La regione che è sempre stata orgogliosa della propria differente efficienza oggi scopre di essere una terra piagata

L'assesspre alla Salute Gallera e il governatore Fontana
Il 22 febbraio, a Casalpusterlengo, nel Lodigiano, nel camposanto dai muri sbrecciati, sotto il cielo della Lombardia così brutto quando è brutto, tra le lapidi storiche con i fiori avvizziti e mielosi, la bara infetta viene calata con le corde, brevemente ha celebrato l’addio sotto il sole latteo il parroco della chiesa dei santi Bartolomeo Apostolo e Martino.

Accanto a lui, una sagoma rattrappita nella luce, modulava il suo dolore il parente stretto della deceduta, la prima vittima di coronavirus in Lombardia, la seconda in Italia, a un giorno dalla scoperta del focolaio di Codogno. Le avevano fatto il tampone quando già era morta, spentasi nella notte accanto al marito, bisogna proprio immaginare ogni atto empio e pietoso in questo tempo virale e vile.

Hanno decretato il contagio, hanno disposto d’urgenza l’inumazione. Si doveva ancora fare esperienza della frenesia da apocalisse in atto, che avrebbe portato la Lombardia dove è adesso: a sessantamila contagiati. Un decimo dei morti totali del pianeta si è consumato qui, nella regione differenziale, che è sempre stata orgogliosa della differenza: il cromosoma tedesco del genio italico, il suo calvinismo ai limiti dell’intollerabile, il lavoro come culto del pudore. L’avanguardia della nazione elabora da decenni i numeri della propria supremazia materiale, senza proporre un contraltare spirituale, nell’idea malata che l’efficienza sia una morale e che dalle opere si misuri una predestinazione.

Ritratto
E alle cinque della sera arrivò Giulio Gallera  
10/4/2020
Questo sistema accelerato e secolare, questa ruralità ammodernata, dominata da un capoluogo che si pensa verticale, ha elaborato l’eccezione definitiva: il primato del virus. Che pure tenta di cancellare, di scotomizzare, scoprendo che l’efficienza era inefficiente e che la prova di realtà è un fatto di anima e non di finzione empatica o di resilienza produttiva.

Un silenzio di censura, di numeri equivoci, di cancellazione della morte vera. Un silenzio rotto dalle conferenze stampa dell’assessore lombardo alla Sanità, il suo volto lucido e lacustre, lo strano dettato con l’inflessione comasca, nonostante sia milanese e, da milanese, emetta non una nota di lutto, ma numeri: il bilancio irrituale dei morti, delle sepsi, degli ascessi polmonari. Perché questo è sembrata e sembra la Lombardia in quelle trasmissioni serali dell’orrore, in cui si snocciolano cifre in luogo di persone, senza prendersi la responsabilità della tristezza più fonda o di una benché minima reazione emotiva: un luogo in cui la pietà la si disbriga di passaggio, mentre si consuma il miraggio confindustriale del dopo, l’idea di una ripresa che riporti nei binari dello sviluppo sperequato, ignorando il cielo cromato sopra quella fossa a Casalpusterlengo.

Su quella fossa, su tutte le fosse, l’idea dell’efficienza cieca infartua e il cuore deve provare un pubblico trasalimento - non per retorica del dolore e nemmeno per automatica ritualità. In quei morti, istantaneamente astratti in cifra, appare enorme e indifferibile il momento di senso, di cura, di pietà, di passaggio che questa tragedia infligge al fenomeno umano su tutto il pianeta e in primis qui, in Lombardia, che di colpo appare ciò che è: una terra piagata, costretta a meditare sulle infinite salme, ma incapace di dirsi che questa è un’ecatombe, è una catastrofe, è l’indimenticabile che avviene in tempo reale davanti agli occhi secchi dell’ipotesi di uno sviluppo infinito.

Si vive un allontanamento dalla morte carnale, pari soltanto al distanziamento sociale dall’amore. Implode su se stesso l’auspicio che l’amore sia il fatto che uno sia per l’altro il coltello col quale fruga dentro se stesso. La giusta comprensione di una cosa e l’incomprensione della stessa cosa non si escludono, come dimostra il caso delle immagini storiche che proliferano qui, nel cuore lombardo del virus. La produzione lombarda di immagini oggettive deve pretendere lo spazio d’anima e l’articolazione delle parole, per esprimersi all’altezza di una lezione inevitabile, che questo tempo impartisce al tempo precedente: noi di adesso, tutti intorno a quella fossa a Casalpusterlengo, contro i noi di prima, quando la realtà ci sembrava un diritto e la trenodia funebre o la danse macabre ci parevano modalità remote o estinte.

Gli errori
Chi sono i responsabili della strage da coronavirus a Bergamo
8/4/2020
Tra le immagini lombarde della tragedia che si consuma di ora in ora in queste ore, gli estremi dell’arco del lutto sono due persone eterogenee, un sindaco e un’infermiera, figure stremate, al contempo distanti e unitarie, che sottintendono tutto il peso delle bare accatastate negli obitori e sui pavimenti delle chiese, nell’ipotesi non teorica della fossa comune, della morte bacillare, dell’impossibilità di baciare il padre, la madre, i figli, i parenti, gli amici morti. Quelle due figure, il sindaco e l’infermiera, rovesciano il paradigma lombardo, si fanno carico di portare i segni della tragedia agli spettatori, che ancora devono accomodarsi nell’anfiteatro e non comprendono che la mitologia è dura ed è ora e non può che parlare di morte. Di morte, non di economia. Non il lavoro è il dramma, ma sempre la morte, lo zero a cui l’umano va incontrando le folate dello spirito, gli incroci del divino. E anche quando sarà la questione economica a prevalere, si tratterà di una tragedia del panico, dell’ansia, del sisma emotivo, che tutta l’umanità lombardizzata avrà da elaborare. I canti funebri sono una verità che ci accompagna dagli esordi della specie: li avevamo dimenticati, l’economia è la disciplina che cancella il canto funebre...

Se c’è un rappresentante istituzionale di questo rovesciamento tra sviluppo economico e morte, che lascia attoniti e senza fiato, è il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: il volto gli si è crepato in rughe di dolore, si è piegato alla forza di gravità a cui costringe la sofferenza. Un uomo positivo, saturo dello spettacolo che egli stesso ha diretto per decenni, incastonato in un’esistenza glam, un campione della sussidiarietà, una mente incline all’astrazione econometrica, un profeta del blairismo più radicale. A cui la vita presenta il conto, segnandolo, marchiandolo, facendolo deragliare, chiamandolo fuori da se stesso. Il suo sembiante pare costellato improvvisamente di cicatrici, i camion militari di notte portano via le salme da Bergamo incidendogli i battistrada sulla pelle, lo sguardo gli si approfondisce in un lutto nitido e irrevocabile, la dialettica gli si affina e diviene implacabile nell’allerta che deve comunicare a una regione inconsultamente distratta, a una nazione che non si accorge.

Accanto al vescovo sta, il sindaco tragico, la mascherina che gli lascia in vista quello sguardo azzurro intensificato, davanti a decine di urne cinerarie, i resti ritornati nella terra natale. È l’unica istituzione che ho visto piegarsi fisicamente sui morti...

E l’altra immagine: l’infermiera a Cremona, esausta, fotografata di spalle seduta mentre dorme stremata, chinato il capo sulla scrivania contro la tastiera del computer, in un bianco e nero drammatico. Il pianeta ha scrutato la salvezza implicita in questa icona, l’immagine ha scalato le homepage di tutto il mondo. È molto piaciuta la grana innocente, l’eroismo angelico di un sonno pubere e confortante: l’infermiera non è un cadavere.

Eleggere a simbolo un cadavere è un’operazione spirituale proibitiva per il contemporaneo. Eppure l’infermiera è sì viva, però ha toccato i morti e ha assistito i morenti, che non si vedono, ma pressano da fuori quell’immagine, nelle corsie fuori dall’obbiettivo, dove immensamente gli anziani e i giovani collassano, nella Lombardia che muore. E che non smette di morire, una terra insanguinata di plasma infetto, dove vivo, dove viviamo tutti, dove si deve alzare esile come un comignolo di fumo nero almeno un canto, per la patria mia, di cui vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e le torri abbandonate dei nostri avi, ma la gloria non vedo, non vedo allori, non vedo i metalli, che caricavano le spalle ai nostri padri antichi, terra resa inerme che mostra nuda la fronte, nudo il petto: dove è il tuo cuore?