Che senso ha dire “mai più” e poi vendere armi, portare la guerra nel mondo, negare i diritti ai rifugiati? In vista dei 75 anni della ricorrenza, una filosofa e uno scrittore riflettono sul senso vero del ricordare

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Da quando, quindici anni fa, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva deciso di istituire il Giorno della memoria e fissarne la data il 27 gennaio, il giorno appunto in cui nel 1945 le truppe dell’Armata rossa aprirono i cancelli di Auschwitz, quel lager diventò qualcosa di più di un luogo di morte e di sofferenza, quasi indicibili. Auschwitz si trasformò in un sinonimo della Shoah. O se vogliamo in una metonimia o una sineddoche, figure retoriche dove una parte fa da simbolo alla totalità del fenomeno e che si prestano a svariate interpretazioni e usi.

Intanto, quel campo in terra di Slesia non fu la prima fabbrica della morte scoperta dai sovietici: già nell’estate del 1944, i russi scoprirono le macerie di Treblinka (900 mila ebrei assassinati in pochi mesi). E poi, quando si parla della liberazione di Auschwitz occorre tener presente che da liberare c’era ben poco. Al momento nel campo si trovavano appena duemila prigionieri, gli altri 65 mila, ancora in vita, furono avviati dai tedeschi nella famigerata marcia della morte verso altri lager, più a ovest, marcia in cui perirono circa 15 mila persone. In totale ad Auschwitz morirono circa un milione 100 mila esseri umani.
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Cominciamo questa nostra conversazione con alcune domande e l’indicazione di alcuni problemi riguardanti i modi e le conseguenze del fatto che un luogo maledetto ma assai concreto si trasformò in un simbolo. Il primo. Dal momento che fu l’Onu, un’organizzazione di Stati nazione sovrani a istituire la ricorrenza del 27 gennaio, la memoria della Shoah è diventata anch’essa affare di Stato, vicenda da presidenti, primi ministri, Parlamenti. E così, nei prossimi giorni avremo almeno due momenti solenni. Ad Auschwitz arriveranno i monarchi di Olanda, Spagna, Svezia e presidenti e premier di svariati Paesi.

Ma prima, il 23 gennaio, a Gerusalemme ci saranno oltre quaranta fra capi di Stato e di governo. A prendere la parola saranno i rappresentanti delle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, oltre a quelli di Germania e Israele. Il presidente polacco Andrzej Duda ha annunciato che non verrà alla cerimonia israeliana dato che vi parlerà Putin e non lui. Infatti fra i russi e i polacchi c’è un conflitto sulle cause di quella guerra. E non è una discussione fra storici, ma fra autorità politiche delle rispettive nazioni. Che senso ha tutto questo? Che senso ha che politici dicano «mai più» e poi vendano armi che uccidono, facciano guerre, neghino i diritti ai rifugiati?

Donatella Di Cesare. «Non mi sorprende che gli Stati vogliano occupare la memoria, prenderne quasi possesso, rivendicando Auschwitz, il luogo stesso e il simbolo. È un feticismo della memoria, che emerge nelle commemorazioni sempre più trite e banali. Si sbandiera la pietà della memoria, mentre viene meno il compito di ricordare. Il risultato paradossale è l’amnesia collettiva. Ne parleremo forse in seguito. Questa gara fra gli Stati avviene anche perché nella nostra cultura la figura del vinto è stata sostituita da quella della vittima. E la vittima è ormai la figura fondativa. Sono ovviamente gli Stati europei ad avanzare questa pretesa vittimaria. Oggi in particolare i polacchi. Ma perfino la Germania, nel passato, è stata tentata, più volte, dal ruolo della vittima».

Goldkorn. «Un chiarimento doveroso: i polacchi erano fra le principali vittime del nazismo. La discussione che oggi divide in due la società riguarda le complicità di molti cittadini nello sterminio dei vicini di casa ebrei. E un’osservazione sui tedeschi. Accanto al Parlamento di Berlino è stato edificato un gigantesco monumento alle vittime dello sterminio. È come se la memoria della Shoah fosse fondativa di una Germania riunificata. Un paradosso inquietante».

Di Cesare. «La penso diversamente. Quel monumento è molto controverso. Sin dall’inizio è stato contestato dalle comunità ebraiche tedesche perché appariva troppo neutro, senza nessun rinvio allo sterminio degli ebrei. Per questo in seguito è stato costruito a parte un museo. Sono convinta comunque che con questo monumento la Germania abbia tentato di chiudere in qualche modo, dopo la riunificazione, il terribile capitolo dello sterminio. Di certo non è un atto fondativo. Piuttosto è memoriale voluto fortemente dall’alto, dall’élite governativa. Per il resto, il rapporto che la Germania ha con lo sterminio è ben diverso da quello che ha l’Italia. Il paragone a mio avviso non sta in piedi».

Goldkorn. «In Italia ci fu una guerra civile. I conti con il fascismo li hanno fatti i partigiani. Poi ci sono elaborazioni (anche sulle contraddizioni della Resistenza) che spettano agli storici e intellettuali, ma è altra cosa. In Germania invece il nazismo finì per mano delle potenze che occuparono il Paese. Ma vorrei introdurre un altro tema: memoria condivisa e memoria divisiva. Un giorno chiesi a Marek Edelman, il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, se una memoria condivisa potesse esistere. Mi rispose con un’altra domanda: credi seriamente che la mia memoria da combattente possa avere qualcosa in comune con la memoria di un poliziotto (e sottolineò, ebreo) nel ghetto? La memoria per sua natura e statuto è divisiva».

Di Cesare. «Bisogna distinguere fra memoria individuale e ricordo collettivo. La memoria è la facoltà di ciascuno, che per giunta è selettiva. Altro è il ricordo, cardine dell’ebraismo. Si condivide insieme il ricordo di una narrazione. Prima fra tutte quella dell’esodo, il cammino verso la libertà. Condivisione non significa peraltro uniformità. Detto questo, la memoria di quel che è avvenuto non potrà mai essere la stessa, tanto meno per il protagonista della rivolta e per il poliziotto. Alla domanda se la memoria della Shoah sia condivisa, rispondo: assolutamente no. Le narrazioni dei popoli sono divergenti e divergenti sono gli usi che se ne fanno».

Goldkorn. «C’è una differenza fra chi è testimone diretto della Shoah e noi, la generazione nata dopo, che ne abbiamo solo sentito parlare o studiato sui libri. I testimoni stanno scomparendo. Ne restano pochi e preziosi. Ha parlato prima del compito della memoria. Come si fa a trasmettere il ricordo alle generazioni future? Non basta il comandamento, zakhòr, in ebraico: ricorda, di cui ha parlato».

Di Cesare. «Torno all’inizio, al feticismo della memoria, che ha finito per provocare una specie di amnesia collettiva. In Italia, e perfino in Germania, l’antisemitismo continua a esistere. Anzi aumenta! Come mai? Perché?
Goldkorn. La risposta?»

Di Cesare. «Poco studio, poca riflessione e un dibattito pubblico carente. Si pensa che l’antisemitismo sia una forma specifica del razzismo. Questo semplifica il fenomeno. Si trascura, ad esempio, che la mobilitazione antisemita attinge all’archivio dell’antiebraismo cristiano. Nuovi stigmi si intrecciano ai precedenti, accuse dimenticate riemergono con accenti inediti. Basti pensare a tutte le forme del complottismo. La Shoah non ha spinto a conoscere e studiare la storia e la tradizione ebraica. Un peccato! Ma il feticismo della memoria pone altri problemi. Ho l’impressione che molti pensino che il viaggio ad Auschwitz sia sufficiente».

Goldkorn. «L’anno scorso i visitatori italiani sono stati 130 mila, dei due milioni trecento mila in totale: la quarta nazione per quantità dei visitatori al Museo di Auschwitz. Moltissimi sono studenti delle medie superiori che arrivano in viaggi organizzati dalle scuole. Con tutte le critiche che si possono fare riguardo alla sistemazione di quel luogo, non è una cosa negativa che specie i giovani abbiano l’occasione di toccare con mano l’orrore».

Di Cesare. «Sono sempre stata scettica sui viaggi ad Auschwitz. Ci sono professori bravissimi, ottime scuole, dove gli studenti vengono preparati al viaggio con letture, conversazioni, percorsi di apprendimento. Per non parlare poi dell’incontro decisivo con i sopravvissuti. Esiste, però, il rischio che si punti solo sull’emozione, sull’effetto choc, mentre l’attenzione si concentra sulla ragionieristica del campo, o meglio, di quel poco che è rimasto del campo ad Auschwitz-Birkenau, il vero teatro dello sterminio».

Goldkorn. «Il luogo dove la vita del prigioniero durava poche ore, perché dai vagoni si passava direttamente alle camere a gas».
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Di Cesare. «Ecco, di quella parte si è conservato pochissimo. Ripeto: va bene visitare quel luogo e ascoltare i testimoni. Il mio timore è che, finito il pellegrinaggio, affievolitasi l’emozione, tutto venga liquidato. Importante è studiare e riflettere. Vorrei aggiungere che una certa musealizzazione della Shoah può provocare grandi ipocrisie. È perfino possibile andare in pellegrinaggio ad Auschwitz, esprimendo lì per lì pietà per le vittime, e al ritorno condividere parole antisemite su Facebook o Twitter o rilanciare slogan razzisti».

Goldkorn. «Parliamo dell’uso politico della memoria. Ágnes Heller diceva che il nazionalismo era il peccato originale dell’Europa. Però, non tutti i nazionalismi portano al fascismo e perfino non tutti i fascismi finiscono con creare Auschwitz. Ammesso che esista, la lezione della Shoah è: non possiamo restare indifferenti, non possiamo permettere che migranti anneghino in mare, che bambini muoiano nei carrelli degli aerei».

Di Cesare. «Per quanto mi riguarda ho un concetto ben più negativo del nazionalismo, che ritengo un gravissimo pericolo. Di più: considero la «nazione» un’entità fantasmatica. E penso che sia venuto finalmente il tempo di denazionalizzare le menti. Da allora la cornice politica non è molto mutata. L’Europa resta un coacervo di Stati-nazione. Prendiamo, ad esempio, il tema della cittadinanza. Non è stato fatto molto. I passaporti europei sono un duplicato dei passaporti italiani, spagnoli, francesi.... Chi perde la nazionalità resta fuori dalla cittadinanza europea. Questo è grave. Soprattutto se si pensa al passato, quando, nel 1935, con le leggi di Norimberga, gli ebrei tedeschi diventarono apolidi. Non trovarono rifugio nel contesto europeo. Da lì all’internamento il passo fu breve. E oggi il problema resta, sia per gli europei, sia per i tanti profughi. Possiamo dire di vivere ancora all’ombra di Auschwitz perché per noi è sempre ovvio il campo di internamento – un’invenzione novecentesca - l’idea, cioè, che sia lecito internare o far internare (come in Libia) esseri umani. C’è un mondo di Stati e un mondo di campi. È una terribile eredità. Ha senso il confronto tra quel che è avvenuto decenni fa e quel che avviene oggi? Per me sì».

Goldkorn. «Potrei citare ancora una volta Edelman che paragonò la Sarajevo assediata dai serbi al ghetto di Varsavia, e così aveva fatto un uso radicale della propria memoria a difesa di chi era aggredito. Però dovrei obiettare: internamento non significa sterminio».

Di Cesare. «Il campo di internamento non è in nessun modo campo di sterminio. Ma ambedue fanno parte dell’universo concentrazionario. Il principio è internare ed escludere. Ci sono gradi e differenze, ma c’è anche, purtroppo, una continuità».

Goldkorn. «Finiamo in bellezza. Alla lettera. La memoria vive prima di tutto nelle opere d’arte, nella letteratura, nella poesia. E se pensiamo alla poesia come a una verità, a rappresentare la Shoah meglio di tutti è un poeta che non è mai stato ad Auschwitz, Paul Celan».

Di Cesare. «Sì, quest’anno ricorre il centenario della nascita e 50esimo della morte. Celan è stato forse il maggiore poeta di lingua tedesca nel Novecento. Non è possibile, però, etichettarlo solo come "poeta della Shoah". Ma certo è riuscito ad articolare il rantolo in cui minacciavano di soffocare per sempre le vittime e a incidere questa ferita nel tedesco, quella lingua madre che era divenuta purtroppo la lingua della morte».