultare gradito a Falcone, nato e cresciuto alla Kalsa di Palermo ma non per questo vittima di nostalgie d’infanzia verso i criminali che aveva colpito con le sue inchieste come membro del pool di Palermo. L’inchiesta di Lombardo tenta di ricostruire i rapporti fra i due magistrati che si trovano a condividere la fase finale del Maxiprocesso a Cosa Nostra, giunto in Cassazione.

È un capitolo ancora inedito che inizia il 12 febbraio 1991 durante la trasmissione Rai “Telefono giallo” condotta da Corrado Augias. Il programma, in diretta, è dedicato all’ondata di scarcerazioni di mafiosi per decorrenza dei termini decisa lunedì 11 febbraio dalla prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale. In collegamento da Palermo ci sono l’avvocato Alfredo Galasso e Falcone che è ancora in organico agli uffici giudiziari del capoluogo siciliano ma è già virtualmente d’accordo con il ministro della Giustizia del governo Andreotti, il socialista Martelli, per trasferirsi al dicastero di via Arenula.

Il primo ospite di Augias negli studi di Roma è Scopelliti. A rivedere oggi la trasmissione, fra il minuto 17 e il minuto 22 circa, vengono i brividi. Scopelliti, tre mesi prima di ottenere l’accusa nel Maxi, è tesissimo, cupo. Difende a spada tratta il garantismo della Suprema Corte e dice che sulle scarcerazioni di Michele Greco, Pippo Calò e soci «si è fatto allarmismo».

«Non vorrei essere aggressivo», obietta Augias, «ma la sentenza della Cassazione segna una divaricazione netta fra interpretazione giuridica e coscienza popolare». Falcone in un primo tempo tenta di sviare la polemica. Cita l’aforisma del giurista Francesco Carnelutti («la forza del diritto è nella sua opinabilità»). Scopelliti lo incalza, accusa il collega di avere usato termini non esatti. Falcone reagisce con il suo tipico mezzo sorriso, si gira verso Galasso e fa una battuta sottovoce. Scopelliti rimarca che anche in altri paesi le sentenze di primo grado vengono ribaltate e conclude così: «In Inghilterra non si è mai saputo com’è morto Roberto Calvi e in America nessuno ha mai spiegato l’omicidio Kennedy ma questo non ha creato scandalo».

L’esempio di Calvi, il presidente dell’Ambrosiano trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge a Londra nel 1982, era di stretta attualità nel 1991 con il processo sul crac della banca in corso a Milano. Fra le frequentazioni romane di Scopelliti c’erano uomini della gerarchia vaticana come il segretario dello Ior monsignor Donato De Bonis, uno dei protagonisti dello scandalo Ambrosiano insieme a Paul Marcinkus. E c’erano esponenti del mondo andreottiano come la parlamentare e docente di diritto ecclesiastico Ombretta Fumagalli Carulli, il potente magistrato-senatore reggino Claudio Vitalone e suo fratello Wilfredo, che si era dovuto difendere dall’accusa di avere ricevuto soldi dallo stesso Calvi.

È probabile che Falcone volesse evitare una polemica aperta con il collega anche perché stava trattando per una nomina decisa proprio dal governo del Divo Giulio. Né va dimenticato che questa scelta portò al magistrato palermitano critiche durissime e che una parte della società civile lo trattò come un traditore.
Prima della storia, la cronaca ha parlato chiaro. L’arrivo del magistrato siciliano al ministero è segnato dal cosiddetto decreto Martelli, il primo marzo. Il provvedimento riporterà in carcere tutti i mafiosi liberati da Carnevale. La reazione di Cosa Nostra è prudente. L’ordine agli affiliati è di farsi catturare senza creare difficoltà nella speranza che il Maxi venga smontato in Cassazione.

Carnevale replica a modo suo al decreto Martelli: il 5 marzo annulla con rinvio la condanna di Calò per la strage del rapido 904. La pubblica accusa di quel processo è sostenuta da Scopelliti, che si esprime per la conferma del verdetto di colpevolezza. Lo stesso era accaduto con l’assassinio di Rocco Chinnici. In altre parole, fra l’ammazza-sentenze e il magistrato calabrese non c’era necessariamente accordo. Resta però l’antagonismo fra Scopelliti e Falcone che, appena arrivato al ministero, dispone una verifica su centinaia di processi dell’Alta Corte e la affida a una commissione presieduta da Giovanni Conso, presidente emerito della Corte costituzionale e successore di Martelli in via Arenula con il governo Amato (febbraio 1993).

Il responso critico della commissione Conso andrà nella direzione del documento del 18 febbraio 1991 concepito durante un convegno di magistrati del Movimento per la giustizia, la corrente di Falcone, tenuto proprio a Reggio Calabria. «In quell’occasione», ricorda Luciano Gerardis, oggi presidente della Corte d’appello di Reggio, «con Giovanni e gli altri colleghi chiedemmo la rotazione dei processi in Cassazione. Fu un documento dirompente perché di fatto proponeva di togliere le sentenze di mafia a Carnevale».
A maggio del 1991 l’obiettivo è raggiunto. Il primo presidente della Corte Antonio Brancaccio riunisce i colleghi e annuncia che, a partire dal 1992, i processi si assegneranno per sorteggio. Carnevale capisce che un’epoca è finita e rinuncia al Maxi, che sarà presieduto da Arnaldo Valente.

In questo momento, secondo Brusca, la Cupola aveva già deciso di uccidere Falcone, il nemico, e Lima, il garante che non garantiva più. Si rinvia l’esecuzione a dopo il verdetto di Cassazione sul Maxi per non inguaiare i boss sotto accusa. È l’ennesimo corto circuito logico. Se per prudenza non si uccide Falcone, men che meno si uccide Scopelliti.
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GLI STRAGISTI RILUTTANTI
L’ipotesi della Dda di Reggio è che il delitto del 9 agosto 1991 sia un omicidio politico e che il Maxiprocesso sia lo sfondo, non il movente, di un avvertimento a titolo preventivo. Non tutti gli investigatori sono d’accordo con questa impostazione, per altro contemplata anche da una delle sentenze degli anni Novanta. Restano anche incerti i moventi di una ’ndrangheta stragista riluttante al servizio della Cupola.
Che vantaggio potevano ricavare i Piromalli, gli Araniti, i De Stefano, i Tegano, tutti coinvolti dalla nuova inchiesta, dall’omicidio di Campo Piale? Fra gli altri, il pentito Giuseppe Scopelliti, braccio destro di Imerti, ha sconfessato la teoria che il magistrato suo omonimo sia stato eliminato dai calabresi per ricambiare la mediazione di pace dei siciliani tra i fronti di ’ndrangheta in guerra da sei anni, una favola arricchita di dettagli pittoreschi come l’arrivo in continente del latitante Riina travestito da frate.

Era invece del tutto prevedibile che, come temeva Brusca, l’agguato del 9 agosto avrebbe dato alla Cassazione un motivo di severità in più nel Maxiprocesso.

In questa versione bisogna ipotizzare un ruolo della ’ndrangheta come primo e consapevole collaboratore dello Stato nell’eliminazione dei “viddani” corleonesi che vengono condannati definitivamente il 30 gennaio 1992. Per usare un’espressione cara a mafiosi e ’ndranghetisti, si è armata una tragedia attraverso una sostituzione dei moventi e degli autori.
Pure ipotesi? Non proprio. In quegli anni il crimine calabrese di alto livello aveva solide entrature negli uffici giudiziari. Molti magistrati reggini dell’epoca se la sono cavata con trasferimenti. Ma non tutti. Nel processo sull’omicidio Scopelliti tenuto dalla prima sezione, il giudice a latere è Vincenzo Giglio, condannato in via definitiva per avere aiutato il clan Lampada-Condello, e il collegio è presieduto da Paolo Bruno dopo l’arresto del collega Giacomo Foti, poi scagionato. Anche Valente, il presidente della Cassazione che ha condannato i mafiosi nel Maxi, non ha avuto una carriera molto lunga. Nel 1994 il giudice si è dimesso dalla magistratura prima che il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli presentasse un esposto contro di lui. Carnevale sarà processato per concorso esterno e se la caverà nei tre gradi di giudizio con una sequenza di assoluzione, condanna, assoluzione.
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L’elemento storico di sfondo dice che la stagione delle stragi apre la via alla Seconda repubblica e, insieme ai corleonesi, rade al suolo un sistema politico diventato desueto dopo la fine dell’Urss. L’inizio di Tangentopoli (17 febbraio 1992) e la strage di Capaci tre mesi dopo chiuderanno la via del Quirinale ad Andreotti, mafioso per verdetto fino al 1980 e autore di un voltafaccia che i viddani non hanno perdonato.
L’ultimo agguato, l’omega dell’ennesima vicenda oscura della nostra Repubblica, avviene il primo febbraio 1994 contro i carabinieri sulla tangenziale di Reggio Calabria. Finisce qui la serie di aggressioni contro l’Arma che aveva fra i suoi uomini i mediatori della trattativa Stato-mafia.

Poco prima, il 26 gennaio 1994, Silvio Berlusconi annuncia la sua discesa in campo con Forza Italia, il partito organizzato da Marcello Dell’Utri e guidato in Calabria da Amedeo Matacena junior, entrambi condannati per concorso esterno in associazione mafiosa.

Ancora una volta viene da ricordare l’interrogatorio in cui Giuseppe De Stefano, capocrimine di Reggio, dice a Giuseppe Pignatone, allora procuratore nella città dello Stretto: «Dottore, io non sono ’ndrangheta». Quasi trent’anni dopo l’omicidio Scopelliti, commemorato ogni 9 agosto dalle autorità intorno alla stele funebre di Campo Piale, lo Stato non ha ancora fatto i conti con il suo lato oscuro.