Uno stupro di guerra commesso da soldati israeliani. Una donna palestinese decisa a dare voce alla vittima. E al paesaggio devastato dall’occupazione. In uno dei romanzi migliori dell’anno

Adania Shibli è preoccupata per l’intervista sul suo romanzo “Un dettaglio minore”, tradotto dall’arabo da Monica Ruocco per La Nave di Teseo: «Per favore tenga presente che il mio è un lavoro letterario, non giornalistico, spero che le domande lo riflettano...». In effetti non c’è bisogno di porre alla scrittrice palestinese domande sulle condizioni di vita dei suoi in Israele, è tutto spiegato nel testo. Dove la protagonista femminile sottolinea che «incidenti» come quello che è al centro della trama - uno stupro di guerra seguito dall’uccisione della prigioniera - «rientrano nella normalità delle cose o, per meglio dire, sono normali in contesti come questo». Cose che capitano: “Niente di cui scrivere a casa”, direbbero gli inglesi. A meno che tu non sia un autore così bravo da scrivere un libro intero. E da conquistare un posto nella longlist del Booker Prize International, uno dei premi più ambiti del mondo.

 

Il “dettaglio minore” del titolo è la data in cui quel particolare «incidente» era avvenuto: nel giorno del compleanno della protagonista, ma 25 anni prima della sua nascita, il 13 agosto 1949. Durante la guerra contro i paesi arabi confinanti che accompagnò la nascita d’Israele, una pattuglia di israeliani nel deserto del Negev trova un accampamento di beduini, uccide uomini e dromedari e fa prigioniera «una ragazza raggomitolata come uno scarafaggio nel suo abito nero». Il capitano la violenta, la lascia ai soldati per dar loro «l’opportunità di divertirsi con lei», poi le spara e la fa seppellire nel deserto.

 

La prima parte del libro segue il capitano nei giorni dell’«incidente»: caldo, sabbia, il morso di un ragno, la banalità delle giornate di guerra in cui l’unica missione è «ripulire il deserto da tutti gli arabi rimasti». Poi la parola passa a una donna palestinese che legge su un giornale dell’«incidente» e sente il dovere di dare voce a quella vittima dimenticata. Parte quindi per una missione assurda e, per un arabo in Israele oggi, pericolosissima: un pellegrinaggio in auto fino al luogo del delitto. A legare le due parti, una quantità di “dettagli minori” ma essenziali. Come l’autrice spiega in questa intervista.

 

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Perché i dettagli sono così importanti?

« Sono essenziali quando lavori negli archivi, che sono fonti per verificare la Storia, ma sono normalmente creati da chi detiene il potere. In un contesto di colonizzazione e occupazione, sono i colonizzatori e gli occupanti a creare gli archivi, a scegliere cosa conservare. Però la Storia viene prima scritta e poi verificata sulla base di queste fonti. Gli archivi palestinesi sono stati spesso distrutti o confiscati dalle autorità israeliane: come il Palestinian Film Archive e l’Institute of Palestinian Studies, che sono a Beirut, e sono stati saccheggiati dopo l’invasione israeliana nel 1982, o l’archivio della Orinet House a Gerusalemme. La mancanza di archivi, e la loro distruzione quando esistevano, hanno fatto sì che i palestinesi, come ogni altra popolazione occupata o colonizzata, non abbiano voce in capitolo su come viene scritta la Storia, in particolare quella che li riguarda. Ma allora cosa possono fare i colonizzati? Non potendo scrivere “Storia”, perché ciò che scrivono i colonizzati è accusato di essere “non verificato”, l’unico spazio di scrittura affidabile rimane la fiction. A meno che non sia rimasto qualcosa che non è stato notato dai colonizzatori, e per questo non è stato distrutto o cancellato. Questi però possono essere solo dettagli, ed è prevedibile che questi fatti non importanti possano diventare l’unica scelta possibile per scrivere: scegliere un testo minore, una letteratura minore, basata su dettagli così piccoli che sono sfuggiti all’attenzione dei potenti. Mentre pensavo a queste cose, un amico mi ha fatto conoscere le microstorie di Carlo Ginzburg: è stato affascinante scoprire che gli strumenti che io sentivo istintivamente necessari per superare i limiti della Storia, sono adottati anche dagli storici. Dopo aver finito il libro ho letto il lavoro di Saidiya Hartman, che studia i racconti perduti di centinaia di migliaia di africani morti durante il viaggio verso la schiavitù. Hartman suggerisce che attraverso quella che lei chiama “fabulazione”, le storie di coloro che sono stati annientati possono essere ricostruite. A differenza di Ginzburg e Hartman, però, il mio campo d’azione è il romanzo, ed è la letteratura che sta ponendo domande alla storia questa volta, e non viceversa: è fiction, non realtà».

 

Com’è nato questo libro? Ha scritto la prima parte all’inizio o ha lavorato come su due racconti in parallelo?

«Ogni volta che inizio a scrivere capisco subito se il testo sarà un romanzo o un racconto. Però solo la forma mi è chiara: il contenuto è sempre nascosto. Non riesco mai a vedere oltre la singola frase o la pagina che scrivo in ogni giorno. In questo caso, ho scritto la prima pagina della seconda parte, e poi ho smesso. Sono passata alla prima parte ma non sapevo che sarebbe stata la prima parte: pensavo di scrivere un romanzo a sé. Però quella pagina è tornata a cercarmi, e mi ha condotto all’idea di una seconda parte. Non sapevo se sarebbero stati due testi separati o uniti, e in quale ordine, finché, dopo aver scritto l’ultimo paragrafo della seconda parte, non è emerso il paragrafo iniziale della prima. Quindi la prima fase del romanzo è stato l’ultima cosa che ho scritto. Ci ho lavorato per circa dodici anni, quindi il romanzo è vissuto con me, paragrafi e pagine cambiavano posto man mano che traslocavo io. In pratica è vissuto insieme a me, o io sono vissuta insieme a lui».

 

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Le due parti sono raccontate dal punto di vista del protagonista: un “cattivo”, e un alter ego della vittima…

«Non ho mai pensato a loro in questi termini. Entrambi hanno desideri, aspirazioni, ossessioni, come tutti. La vera sfida è stata scrivere la prima parte dalla prospettiva di chi sembra potente e la seconda da quella di chi sembra impotente, usando però le stesse parole. Come nascono le parole, in un caso e nell’altro? Sono complici, le parole? Lo è il linguaggio? Erano queste le mie domande, e sono domande dolorose. Perché amo la lingua, intendo la lingua araba, ma è difficile vedere come le stesse parole possono apparire nella vita di un criminale come nella vita di una vittima. Un’altra questione che mi ha accompagnato è come abbiamo la potenzialità di essere oppressori, un giorno, usando le stesse parole che abbiamo usato prima, nella nostra esperienza di oppressi».

 

Un terzo protagonista è il paesaggio: ma israeliani e palestinesi hanno lo stesso rapporto con il paesaggio?

«Sono due esperienze molto diverse, anche da un punto di vista linguistico. C’è un’esistenza che viene eliminata giorno dopo giorno, mentre l’altra è incoraggiata e protetta. Oltre al linguaggio, che vive questa esperienza di eliminazione opposta all’affermazione, anche il territorio ne soffre profondamente. La terra viene strappata a un gruppo per garantirla a un altro. Come risponde la terra, o la natura, a questo? Essere testimone di un crimine fa differenza per il luogo del delitto? Noi vediamo che le nostre azioni colpiscono la natura, che risponde con il riscaldamento globale, il cambiamento di ecosistemi, quindi anche un crimine come quello del libro può avere un effetto sulla natura, anche se piccolo. Nel caso del Negev, gli effetti si vedono. Il territorio continua ad essere ripulito dai palestinesi e dal loro modo di vivere; le terre vengono strappate, le tende e le case demolite, i campi coperti di erbicidi che uccidono gli animali. Cosa prova la natura in tutto questo? Gli insediamenti israeliani intanto vengono costruiti e ampliati, i terreni coltivati con piante aliene rispetto a quelle usate per migliaia di anni. Di nuovo, che cosa prova la natura davanti a questo? Potrà mai correre in soccorso del più debole?»

 

Gli stupri di guerra sono stati considerati “dettagli minori” fino a pochi anni fa. Il suo libro nasce anche da questo?
«Ho iniziato a scrivere nel 2004, quindi quello che è successo in anni recenti non è rilevante. Ma il libro esamina le sofferenze umane in forme differenti. La sofferenza umana non è un fenomeno nuovo, e tanto meno specifico di un gruppo. La donne hanno sempre sofferto e hanno sempre urlato per far conoscere le loro sofferenze. Però ci voleva qualcuno di potente, qualcuno che fosse bianco, per far notare la loro sofferenza. Le sofferenze delle donne, dei poveri, dei disabili, dei reietti, dei migranti, di chiunque sia diverso dal gruppo dominante e più numeroso, non ricevono molta attenzione. E se ne ricevono, è un interesse “cosmetico” che tende a creare un senso di pietà per le vittime senza cercare però di porre fine al meccanismo che ha causato la sofferenza».

 

Ho letto che il suo libro è stato ispirato da un fatto vero, un crimine di guerra scoperto pochi anni fa…

«Il romanzo è stato ispirato dalla lingua, e da come una stessa lingua funziona per chi ha potere e per chi non ne ha. Cercare un legame con una storia reale è come dire che se in un romanzo c’è un rubinetto, deve essercene uno nella realtà. Se nel romanzo c’è un rubinetto, c’è la parola “rubinetto”. Ogni testo - almeno per quanto riguarda me - è scritto come una storia letteraria. Che sia vero o no, non è rilevante. La realtà di un romanzo riguarda la realtà del linguaggio. Questi sono gli unici legami possibili di un romanzo: con la lingua e con la letteratura».