Cede a Erdogan, subisce i veti di Ungheria e Polonia, è costretta al dialogo con Egitto e Iran, cerca di affrancarsi dalla Russia di Putin da cui dipende energeticamente e rischia di finire nelle mani della Cina. Dossier su tutti i fronti diplomatici gestiti male che, se non si cambia rotta, possono mettere fine al sogno Continentale

Quando il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha posto il veto all’entrata della Finlandia e della Svezia nella Nato all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina era chiaro a tutti che stava compiendo la mossa d’apertura dell’ennesima partita a scacchi con i leader dell’Unione europea. A Bruxelles è conosciuto come «il ricattatore in capo», uno dei dittatori più abili sullo scacchiere mondiale, che, forte della posizione geografica della Turchia, ponte tra Est e Ovest del continente euroasiatico, e dell’appartenenza alla Nato, da anni tiene sotto scacco l’Europa. 

 

È stato Erdogan a insegnare al russo Vladimir Putin e al sodale bielorusso Alexander Lukashenko come ottenere denari e concessioni dai 27, utilizzando i migranti come arma: nel novembre del 2015 ottenne tre miliardi di euro da Bruxelles, rinnovati nel 2021, in cambio dell’accoglienza dei migranti respinti dalla Grecia, richiedenti asilo inclusi. Un accordo che nemmeno le sue continue violazioni dei diritti umani - migliaia di dissidenti politici, giornalisti e lavoratori delle Ong sbattuti in carcere - hanno potuto scalfire, a dispetto di ogni proclamata superiorità morale della Ue.

 

Non ha sorpreso dunque che, nel plauso generale, il mese scorso Erdogan abbia scambiato il via libera a Svezia e Finlandia con la vita dei dissidenti curdi e dei seguaci dell’ex alleato e predicatore islamico Fethullah Gülen, che nel 2016 aveva tentato un colpo di stato, oltre che con la rimozione dell’embargo alla vendita di armi alla Turchia.

 

Non solo. Da esperto ricattatore, all’indomani della firma, quando tutti avevano pensato che la questione fosse chiusa, ha puntualizzato che la ratifica da parte del Parlamento turco (da lui controllato), necessaria per l’entrata in vigore dell’allargamento, come quella di tutti i Parlamenti degli Stati membri della Nato, non verrà mai apposta se prima la Svezia non avrà estradato 73 «terroristi», un numero che non figura sul memorandum appena sottoscritto. Il testo dice solo che Svezia e Finlandia dovranno trattare «le richieste turche di estradizione velocemente e con grande cura, prendendo in considerazione le informazioni e l’intelligence fornita dalla Turchia», in accordo con la convenzione europea sull’estradizione. Ma tant’è. 

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I ricatti di Erdogan a Bruxelles non sono l’eccezione. Da qualche anno l’Unione europea, cercando di cucire l’ennesimo compromesso impossibile, ha finito per rendersi facile preda di una serie di Paesi ricattatori, fuori dai suoi confini come al suo interno, che ne stanno logorando la credibilità sull’adesione ai valori fondanti come lo stato di diritto e i diritti umani, l’autorevolezza nelle negoziazioni internazionali e la coesione tra Stati membri.

 

All’interno della Ue, Polonia e Ungheria da anni usano il voto all’unanimità, richiesto dai Trattati sulle questioni di politica estera e di finanza, come strumento di ricatto per fare passare le loro costanti violazioni dello stato di diritto: bavaglio alla magistratura, chiusura di media indipendenti, persecuzione delle comunità Lgbtq, graduale rimozione dei diritti delle donne e via dicendo. Così la Commissione, in base alla norma inserita nel Recovery plan, che lega gli esborsi in denaro al rispetto dei valori dell’Unione, non ha ancora voluto erogare loro i fondi. Ma la Polonia non si è arresa: ha posto il mese scorso il veto sulla ratifica europea in sede Ocse della tassa minima sulle multinazionali al 15 per cento, peraltro già negoziata e approvata dai 27 lo scorso ottobre, riuscendo a ricattare la Commissione europea nell’approvazione del suo Pnrr, seppure condizionandolo al raggiungimento da parte del governo di alcuni obiettivi che restituiscano alla magistratura una certa indipendenza, come imposto anche dalla recente sentenza della Corte europea.

L’Ungheria del premier illiberale Viktor Orban, altro abile ricattatore, ha preso nota. Visto che il suo Recovery plan è ben lontano dal ricevere il via libera, non ha posto anche lei lo stesso veto. In attesa di ricevere un’offerta dalla Commissione. «Con questi comportamenti Ungheria e Polonia minano non solo l’Unione di oggi ma soprattutto quella di domani», dice Antonio Villafranca, direttore degli studi europei presso l’Ispi: l’ingresso auspicato di Paesi eterogenei come l’Ucraina o l’Albania, seppure importante per aumentare il peso geopolitico dell’Europa, è sempre più spesso visto dai leader europei come una possibile occasione per moltiplicare i ricatti. Almeno fino a quando non verrà modificata la “governance” della Ue.

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La debolezza interna è amplificata oltre confine. Paesi come l’Egitto non si fanno scrupoli a utilizzare il loro ruolo di fornitori d’energia e di garanti della sicurezza dei confini meridionali dell’Europa per farsi perdonare crimini sanguinosi come l’uccisione di Giulio Regeni. Oppure, come nel caso dell’Iran, non esitano a tenere in ostaggio cittadini con doppia nazionalità, minacciandoli della pena di morte se non ottengono concessioni militari e politiche. Ancora una volta la Svezia ha offerto il fianco. Il prossimo 14 luglio un tribunale svedese dovrà decidere della colpevolezza di Hamid Nouri, un burocrate iraniano arrestato l’anno scorso con l’accusa di avere eseguito l’esecuzione di massa e la tortura di 5mila prigionieri nel 1988, durante la guerra tra Iran e Iraq su ordine dell’Ayatollah Khomeini. In quella data sarà chiara la sorte del ricercatore esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria Ahmadreza Djalali, docente in varie città europee tra cui Novara, poi arrestato a Teheran nel 2017, accusato di spionaggio in Israele e condannato a morte. «Le autorità iraniane hanno fatto sapere che il suo destino è legato a quello di Nouri, con cui auspicano uno scambio», dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia.

 

A mettere in evidenza la facile ricattabilità europea ci ha involontariamente pensato la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina. Dopo avere pensato per anni che l’ex nemico russo, diventato il «dittatore della porta accanto», si fosse convertito al ruolo di partner strategico dell’Europa, avendone abbracciato il sistema economico, Germania e Italia gli avevano affidato la propria fornitura energetica, dimentiche del ruolo che un tale approvvigionamento ricopre nel garantire la sicurezza di una nazione, e noncuranti del riarmo che la Russia aveva intrapreso da una decina d’anni.

 

Un’ingenuità politica, frutto dell’avidità economica, che resterà nei libri di storia europea. Putin lo sapeva bene quando, dopo avere saggiato il terreno con conquiste parziali di territorio in Cecenia, Georgia e Ucraina, ha deciso di lanciarsi alla riconquista dell’intera Ucraina. Contava di riuscire a tenere in scacco l’Europa con la dipendenza da gas e con contratti milionari. E difatti l’Unione si è trovata con le mani legate: per fermarlo ha dovuto non solo farsi del male ma stravolgere il suo modello economico. L’inflazione alle stelle e un inverno che potrebbe essere straordinariamente freddo per una buona parte della popolazione sono non solo le conseguenze del tentativo di fermare l’espansione militare di Putin ma anche i primi effetti di una completa disconnessione dell’economia europea da quella russa, a cui seguirà un rapido riavvicinamento a quella americana, da cui ci eravamo allontanati soprattutto per volontà dell’ex presidente Donald Trump.

«Adesso il vero pericolo è il passaggio di ricatto», dice Carlo Altomonte, professore associato di Politica economica europea. La Commissione europea ha varato “Repower Eu” per ridurre la dipendenza dai fossili russi, accelerare la transizione verde e aumentare la tenuta di tutto il sistema energetico europeo. Ma il piano punta tutto sulle auto elettriche, i pannelli solari, le batterie elettriche, facendo finta che il contesto geopolitico non sia completamente cambiato e che la globalizzazione non sia finita. «Repower Eu non è realizzabile né economicamente, né politicamente», sottolinea Altomonte. Economicamente perché l’Europa non ha ancora messo a punto la produzione degli strumenti di energia rinnovabile e perché le materie prime potrebbero essere insufficienti.

 

«Se dovessimo mettere un pannello solare su ogni edificio pubblico, come chiede il programma della Commissione, non basterebbe tutto il litio estratto al mondo». E poi politicamente perché l’Unione per produrre sufficiente energia rinnovabile sarebbe costretta a comprare pannelli e batterie dalla Cina, divenendone facile preda di ricatto. Un ricatto che potrebbe alla lunga risultarle letale.

 

Per questo gli Usa hanno cominciato a parlare di “friend-shoring”, ovvero di riportare le produzioni esportate in Cina e in Russia all’interno dei confini degli alleati geopolitici. Un esempio sono le terre rare, i metalli indispensabili delle nuove tecnologie.

 

L’aggettivo «raro» non è dovuto alla scarsa presenza sul Pianeta ma alla loro diluizione nei terreni: servono distese immense per estrarle e l’Europa non ne ha. Per non essere ricattabile dalla Cina, che ha ampio territorio a disposizione e lo sta usando, ma che è sempre più un avversario geopolitico e commerciale, «l’Europa dovrebbe stringere rapporti di amicizia con i Paesi africani, ormai stanchi del colonialismo cinese», dice Altomonte. Smettendo di pretendere che la domanda e l’offerta continueranno a incrociarsi come prima in questa nuova epoca, caratterizzata da ricatti incrociati sempre crescenti.

 

Nel giro di due anni l’Europa si dovrebbe sganciare completamente dalla dipendenza russa: più difficile sarà farlo da quella cinese. La Germania, locomotiva europea, negli ultimi vent’anni ha ottenuto la metà della propria crescita economica dalle esportazioni in Cina e fa fatica a prenderne le distanze. Ma sarà complicato continuare a contare sul mercato cinese senza mettere in pericolo l’intera autonomia strategica europea, nonché la difesa comune. «Dovrà cominciare a esportare più all’interno dell’Unione, che ha la capacità di assorbire la sua offerta, e verso gli Stati Uniti, alzando i salari degli operai tedeschi e creando deficit», dice Altomonte. Cambiando, insomma, il suo modello economico. Esattamente come, in un futuro non troppo distante, potrebbe essere costretta a fare, sul piano istituzionale, l’Unione europea, nell’impossibilità di conciliare gli interessi eterogenei di tutti i suoi membri, nonostante la disponibilità a compromessi sempre più rischiosi.

 

Potrebbe nascere un’Europa a due velocità. Un’Europa a cerchi concentrici. Un’Unione politica e una economica. Comunque la si voglia delineare, la nuova struttura europea potrebbe finire per essere composta da un centro più coeso e integrato politicamente, magari guidato da Francia, Germania e Italia, che insieme rappresentano il 90 per cento della produzione militare e l’80 per cento delle esportazioni, e, contestualmente, da un corpo più ampio, necessario a costruire le economie di scala e a garantire al Continente una solida autonomia economica.

 

La Brexit ha dimostrato che è possibile cambiare tutto. La guerra di Putin rischia di costringerci a farlo davvero.