Sono migliaia i giovani andati via per non essere arruolati. «Amo il mio Paese, i miei genitori sono ancora lì sottoposti alla propaganda. E per me questa è la cosa più dolorosa»

«In guerra non si salva l’anima di nessuno: né di chi combatte né di chi scappa». L’appuntamento con Evgeniy è a metà mattina, nel salone dell’albergo dove lavora, nella grigia periferia di Yerevan, la capitale dell’Armenia. Ha 26 anni, è nato a Mosca, è production designer e regista indipendente. O meglio, lo era. Il 4 marzo dell’anno scorso, mentre i carri armati russi avanzavano verso Kiev, ha deciso di lasciare il suo lavoro, la sua città, il suo Paese. «Iniziava la guerra e non potevamo utilizzare questa parola, pena la prigione, così ho preso il primo volo e sono arrivato qui», racconta a L’Espresso. Evgeniy non voleva combattere. «Quando mi guardo allo specchio, non vedo un guerriero, non vedo un soldato. Non voglio far parte di questo conflitto, mi spiego?», chiede mentre fuma una sigaretta dopo l’altra. Ora condivide una stanza di 35 metri quadrati con altri quattro ragazzi russi, anche loro scappati per non essere arruolati: «Almeno sono libero. Sono vivo». Un anno fa ha aperto un canale Telegram con cui prova a smontare la propaganda: «Ogni mattina scrivo che la guerra non è giusta, normale come vogliono farci credere». Poi, mentre si allontana, dice un’ultima cosa: «Sto solo provando a fare le cose correttamente, a essere gentile, non tutto è in frantumi».

 

Un dolore invisibile lo lega a chi, come lui, ha chiuso con la sua vita passata. Nick Akimov, 26 anni, parla mentre riscalda la voce prima d’incidere il suo ultimo singolo in uno studio di registrazione nel centro della città. Scriveva per un’agenzia di stampa di Mosca, ora pensa solo alla musica. «Leggevo le notizie sulla guerra e capivo che era tutta una grande menzogna. Una menzogna a cui non volevo partecipare». La sua ragazza, però, è rimasta in Russia e ogni tanto va a trovarlo. «Voglio che la guerra finisca per tornare a casa».

 

Nella sala di regia, un altro ragazzo russo mixa la traccia cantata da Nick. Si chiama Serghey, ha 37 anni, lunghi capelli ricci e neri; non ha la minima intenzione di tornare nel suo Paese, dove lavorava come ingegnere per un’azienda straniera che ha chiuso la sede a Mosca dopo l’invasione. «Lì era un inferno. Così ho preso le cose essenziali e sono partito». Una volta in viaggio, ha capito che vuole dire essere un esule russo in questo momento. «In un bar di Tbilisi, in Georgia, si sono rifiutati di darmi da bere. Mi hanno chiesto: “Perché sei qui? Perché non protesti contro il tuo governo?” Non sapevo cosa rispondere». Alla stessa domanda, un anno dopo, ribatte: «Ho capito che non sono un eroe e che non voglio marcire in galera».

 

Al piano di sotto c’è un grande locale. Sia i gestori sia i clienti sono perlopiù russi scappati dopo l’annuncio della mobilitazione parziale da parte di Vladimir Putin a settembre scorso. «Non vedo futuro per il mio Paese», racconta Vitaly, 29 anni, mentre beve una birra: «Io però sono fortunato. Sono informatico per un’azienda statunitense che ha una sede a Yerevan e non ci ho pensato due volte...». Una scelta comunque non facile: «Amo il mio Paese, i miei genitori sono ancora lì. Perché loro si bevono la propaganda. E per me questa è la cosa più dolorosa». Un conflitto anche generazionale, dunque, che divide le famiglie. «Dovremmo essere orgogliosi della cultura russa, dei poeti, della musica, della letteratura. Non dell’esercito».

 

Chi lascia la Russia è malvisto dalle autorità in patria. «Sono la feccia, dei traditori», aveva commentato Putin dopo il primo grande esodo. Ora, però, starebbe provando a convincere i lavoratori dell’informatica come Vitaly a rientrare attraverso incentivi. «In questo momento, solo in Armenia, ci sono circa 40 mila russi, il numero più alto di sempre», conferma il viceministro degli Esteri armeno, Paruyr Hovhannisyan: «Molti sono giovani informatici, ma tanti hanno aperto altre attività, spinti dal fatto che il russo è ampiamente parlato nel Paese». Tra loro, Anastasia che da ottobre lavora con suo marito in un ristorante: «Lui cucina, io sto alla cassa. Quello che facevamo a San Pietroburgo, ma con la preoccupazione per i nostri amici ucraini». Sulla strada una band russa rallegra i passanti suonando, ma c’è poca voglia di parlare: «Cerchiamo solo un po’ di normalità, cerchiamo di vivere onestamente».