"I repubblicani hanno risposto alla grande mobilitazione elettorale dei democratici con una contro-mobilitazione massiccia. E in questo momento lo vedo favorito". L'analisi di Mario Del Pero, professore di Storia della politica estera statunitense a Sciences Po

All’indomani della notte elettorale del 3 novembre, gli Stati Uniti non sanno ancora chi sarà il loro prossimo presidente. Donald Trump, nel corso di una conferenza stampa, ha rivendicato la vittoria del partito repubblicano nonostante sia ancora in corso lo scrutinio dei voti in alcuni importanti Stati in bilico e manchi ancora il conteggio di quelli arrivati per posta in Stati chiave come la Pennsylvania, con i suoi 20 grandi elettori in palio. Per capire quali scenari si apriranno nelle prossime ore davanti ai due candidati abbiamo intervistato Mario Del Pero, professore di Storia della politica estera statunitense a Sciences Po, l'Istituto di studi politici di Parigi.

Il primo dato certo di questa elezione è la sconfitta dei democratici in Florida, c’era da aspettarselo o è una notizia che la coglie di sorpresa?
«La Florida è uno Stato particolare con una realtà tutta sua: un mix di minoranza ispanica, cubana, un elettorato giovane in alcune zone e di pensionati in altre. Quindi è uno Stato sui generis che non è raggruppabile assieme ad altri gruppi di Stati swing, come quelli del Midwest o del sud-ovest. Forse c’era da aspettarselo però è stato un segnale del fatto che Trump certamente fosse molto più competitivo di quanto non indicassero tanti sondaggi. Quindi si poteva perdere la Florida, ma questa ha aperto una dinamica che per il momento sembra avvantaggiare Trump e che ha ristretto di molto le opzioni possibili per Biden, per giungere ai fatidici 270 grandi elettori».

Un altro dato è che Trump sembra aver retto l’attacco democratico meglio del previsto. Lei cosa ne pensa?
«Trump sembra essere andato decisamente meglio delle previsioni. Il dato poi dovremo valutarlo con calma una volta che avremo le informazioni complessive. Però l’impressione, molto forte, confermata anche dalla Florida e dal Texas, è che i repubblicani abbiano risposto a questa grande mobilitazione elettorale dei democratici con una contro-mobilitazione massiccia. C’erano stati alcuni segnali: negli ultimi giorni se guardiamo al numero di elettori che andavano a votare, in presenza o con il voto postale, c’è stata una grande crescita degli elettori repubblicani che hanno usato uno strumento che, si pensava, avrebbe avvantaggiato solo i democratici. Quindi il primo dato importante e indicativo è che c’è stata una massiccia mobilitazione dell’elettorato repubblicano, un elettorato meno diviso, meno eterogeneo, anche meno litigioso di quello democratico e questo probabilmente spiega anche il buon risultato di Trump in Florida e in altri Stati».

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Qual è, allo stato attuale dello spoglio, il percorso più plausibile per ciascuno dei due candidati per arrivare ai 270 grandi elettori necessari per diventare presidente?

«Tutto passa, una volta ancora, attraverso il Midwest de-industrializzato. Adesso arrivano delle informazioni sulla Georgia in cui, da scrutinio, Trump sarebbe molto avanti ma mancano ancora più di 1/5 delle schede che per varie ragioni paiono essere concentrate nelle contee di Atlanta o limitrofe, una grande area metropolitana o sub-urbana che dovrebbe avvantaggiare di molto i democratici. Il New York Times mette ancora la Georgia in palio, però il percorso passa attraverso il Midwest. Poiché se l’Arizona - come pare - è andata ai democratici, Biden può vincere conquistando la Pennsylvania e uno tra Wisconsin e Michigan. Oppure anche perdendo la Pennsylvania e vincendo Winsconsin e Michigan: in questo caso avremmo una situazione di pareggio, un incubo. Però ci sono il Nebraska e il Maine che hanno dei sistemi elettorali diversi, assegnano due grandi elettori a chi vince tutto lo Stato e poi i restanti grandi elettori sono eletti per i collegi della Camera dei rappresentanti. Due di questi seggi, uno in Maine e uno in Nebraska, sono contendibili per cui avremmo una situazione di parità - qualora Biden vincesse in Arizona, Michigan e Winsconsin - che potrebbe essere modificata se vincesse il collegio Nebraska 2 o Maine 2. Però per Biden è davvero un percorso impervio, una strettoia, e non so quali siano le sue possibilità reali. Se dovessi sbilanciarmi un po’, mi sembra che in questo momento sia decisamente favorito Trump».

In quali Stati devono ancora essere contati i voti per posta e dove è probabile che modifichino maggiormente la situazione?
«La partita si gioca tantissimo in Michigan e Pennsylvania. Il voto postale in Pennsylvania potrebbe avere un impatto molto pesante. Michigan e Winsconsin erano dati con largo vantaggio dai sondaggi a Biden ma bisogna vedere se verranno confermati. La Pennsylvania meno, ci sono degli indicatori preoccupanti per i democratici. In molte contee dell’Ohio de-industrializzato, alcune contee dell’Indiana, che sono comparabili alla contea idealtipo di questi Stati del Michigan e della Pennsylvania, Trump è andato addirittura meglio quest’anno rispetto a quattro anni fa. E questo è un campanello d’allarme forte per i democratici, perché vuole dire che quella base elettorale lì Trump è riuscito non solo a preservarla ma anche ad ampliarla».

Come vede la performance dei due partiti in questa elezione?
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«C’è un alto tasso di partecipazione elettorale, quindi evidentemente le due parti sono state capaci di mobilitare i propri elettori. Pare che in alcuni pezzi del sud e del sud-ovest - come la Florida e il Texas - Trump sia andato meglio del previsto con i segmenti dell’elettorato ispanico, che è spesso conservatore sul terreno culturale e su quello dei cosiddetti “temi etici”. E pare che un pezzo di quell’elettorato lì, Trump sia riuscito a catturarlo. Di certo ha catturato i cubano-statunitensi della Florida, il che non era scontato, perché si tratta di un elettorato che è cambiato nel tempo e si era fatto più giovane e meno legato a una logica da Guerra fredda, alla mitologia dell’esodo dall’isola castrista. Un elettorato giovane che aveva appoggiato per esempio l’apertura a Cuba di Obama del 2016 ma che sembra essere tornato a spostarsi su posizioni molto conservatrici».

Cosa ne pensa del Texas considerato, inizialmente, uno Stato contendibile?
«Il Texas è lo Stato contendibile ogni volta della volta successiva. E il risultato in Texas sembra essere andato molto male per i democratici rispetto alle aspettative. È uno Stato particolare: è dinamico, ha dei grandi agglomerati metropolitani sub-urbani con forti insediamenti universitari come Houston o Austin, che sono pienamente integrati in un’economia nazionale e globale dei servizi avanzati e, in queste aree metropolitane, i democratici stravincono. Però il resto dello Stato rimane tenacemente conservatore, anzi, sembra quasi diventarlo ancora di più in reazione a queste élite liberal, cosmopolite e globaliste - come direbbero i loro critici - concentrate soprattutto in queste aree metropolitane».

E del passaggio dell'Arizona ai democratici?
«L’Arizona è paradigma di un sud-ovest che cambia ma cambia con una lentezza esasperante per i democratici, e che non dà quel ritorno elettorale che si auspica. Di un sud-ovest che diventa più California. Più California in termini di economia, grandi aree metropolitane, in termini di massiccia presenza di voto di ispanici e più California in termini di presenza di grandi insediamenti universitari. L’Arizona però ha una sua forte peculiarità: più del 60-65% della popolazione è concentrata in una singola contea e grava su pochi nuclei urbani, il più importante dei quali è Phoenix. Quindi è un territorio a bassissima densità abitativa ma a fortissima concentrazione di popolazione in aree metropolitane e sub-urbane. Il che è una condizione vantaggiosa per i democratici, più ad esempio del Texas che ha un profilo più complesso».