Ricevimenti, banchetti, catering producono centinaia di porzioni di troppo. Una coppia di sposi ha fondato un’associazione che salva queste pietanze che finirebbero tra i rifiuti. E le recapita in tempo reale a chi si sta impoverendo sempre di più

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Fate largo ai Foodbusters, gli acchiappacibo, supereroi del quotidiano che lottano per sottrarre alimenti allo spreco e donarli a chi ne ha bisogno. Un’associazione di circa 16 volontari, di varia età e professione, che recuperano e ridistribuiscono le eccedenze in collaborazione con enti caritatevoli, case-famiglia, privati. T-shirt candida e logo colorato, raccolgono le vivande dai matrimoni, ma anche dai meeting aziendali, dalle mense, da eventi di ogni tipo.

Vestiti i panni del Foodbuster, individuano il surplus e lo conducono nel giro di pochissimo a destinazione. A uso e consumo immediato dei meno fortunati. Una moltitudine aumentata a dismisura ultimamente, per colpa del Covid e della grande crisi economica che l’epidemia dischiude. Le prospettive sono tenebrose, e sono già qui, adesso. L’istituzione più conosciuta in questo segmento del terzo settore, il Banco alimentare, ha reso noto che il ricorso ai suoi aiuti è lievitato del 40 per cento.

Il contatore dei nuovi poveri sta andando in tilt, e lo confermano, dal loro osservatorio privilegiato, due acchiappacibo della prima ora, Diego Ciarloni e la moglie Simona Paolella. Esperto in comunicazione (e attore e regista amatoriale) lui, psicoterapeuta lei, entrambi tra i quaranta e i cinquanta, hanno fondato questa onlus nel 2017 insieme a Marcello Santalucia, a sua volta impegnato sul fronte dell’assistenza ai malati oncologici. «Lo vediamo coi nostri occhi che la classe media si sta impoverendo sempre di più», dicono all’Espresso. «Le faccio ascoltare un messaggio audio WhatsApp che abbiamo ricevuto poco fa».

Si sente la voce, intrisa d’emozione, di una donna. «Mamma mia, la roba è tanta, veramente tanta. Anche l’olio mi serviva. Tutto perfetto. Grazie di cuore, vi mandiamo un abbraccio grande grande. Vi vogliamo tanto bene». «Stamattina a questa famiglia abbiamo portato davvero di tutto: tagliatelle, frutta, verdura, funghi, insalata, pane, riso, molta pizza, brioches, latte, biscotti, cioccolata», racconta Simona. «Sono quattro persone, compresi i due figli e il marito, l’unica fonte di reddito, ha perso il lavoro a marzo per il coronavirus. Era un operaio specializzato. I servizi sociali erano stati allertati: erano agganciati alla Caritas, che però ha talmente tante richieste, di questi tempi...».
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Siamo a Falconara Marittima: è qui, e nella vicinissima Ancona, il quartier generale dei Foodbusters. Ma le loro imprese un po’ alla Marvel e un po’ alla libro Cuore non si limitano alla regione Marche: intervengono in Sicilia, Umbria, Emilia Romagna, Abruzzo. Ogni blitz a fin di bene viene documentato in diretta Facebook. E non dimenticano di provare a trasmettere agli altri i loro superpoteri: vanno a parlare di spreco e dei suoi contravveleni nelle fiere, alle conferenze, nelle scuole. Perché chiunque di noi può diventare un foodbuster, non servono kriptonite o scudi di adamantio: basta il mantello di una presa di coscienza attiva, capace di trasformarsi subito in piccole iniziative concrete, dal carrello della spesa alla doggy bag. Volontariato puro.

«Non ci guadagniamo nulla, da un punto di vista materiale. Ci bastano il carburante, la nostra macchina, i raccoglitori, i costi vivi». E qualche spicciolo in arrivo dal cinque per mille. Il lockdown non li ha piegati. «Dopo qualche settimana di smarrimento, ci siamo riconvertiti», aggiunge Simona. «Non era più possibile prelevare e smistare cibo cotto e abbiamo perciò introdotto il sistema delle spese solidali».

Le prove generali di questa avventura avvennero col loro matrimonio. Diego: «Propendemmo per una formula minimale, ma era pur sempre uno di quei pranzi nuziali dove ci si rimpinza ben oltre il bisogno e alla fine avanza un mucchio di ottimo cibo, programmato per la spazzatura. E allora mettemmo subito le cose in chiaro con i nostri pochi ospiti: tutto il cucinato in esubero lo avremmo regalato ai senzatetto. Fummo sommersi dagli applausi, e nella nostra testa si accese la lampadina».

E così il recupero dai pantagruelici banchetti di nozze è diventato la loro bandiera, la loro cartina di tornasole. «Sono canoni di dilapidazione alimentare al diapason, e si tratta di pasti importanti, in cui lo spreco suona sfacciato, fastidioso», a parlare è ancora Diego. «E in questo modo, inoltre, si festeggia meglio, con l’anima sgombra: i commensali sanno che le rimanenze finiranno in buone mani, che tutto quel ben di dio non sarà sciupato e farà anzi la felicità di chi patisce la fame».

I foodbusters sono rimasti fedeli all’illuminazione di quel giorno d’amore: distribuiscono sì cibo extra, ma di qualità. «Ed è migliore di quello che acquisterebbero sulle piattaforme di food delivery, se ne avessero i mezzi». Anche questa è restituzione di una dignità. «Mediamente, per ogni nostro intervento, che sia un matrimonio, un compleanno, un battesimo o un diciottesimo, recuperiamo cento porzioni di pietanze squisite e fresche di giornata, opera di chef, che trasportiamo nella mensa sociale più vicina o disponibile», raccontano. «Questo per fargli fare meno strada possibile. Prima del nostro arrivo, in ogni caso, il ristorante ne assicura la perfetta salvaguardia igienica, tenendole al forno o in frigorifero. Noi in seguito le dividiamo per tipologia e anche per credo religioso: se c’è del maiale lo segnaliamo su un’etichetta, per evitare che venga rifiutato, e sprecato, da eventuali beneficiari musulmani. Non buttiamo a caso nel calderone, seguiamo criteri di omogeneità».

In base a studi recenti, ogni anno si buttano via, in Italia, 65 chili di cibo pro capite. Una quantità che, secondo il Food Sustainability Index, ci colloca al tredicesimo posto europeo in questa classifica non certo gloriosa. Spreco all’ennesima potenza: allargando l’orizzonte all’intero pianeta, la frutta e la verdura che dissipiamo annualmente ha avuto bisogno di oltre 73 milioni di metri cubi d’acqua per essere prodotta. Restando a livello globale, il cibo sprecato ha un costo di 2,6 trilioni di dollari l’anno, è un terzo del quantitativo complessivo e concorre ai cambiamenti climatici degenerativi provocando l’8 per cento delle emissioni di gas serra.

E poi c’è uno dei problemi più brucianti di tutti: la povertà di ritorno, e quella mai redenta. Piccole, grandi realtà come i foodbusters si battono per contribuire a sanare, dal basso, la ferita permanente dell’ingiustizia sociale. Il diritto al cibo miscelato con temi come l’ecosostenibilità e l’economia circolare. L’eccedenza alimentare letta come una nuova e forse inaspettata opportunità a 360 gradi per le comunità. Gli alimenti in procinto di diventare un cumulo di rifiuti indifferenziati che si riscattano e diventano invece risorse che sfamano, offrono un’occasione di reintegro sociale e creano valore economico ed etico. «

È una battaglia anche culturale. Chiunque fa qualcosa contro lo spreco, aiuta se stesso oltre che gli altri», ragiona Diego. «Le sovrabbondanze alimentari sono veramente infinite: ristoranti, eventi, hotel, mense scolastiche, catering, aziende agricole. E soprattutto i supermercati, che donano i prodotti in scadenza alle associazioni che corrono a prendersele. Ma occorrerebbe una fotografia costante dello spreco, come con i virus, per fissarne natura e picchi. Le catene della grande distribuzione organizzata dovrebbero rendersi disponibili a queste indagini. Purtroppo rispondono picche, perché temono di farsi cattiva pubblicità. Quando è l’esatto contrario: avrebbero un robusto ritorno d’immagine, data la crescita dei consumatori responsabili e virtuosi».

La legge nazionale di riferimento sul recupero e la ridistribuzione delle eccedenze alimentari è la n.166/2016 (o legge Gadda), che sostiene, tra le altre cose, che «se tu, attività qualsivoglia, ci dimostri che riesci a recuperare e donare i surplus, io Stato ti sforbicio quella percentuale di Tari, di tassa sui rifiuti che eviterai. Peccato, però, che questa normativa non sia stata applicata praticamente da nessun Comune in Italia. E non è nemmeno colpa loro: di fatto, viene scaricata tutta la responsabilità sugli enti locali, già gravati da bilanci sempre più miseri». Eppure i fondi risparmiati per il mancato pagamento della Tari «potrebbero essere adoperati per finanziare, a costo zero, il lavoro sociale. Per dare cioè un’occupazione, non soltanto cibo, a chi l’ha perso e si ritrova catapultato nel girone dei dannati della nostra epoca».

Uniti nella vita, e dal desiderio di fare la loro parte con passione, davanti agli occhi di Diego Ciarloni e Simona Paolella scorrono flash e frammenti di un discorso solidale. Come quella volta che si precipitarono a recuperare il di più di un matrimonio festeggiato in un ristorante di Montegranaro, tra Ascoli Piceno e Fermo. «Noi ci muoviamo con la nostra auto, che di solito è sufficiente per caricare tutto quello che riusciamo a raccogliere. Ma in quell’occasione i pasti donati assunsero dimensioni mastodontiche. Non solo ci diedero l’eccedenza: visto che il lunedì sarebbero rimasti chiusi, aprirono ben quattro celle frigo e ci fecero portare via tutto quello che contenevano. Sarebbe servito un furgone, altro che la nostra solita auto privata».

Soluzione, due viaggi andata e ritorno. Nel primo, con due ore abbondanti di carico/scarico, trasferirono cornucopie di pesce freschissimo alla Caritas di Fermo. Ritorno alla base, altre due ore di lavoro e «quando arrivammo con la seconda ondata di donazioni gastronomiche ci si parò davanti una scena che non dimenticheremo mai. Famiglie, con numerosi bambini, che stavano divorando gli scampi che avevamo portato noi un’ora prima. Tutta roba che sarebbe morta nel pattume stava regalando gioia a persone affamate, che delizie del genere non le avevano mai assaporate in vita loro». Un episodio in fondo in linea col motto foodbusters: “Non salviamo il mondo, ma insieme possiamo provarci”. Una soddisfazione enorme, non inferiore agli stipendi e alle buonuscite dei top manager del food. E questi ultimi non sono supereroi.