Analisi
Capire la Russia attraverso i suoi criminali
I boss e i trafficanti sono parte del sistema di potere del Paese e, come agenti che regolano il mercato, dirimono controversie. Tutto nasce dalle scelte di Eltsin che hanno aperto la strada al regime di Putin e dei suoi oligarchi
Quando nel 1994 arrivai a Perm’, nella regione degli Urali, per raccogliere dati per la mia tesi di dottorato, diverse mafie si contendevano la città. Una era guidata da ex funzionari del Kgb e veterani della guerra in Afghanistan, mentre l’altra da ex galeotti appena usciti da prigione e seguaci delle regole tradizionali del mondo criminale.
L’economia pianificata era finita e la violenza su vasta scala permeava gli affari. La domanda di questo libro è semplice: come è possibile che la Russia sia passata dal caos sociale ed economico degli anni Novanta, dove si fronteggiavano diverse mafie e lo Stato era un colabrodo, a una dittatura che ha sostituto l’idea marxista-leninista con quella neo-imperiale e nazionalista di Vladimir Putin?
Per capire questa evoluzione si possono prendere molte strade. Io ho scelto di seguire la vita e le tribolazioni di quattro personaggi che esemplificano momenti diversi di questa trasformazione. Vyacheslav Ivan’kov iniziò la sua carriera durante il periodo del disgelo di Kruscev, quando la maggior parte dei suoi pari passavano la gran parte della loro vita dietro le sbarre. In prigione, questi avevano sviluppato un gergo segreto e un rito di iniziazione e i loro corpi erano coperti di tatuaggi. La setta alla quale appartenevano era nota col nome di ladri-in-legge. Ivan’kov diventerà il più temuto e noto esponente di quella casta, grazie anche al suo trasferimento a New York nel 1992. L’attività principale di Ivan’kov consisteva nel governo violento del mercato proprio negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta: imprenditori che non potevano rivolgersi allo Stato per risolvere le loro controversie contavano su di lui per dispensare una forma del tutto particolare di giustizia. Le riforme permisero a personaggi come Ivan’kov di prosperare.
Durante gli anni Novanta molti osservatori ritennero che Eltsin volesse portare alle estreme conseguenze la trasformazione politica ed economica iniziata in maniera troppo timida nel decennio precedente. Democrazia e mercato sarebbero finalmente arrivati in Russia. In realtà, Eltsin fece in modo di bloccare quella trasformazione. La privatizzazione era per lui un modo di redistribuire le risorse dai vecchi manager “rossi” e trasferirle a un piccolo gruppo fidato di imprenditori. L’opposizione di sinistra e liberale fu anch’essa repressa, un processo che culminò nel bombardamento del Parlamento liberamente eletto nel 1993, nel passaggio di una costituzione autoritaria nel 1994, fino alla guerra in Cecenia del 1999. Pochi in Occidente capirono la natura autoritaria e antidemocratica di Eltsin. Si può essere anti-comunisti e autoritari.
Un alleato cruciale del presidente in quegli anni fu un imprenditore senza scrupoli, il più emblematico della sua generazione, Boris Berezovsky, che iniziò la sua carriera proprio con una joint-venture con un’azienda italiana. Berezovsky, prima di morire suicida nel 2009 in una villa nella campagna inglese non lontano da dove vivo oggi io, fece fortuna attraverso la truffa e la menzogna. Durante gli anni Novanta entrò a far parte del cerchio magico di Eltsin, ne divenne un ascoltato consigliere e beneficiò della redistribuzione delle risorse a favore di una cerchia ristretta di oligarchi. Il regime di Putin consiste in un’evoluzione coerente del processo iniziato dal suo predecessore. Il paradosso è che alcuni dei protagonisti degli anni di Eltsin sono poi diventati vittime della repressione putiniana, come lo stesso Berezovsky. Il nuovo dittatore si è scelto un cerchio di imprenditori a lui fedeli e ha continuato la repressione politica.
Dopo aver liquidato imprenditori legati all’era di Eltsin e i politici di opposizione, il regime cominciò a occuparsi del mondo criminale. Nel 2014, fu impartito l’ordine che dissidenti e criminali che non si adeguavano ai diktat dell’amministrazione carceraria potevano esser stuprati e torturati impunemente. Bisognava reprimere i successori di Ivan’kov: non era ammissibile che esistesse una mafia autonoma e separata dalla Stato. La vicenda di Sergey Savelyev racconta questo snodo cruciale. Arrestato per spaccio di droga, Sergey era un esperto di informatica assegnato all’infermeria del carcere di Saratov, dove gestiva la rete dei computer di una decina di prigioni. Gli venne quindi affidato il compito di scaricare i video delle torture e distribuirli a pochi funzionari fidati. Di fronte all’orrore delle immagini che vedeva decise di scaricarle e, una volta rilasciato, di trafugare il girato in Occidente. I video sono stati pubblicati sul sito di una Ong franco-russa nel novembre del 2021. La violenza dello Stato diventa stupro generalizzato, per colpire chi, in carcere, ancora non si adegua.
Il regime di Putin non è riuscito a modernizzare l’economia. Al contrario, essa continua a essere inefficiente e dipendente dai cartelli. Imprenditori vicini al regime ottengono licenze per controllare il mercato. Il modello di sviluppo continua a essere fondato sull’esportazione di materie prime e l’importazione di tecnologia. Lo Stato è composto da apparati inefficienti e corrotti. E quindi il regime di Putin si è trovato costretto a convivere con una forma molto specifica di criminalità, quella informatica. Quello è l’unico modo per poter portare a termine alcuni dei piani strategici e criminali del Cremlino.
Nikita Kuzmin, l’inventore del virus informatico più potente del mondo, Gozi, è la personalità forse più emblematica di questo gruppo. Gli hacker russi come Nikita operano in relativa autonomia, ma entro confini ben precisi: non possono attaccare obiettivi all’interno della Federazione russa e, quando gli viene richiesto, devono aiutare lo Stato nella sua guerra cibernetica contro l’Occidente. Per questo viene permesso loro di operare con impunità. E così la Russia è diventata un paradiso del crimine informatico nel mondo, insieme a Paesi come il Brasile, la Nigeria e Il Vietnam.
Queste quattro storie ci insegnano che una età dell’oro della democrazia e del diritto post-sovietica è stata brevissima se è davvero mai esistita. Un modo di dire che sentivo spesso negli anni Ottanta in Unione Sovietica era «batti il ferro finché c’è Gorbaciov», una variante di «batti il ferro finché è caldo». In altre parole: approfitta della libertà di parola e di guadagno fino a quando c’è Gorbaciov. L’Occidente non è stato uno spettatore innocente: ha creduto in Eltsin e nel suo circolo di uomini e donne senza scrupoli, permettendo loro di nascondere i patrimoni nelle banche occidentali, senza accorgersi che erano il preludio di Putin. Oggi ne paghiamo tutti le conseguenze.