La corruzione o il comunismo: il Perù al voto con l’incubo del golpe
La figlia di Fujimori che vuole graziare il padre, candidata della destra liberista. Sul fronte opposto, il maestro contadino leader della sinistra radicale anti-corruzione. Si fronteggiano per la guida di un Paese che non vuole più essere povero
L’ultimo marxista-leninista del Continente e la figlia del dittatore. Il maestro di una scuola elementare delle Ande e l’eterna candidata della destra su cui pesa una richiesta a 30 anni di carcere per corruzione. Mai come in questi giorni il Perú freme, si divide, combatte, minaccia tra foschi presagi e rumori di golpe. Domenica 6 giugno si consuma l’ultima battaglia per la scelta del presidente che governerà i prossimi 5 anni.
Dei 18 candidati del primo turno sono passati al ballottaggio i due opposti. Da un lato la leader di Fuerza Popular Keiko Fujimori, 46 anni, figlia di Alberto, per un decennio presidente-dittatore dal pugno di ferro, eroe della sconfitta del terrorismo di Sendero Luminoso, poi fuggito di notte, riparato in Giappone, sorpreso clandestino in Cile, estradato in patria e condannato a 25 anni per violazione dei diritti umani, omicidi, rapimenti e torture. Dall’altro Pedro Castillo, 51 anni, alla guida di Fuerza Peru, maestro e leader sindacale di Chota, un pugno di case arrampicate sulle Ande, due passi da Cajamarca, la città incaica oggi capitale del nord. Il simbolo dell’orgoglio contadino, delle province isolate dalle grandi metropoli dominate dai bianchi, il docente che vuole nazionalizzare le fonti energetiche e le materie prime. L’alfiere del riscatto indigeno alla corruzione dilagante segnata dallo scandalo Odebrecht, l’industriale brasiliano che ha travolto con le sue corruzioni l’intera America Latina e parte dell’Africa.
Il liberismo e il comunismo. Il ritorno del pubblico, il trionfo del privato. Il cambiamento contro la continuità. La distribuzione della ricchezza, da sottrarre alle multinazionali e investire nel welfare; la libertà nella concorrenza per premiare i migliori.
Candidato dalla sinistra radicale, Pedro Castillo ha ottenuto il 19,1 per cento dei voti mentre Keiko Fujimori, con la destra tradizionale, ne ha raccolti il 13,3. Una differenza che si è mantenuta per altre sei settimane. Solo l’ultimo sondaggio di domenica 30 maggio, prima del silenzio elettorale, ha visto un poderoso recupero di questa figlia che ha promesso, una volta eletta, di concedere l’indulto al padre. Adesso dista di soli due punti percentuali dal suo avversario: 48,9 contro 51,1 nelle intenzioni di voto.
Merito dell’endorsement di tutta la grande stampa, media e tv, scese in campo per placare lo shock. Si sono schierati con il male minore. Lo spettro del comunismo, dei Chávez, della Cuba di Fidel e della Bolivia di Morales che allargano i loro tentacoli anche sul Perú. Incubi che fanno presa su una popolazione adesso angosciata di perdere quello che ha conquistato nei dieci anni di crescita economica sorprendente, grazie alle materie prime che il sottosuolo delle Ande offriva alle richieste produttive cinesi e asiatiche. Ma che una corruzione subdola, comoda e dilagante, ha sperperato in mille rivoli e mille trame.
Due presidenti eletti travolti dagli scandali e costretti alle dimissioni, altri due nominati in corsa cacciati da manifestazioni oceaniche. Come i loro predecessori. Alejandro Toledo, riparato negli Usa per sfuggire a un ordine di custodia; Ollanta Humala finito in manette con la moglie; Alan Garcia, suicida con un colpo di pistola mentre gli agenti bussavano alla sua porta per portarlo in carcere.
Eppure, di fronte allo sconquasso di un sistema che vedeva crollare certezze e fortune, dilapidare ricchezze pubbliche conquistate in anni di sacrifici grazie al motore economico di una classe media emersa dalla povertà, meno della metà dei peruviani si è recata alle urne per decidere il suo futuro.
Disillusione, distacco verso una classe politica intossicata dalle tangenti, individualismo imperante, piccoli e grandi interessi, rassegnazione a una realtà che faceva comodo a tanti. Certo, c’era anche il Covid. Con i suoi 65 mila morti ufficiali (ma sarebbero 187 mila) i continui lockdown che colpivano l’economia informale impostata sulle strade improvvisamente deserte. La pandemia ha messo a nudo i limiti e le contraddizioni del neoliberismo. Lo Stato si è trovato impreparato. Le privatizzazioni della salute e dell’istruzione non hanno retto l’urto con il virus venuto dall’Oriente.
Anche qui si sono ripetute le scene strazianti degli ammalati che crollavano davanti agli ospedali stracolmi, le lunghe file di parenti e amici alla ricerca di bombole d’ossigeno per mantenere in vita gli infermi. La perdita dei posti di lavoro, la chiusura delle frontiere, il crollo nelle richieste di materie prime sui mercati internazionali. La realtà si è imposta.
E’ crollato il mito di una ricchezza che era concentrata in poche mani e male distribuita. Chi aveva compiuto il salto sociale è scivolato di nuovo nella povertà. Due peruviani su quattro soffrono la fame. E’ proseguito nell’indifferenza il braccio di ferro tra Parlamento e Magistratura, tra questa e l’Esecutivo. Il paese è rimasto prigioniero dei ricatti e dei veti incrociati. Con fughe di notizie, delazioni, dossieraggi, inchieste e blitz tra le mafie che si spartivano il bottino.
La tempesta politico-istituzionale si è placata per quattro mesi, il tempo di affidare le redini a Francisco Sagasti, un docente imprestato alla politica, e far traghettare il paese verso le agognate elezioni. Il fronte della destra si è presentato diviso con dieci candidati, il centro e la sinistra con altri otto. I voti si sono dispersi. Il Perú si è svegliato con un risultato impensabile e ora è costretto a una scelta che non avrebbe mai voluto fare: la peggiore.
Quella tra un comunista e una corrotta. Tra un maestro di provincia che si presenta ai comizi a cavallo, cappello di paglia in testa, una grande matita in mano, simbolo del partito, e la figlia di un dittatore che la maggioranza disprezza, da molti ricordata come la regista delle tangenti, la donna che ha avallato la scelta scellerata del padre di far sterilizzare a forza decine di migliaia di contadine analfabete in grado di capire solo il quechua.
Lo shock è diventato paura, si è trasformato in terrore, è esploso in rabbia. La gente si divide, si insulta, si minaccia. Le campagne diventano ossessive. Insegne giganti spiccano sulle strade annunciando il pericolo rosso, cartelli scritti a mano vietano l’ingresso ai “cani comunisti” persino nei negozi di animali. Cortei arrabbiati radunano sotto il cielo sempre grigio e depresso, avvolto dalla fredda garua invernale, migliaia di persone che invocano “A morte!” il maestro che vuole espropriare case e negozi. I social alimentando leggende e fake news. La polarizzazione blocca i dibattiti, condiziona i confronti, limita le discussioni, annienta il giudizio critico.
Scendono in campo le stelle dello sport e della musica a sostegno di Keiko, il mondo della scienza e della ricerca a favore del maestro Pedro. C’è la forte presa di posizione di un Nobel della Letteratura come Mario Vargas Llosa. Esorta per due volte a votare per la figlia del dittatore che lo aveva sconfitto nel 1990: se perde, avverte, sarà la fine della democrazia. “Non scegliamo una persona, scegliamo un sistema”, dichiara. Lo affiancano il figlio e Leopoldo López, leader dell’opposizione venezuelana in esilio a Madrid. E’ arrivato fino a Lima, sfidando il Covid e le misure restrittive, a rappresentare gli 800 mila connazionali fuggiti da Maduro che qui cercano di ricominciare una nuova vita. Merce umana da mostrare agli scettici e indecisi: “Così ci ridurranno se vince il comunista”.
Castillo come Maduro. Con un’aggravante che pesa sulle scelte perfino di una parte della sinistra. Il candidato di Fuerza Peru è un conservatore sul piano dei diritti civili. Niente aborto, unioni gay, matrimoni omosessuali, niente identità di genere. Valori rifiutati dalla base elettorale contadina che trovano nel maestro di Chota un suo fervido oppositore. Le donne e i giovani lo abbandonano. Rischiano di essere cancellate conquiste storiche in un paese dominato dal machismo. Di fronte alla prospettiva di un blocco tecnico, di una differenza di un pugno di voti, ecco che diventa fondamentale l’indicazione dei peruviani all’estero. Si mobilitano i consolati, si rilanciano appelli a recarsi alle urne.
Sarà battaglia fino all’ultima scheda. Ma è il clima che agisce sulle coscienze e sulle paure. Come la notizia del massacro di 14 contadini nel Vraem peruviano, l’area della giungla centrale in mano alla narco guerriglia. Con tanto di volantino di rivendicazione farlocco da parte di quel che resta di Sendero Luminoso e la solerte conferma della Dincote, la vecchia polizia antiterrorismo. Un faro sul buio dell’oblio. Serve a illuminare chi all’epoca del terrorismo sanguinario, maoista, marxista leninista, di Abimael Guzmán, non era neanche nato. Sono tornati, alzano la testa. E’ l’incubo che riaffiora.
Colpa di Pedro Castillo e del suo progetto di nuova Costituzione, di riforme sulle pensioni e fisco. Un progetto concepito dal suo vice, Vladimir Cerrón, anche lui condannato per corruzione. Vero mentore del maestro, dichiarato comunista marxista leninista. Erano maestri anche gli ideologi del terrorismo di Sendero, rammenta adesso la destra che soffia sul fuoco, specula su una strage sospetta. Almeno per i tempi e le modalità. Cattivi maestri che in realtà erano professori universitari. Di altra epoca, in altre realtà.
Ma tutto serve per drenare consensi. Comprese le voci che, se perdono, i seguaci di Castillo prenderanno le armi già accumulate nei depositi clandestini, sfuggiti all’intelligence smantellata dagli ultimi governi. Lo spettro di una guerra civile che solo polizia e esercito, autorizzati per legge a votare, possono impedire. Già si parla di frode, prima di votare. La destra di Keiko Fujimori recupera un distacco incolmabile. Vede il traguardo. Se non lo raggiunge, si dice in queste ore, ci penserà un golpe. Trecento alti ufficiali in pensione firmano un manifesto di appoggio alla figlia del loro vecchio presidente.